Tu, sanguinosa infanzia
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Tu, sanguinosa infanzia

  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Tu, sanguinosa infanzia

Informazioni su questo libro

«Se diventare grandi può rivelarsi un'illusione o uno strazio, l'infanzia - perduta o ritrovata che sia - resta per sua natura qualcosa di intimamente sanguinoso: un'età ferita».

Mario Barenghi

«Nel suo fanatismo rimembrante Mari fa spesso scoccare scintille di poesia. Ma le pagine dedicate a Urania sono per noi il massimo: mai ci siamo sentiti tanto gratificati».

Carlo Fruttero e Franco Lucentini

« Otto scrittori è un racconto che si legge con una commozione che dura dall'inizio alla fine, e nella quale entrano malinconia, gioia e ammirazione. Chi come me fa il critico letterario prova una grande invidia per chi lo ha scritto, uno dei più bei racconti italiani degli ultimi dieci anni».

Domenico Scarpa

«La mitologia di Michele Mari è quella del grande romanticismo tenebroso. Ama la tenebra: attraversata da lampi e da sottili scie luminose. Attorno ad essa, la sua sapiente retorica forma una interminabile eco, facendo risuonare la sua voce attorno alle voci molteplici della letteratura».

Pietro Citati

E se da qualche parte nel tempo fosse custodito tutto ciò che abbiamo amato da bambini? Il passato raccontato da Michele Mari è quello mitico e irrecuperabile dell'infanzia, eroso negli anni da una diaspora di oggetti e sentimenti il cui ricordo continua a sanguinare. Ma in questi racconti non c'è mai il rimpianto di una perduta età dell'oro, perché la violenza immaginifica dell'autore opera un recupero altissimo di emozioni infantili legate a un universo in cui le sole figure amiche sono quelle dei propri personali mostri e di pochi, semplici ma «fatidici» giocattoli.
«Ciò che hai amato anche un solo mattino, tenertelo stretto fino alla morte» diventa un imperativo totalizzante, e così un album di Cocco Bill può avere più valore dell' Iliade, mentre la gelosia per una compagna di classe continua a suscitare struggimenti e antagonismi senza fine. Ogni pagina spalanca abissi di malinconia dove fanno irruzione visioni fantastiche e terrificanti, in cui riecheggiano nitide le voci degli autori più amati - Stevenson, London, Poe, Melville. Così i giardinetti che accolgono gli svaghi pomeridiani dei bambini diventano lande inospitali, dove s'aggirano tremende creature mitologiche come le Antiche Madri; così un puzzle segna l'iniziazione a un'ascesi quasi monastica, così le copertine di Urania o le canzoni degli alpini diventano la palestra di ossessive elucubrazioni mentali, e tutto è tanto più feticisticamente inventariato quanto più la vita sembra cosa riservata ad altri.
Una narrazione di trasalimenti e precoci nevrosi, condotta con commozione ma anche con feroce umorismo dalla voce inconfondibile di Michele Mari. Il ritorno di un libro uscito da Mondadori nel 1997, e già considerato da molti un piccolo, imprescindibile classico.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806195434
eBook ISBN
9788858403211

Otto scrittori

C’erano una volta otto scrittori che erano lo stesso scrittore. Tutti scrivevano del mare e delle sue tremende avventure, tutti usavano parole meravigliose come bastingaggio e bompresso, tutti conoscevano la geografia piú lontana, i venti, le faune, le flore, le costellazioni, il computo della posizione, da quella conoscenza ricavando profondissimi affanni; mi facevano ardere della stessa sete e dello stesso delirio, rabbrividire per la stessa tempesta, sprofondare nello stesso identico flutto. La stiva di cui parlavano aveva una sola tenebra, il segreto del capitano non si scioglieva mai, parole e cose passavano intercambiabilmente da un libro all’altro con fantastica continuità, e la mappa… la mappa era spezzettata in tanti frammenti distribuiti in ognuno di quei libri, bisognava averli letti tutti, ricordarseli tutti, confonderli tutti.
Gli otto nomi di quell’immenso scrittore erano questi: Joseph Conrad; Daniel Defoe; Jack London; Herman Melville; Edgar Allan Poe; Emilio Salgari; Robert Louis Stevenson; Giulio Verne. Una volta si faceva chiamare in un modo, una volta in un altro: quei nomi erano come le fasi della luna, come i molti assetti velieri di un’alberatura, come gli instabili responsi di uno stesso scandaglio. Una frase come «la livida luce dell’alba gli permise di verificare quanto fosse fondato il suo timore: nella botticella non restava piú una goccia d’acqua», di chi era? Potevano averla scritta tutti, l’avevano scritta tutti. Oppure: «Gonfi di rhum, giacevano sul ponte senza badare a lui», oppure: «Ridiscese per prendere il sestante, ma nel quadrato si imbatté nel gigantesco cinese», oppure: «un tremolío, là, vicino alla costa, come se dalla laguna…», «…quanto al secondo, non ho mai visto uomo piú…», «…chissà se quei selvaggi…», «…cedette con uno schianto…», «…uno strano segno che ricordava una croce…», «…immobile…», «…da Sud-Est…», «…spruzzi…», «…locanda del…», «…incosciente…» E anche i personaggi erano i personaggi di un unico grande libro. Nello sciabordio della mia mente incantata Achab e Lord Jim, Benito Cereno e Silver, Gordon Pym e il Capitano Nemo, Larsen e Babo, Billy Budd e Jimmy Wait, Van Weyden, Jim Hawkins, Sandokan, Leggatt, Pencroff, Mac Whirr, Queequeg, il Corsaro Nero, Amasa Delano navigavano nelle stesse acque incrociando le rotte, inseguivano le stesse prede, duellavano a morte per poche ghinee o per una frase scortese, si rispettavano, stringevano amicizie indissolubili; feriti, mutilati, fasciati da bende sanguinose arrancavano sui tavolacci delle loro navi, urlavano orribili bestemmie, sfidavano in una volta sola il nemico, la furia del mare, la ciurma ribelle, il pesce mostruoso, l’arcano del loro passato. Tutti, indistintamente, perseguivano un loro fanatico fine; una stessa ossessione li divorava, ed io ero divorato con loro. Per questo, forse, quelle avventure mi apparivano cosí necessarie e fatali, tanto piú autentiche quanto piú si aggiravano attorno ai medesimi temi con la maliosa ripetitività di un sogno ricorrente. Mi bastava un attacco come «Nell’anno 18** il brigantino Rangoon…» per sapere che tutto stava per ricominciare, e questa certezza, se mi trasmetteva un’eccitazione smaniosa, anche mi inoculava le prime stille di un veleno che nel corso della lettura si sarebbe diffuso in tutto il mio organismo insieme alla trepidazione e all’incanto. Annullando ogni distinzione fra vita e letteratura, provavo il malessere di chi si sa votato allo scorbuto e al razionamento dell’acqua, al giro di chiglia, al tradimento, all’umiliazione, alla morte. Avrei potuto evitare il naufragio, o la bonaccia, o la deriva, o l’ammutinamento, o il contagio, o l’abbandono: qualcuna di queste cose forse avrei potuto evitarla, ma non tutte: almeno una di esse mi spettava, per sapere quale dovevo solo attendere. Su quell’angoscia la mia passione si gettava avida, tutta infiorandola di una meraviglia morbosa.
Leggevo come immerso in una grande tenebra attraversata da lampi e solcata da sottili scie luminose: come avviene quando si fondono troppi colori, quell’oscurità nasceva dalla sovrapposizione di tutte le estenuanti attese di una vela all’orizzonte, di tutte le abbandonate solitudini, di tutte le mugghianti tempeste, di tutti gli abbacinati languori, di tutte le discese negli irremeabili abissi, di tutte le delusioni davanti alla vacuità di un forziere, di tutte le efferatezze di catena e di lama: satura ridondanza in cui i barbagli di luce erano creati dallo sfrigolio di un nome di naviglio, dall’idea di una vela squarciata, dall’immagine di un Jolly Roger, dalla parola boccaporto, piccoli incendi che subito venivano riassunti nel nero, come teste di naufraghi sommersi dall’ultimo flutto. E c’era un fragore fischiante, dentro quel nereggiare di pece, in cui riconoscevo le sue voci, le otto voci di quel proteiforme narratore che possedeva le vie del mio cuore. Questa esplorazione, mi diceva una di quelle voci, te l’ho già raccontata una volta; queste parole, diceva un’altra voce, le hai già incontrate là, e là, e poi là; e un’altra: i cenci di questo figuro, non sono della stessa tela che rivestiva quel tale, in quella certa pagina? E sempre il monito che questo era questo ma anche quello se non soprattutto quello, e che non si dava navigazione che non fosse incominciata in un libro già letto e che non proseguisse in un libro da leggere.
Quelle voci mi frastornavano, perché nella mia gratitudine io le ascoltavo tutte con la medesima serietà. Certo li amavo di un identico amore, quei magnifici bisbigliatori, come dal piú grande al piú oscuro si amano indistintamente tutti i giocatori della propria squadra; e proprio in guisa di squadra io me li venivo elencando, come un sol uomo, via, a fendere schiume! Ma giunse il momento in cui incominciai a trovare in quel tipo di ascolto qualcosa di dispersivo, come se da tanta coralità – tutte quelle storie combacianti, tutta quella rifrazione – le parole venissero indebolite e le avventure perdessero il filo. Il filo del taglio voglio dire, la drammaticità. Cosí, a poco a poco, prese corpo in me il sospetto che fra quelle otto voci ce ne fosse qualcuna leggermente meno autentica, una voce che leggermente stonando rendesse sfuocati i confini delle cose: non certo per frode, questo non volevo nemmeno pensarlo, e nemmeno per incapacità, ma solo per una sostanziale differenza di interessi: a qualcuno stavano a cuore altre cose, qualcuno aveva sempre parlato di altre cose, e ingannato da coincidenze esteriori io avevo creduto di essere chiamato da lui sugli stessi pontoni dove mi chiamavano gli altri; come in uno stampo avevo versato dentro di me anche quel difforme narrare senza interrogarmi sulla sua natura: l’errore era mio, e l’unico modo per rimediarvi era di restituire a quel sequestrato la sua libertà. E mentre cosí riflettevo, un nome già mi aveva attraversato il pensiero come una stella cadente. Sgomento da ciò che mi sembrava un odioso abbandono volli tornare indietro, e per questo carezzai lungamente il mio ottetto: ma ormai quel nome aveva lampeggiato, ed io non potevo piú fingere di ignorarlo. Infatti nei giorni seguenti continuò a lampeggiare come il fanale di un vascello alla deriva nel buio: un lunghissimo cavo ancora lo tratteneva agli altri sette, ma c’era un dignitoso dolore, in quella lucina lontana, che mi chiedeva l’atto pietoso del taglio. Conoscere quel nome aveva significato ripudiarlo, ed era un bene, per lui come per me, che le nostre strade si separassero. Cosí alla fine lo pronunciai, e il cavo fu reciso.
«Giulio Verne» dissi, e come un abitatore dell’Ade Jules Verne si allontanò su acque coperte di asfodeli, svanendo ombra nell’ombra. Nelle settimane successive, tormentandomi su quel distacco, mi ripetei che era stata una cosa necessaria, perché quello scrittore, che tanto avevo amato e che continuavo ad amare di non scemato amore, non era una maschera dell’altro dai molti nomi, ma un’entità a sé stante, con caratteristiche troppo divergenti perché io potessi continuare ad ignorarle. Insistere avrebbe prodotto una lacerazione nel tessuto generale delle storie, e io di nulla avevo paura come dell’incongruenza. L’Isola misteriosa, quel libro che a lungo avevo associato all’Isola del tesoro e a tutte le altre isole avventurose, non incominciava forse con un viaggio in aerostato? Un viaggio in «aerostato»! Si poteva immaginare qualcosa di piú lontano dallo spirito antico di quei barbari racconti di arrembaggi, di ammutinamenti, di sepolti dobloni? Qualcosa di piú «parigino»? Era una verità ovvia, eppure per tanto tempo ero riuscito a negarla. Tutta quella meraviglia tecnologica, tutta quell’ansia di modernità, non proiettavano i libri di Verne in avanti, nell’orribile tempo nostro? Non il tempo di Achab, non il tempo di Silver: il tempo nostro. Ventimila leghe sotto i mari era un romanzo bellissimo, e pagine come quelle sulla foresta di corallo non si sarebbero mai cancellate dalla mia memoria: ma nei motori del Nautilus, ora che li ripensavo, avvertivo un po’ troppa scienza, come un vago sentore di scuola. Tornai all’Isola misteriosa, ritrovai capitoli, come il diciassettesimo della prima parte, aperti da sommari come questo: «Visita al lago. La corrente rivelatrice. I progetti di Ciro Smith. Il grasso del dugongo. Impiego delle piriti di schisto. Il solfato di ferro. Come si fa la glicerina. Il sapone. Il salnitro. Acido solforico. Acido azotico. La nuova cascata». Esibendo un tale manifesto pedagogico-didascalico come una prova inconfutabile convocai gli altri sette, li interrogai muto, e Defoe disse: no, manca di levità.
E Poe disse: no, come si fa la glicerina, puerile!
E Melville disse: no, sembra scritto da un accademico tedesco.
E Stevenson disse: no, l’avventura è l’errore.
E Salgari disse: no, l’avventura è l’Oriente.
E Conrad disse: no, la precisione è la morte dell’arte.
E London disse: no, il sapere vero è l’azione.
E tutti insieme aggiunsero, e fu un macigno, che non vedevano un certo mare, il loro mare dov’era?
Mi sentivo un vile, avevo lasciato che lo condannassero loro. Cercai disperatamente di risarcirlo, ma era tardi. Addio meraviglioso scrittore, gli dissi. Sei un altro scrittore, ma resti meraviglioso ugualmente, della meraviglia del salnitro e delle piriti.
Cosí adesso il mio scrittore aveva sette nomi, e le sue storie non avevano piú sbavature. Tutto congruo, tutto intonato, tutto stretto come le fibre di un canapo. E sette era un numero di tale prestigio da porre l’opera di quell’eletta sotto una luce sacra: le sette penne, le sette chiglie, i sette sigilli, le sette sillabe del Nome… Tuttavia proprio questa suggestione mistica era destinata a corrompere in breve volger di tempo ogni possibile idea di solidarietà. Perché abituandomi a pensare a quei nomi in termini di rivelazione, fui indotto fatalmente a considerarli non piú come sinonimi di pari verità, ma come gli involucri l’uno dell’altro in una successione concentrica dal piú esterno al piú interno, dal meno vero al piú vero.
Appena mi resi conto di cosa questo significava inorridii, come se davanti a me si fosse spalancata una voragine. Ed ero ancora lí, immobile sul bordo vertiginoso, quando mi apparve un omino vestito di nero con una grande parrucca bianca sul capo.
«Per servirvi signore», disse con soavità, «cioè per togliervi d’imbarazzo: ecco qui la mia penna, che rimetto simbolicamente nelle vostre mani. Prendetela, e il vostro umile servitore farà ritorno in patria con il primo veliero. Come vedete, è un’offerta troppo vantaggiosa perché possiate rifiutarla».
«Perché proprio voi?»
«Perché sono nato nel 1660, che è un anno davvero un po’ troppo lontano per il genere di cose che piacciono a voi. Oh lo so bene, voi siete un amante di tutto ciò che è antico, basta che qualcosa non sia moderno (non dico contemporaneo, ch’è per voi vocabolo osceno) perché già vi seduca, in questo siete posseduto da… come dire, da un fanatismo, ecco, da un fanatismo veramente singolare. Ma ammetterete, mio grazioso lettore, che c’è passato e passato – voglio dire che ogni diverso tipo di passato ci lega a sé in un modo diverso – e qui si sta parlando del mare, capite? del mare come dimensione metafisica dell’avventura, uso la parola avventura nel suo senso piú alto, e insieme nel piú basso, che sono poi lo stesso, insomma ci vorrà un grande senso della natura e della sua energia e del suo arcano, e un altrettanto grande senso della coscienza e dell’incoscienza, è difficile per me parlare di queste cose, nel mio tempo non esistevano ancora, perché mai credete che adesso io mi tiri da parte?»
«Ma quel libro», lo interruppi, «è il libro di un genio».
«Un gran bel libro, sí, non voglio negarlo. Ma siate giusto: tolti alcuni capitoli iniziali, dov’è il mare? Il cassero, il casseretto, i pennoni da bracciare? E poi lo sanno tutti che sotto le spoglie romanzesche ho scritto un saggio di economia, un eroe marinaro dev’essere un folle, un maledetto, un malato, il mio invece, ah, homo oeconomicus lo chiamano, non ditemi che questo vi affascina, l’accumulazione del capitale, la divisione del lavoro, tutta quella contabilità, e ditelo, sú, che in confronto alle mappe ingiallite e alle gambe d’avorio vi son sempre sembrate materia da filistei…»
«Ma voi avete anche scritto un seguito, di quel libro, in cui le mappe ci sono, e tanti pirati, tanti arrembaggi, tanti ammutinamenti».
«Non fatemi il torto di questa indulgenza, ho abbastanza discernimento per sapere che una continuazione posticcia non ha alcun titolo per rappresentarmi. Io sono tutto in quella laboriosità, immagino che ricorderete, agricoltore, vasaio, fornaio, sarto, persino ombrellaio…»
«E naufrago, però, un naufrago rimane per sempre un naufrago…»
«Apprezzo i vostri sforzi, ma se non volete congedare voi l’ombrellaio ci penseranno loro».
E Poe disse: no, è roba da benpensanti.
E Melville disse: no, manca il soffio dell’epica.
E Stevenson disse: no, la via dell’avventura è quella della dilapidazione.
E Salgari disse: no, la favola è il lusso.
E Conrad disse: no, è di un’ingenuità imbarazzante.
E London disse: no, quel signore non ha mai lasciato la City.
«Visto? Ora facciamola finita e salutatemi, che ho voglia di tornare alle mie gazzette».
Allora dissi: «Onore al signor Daniel Foe in arte Defoe, autore del libro intitolato La vita e le strane, sorprendenti avventure di Robinson Crusoe di York», e un attimo prima che egli scomparisse aggiunsi: «Del marinaio Robinson Crusoe».
Dunque la strada era quella, dolorosa e spietata. Come un inflessibile comandante non può, dopo aver fatto severamente punire un uomo dell’equipaggio, condannare ad una pena diversa chiunque nel prosieguo della navigazione si renda colpevole dello stesso reato, cosí io non potevo piú fermare la mia ricerca. Perché se la verità – l’essenza! – della letteratura marinaresca si celava nel cuore di quella rosa, se l’ultima compiutezza era là in fondo, nel centro, io dovevo scoprirla attraversando i libri ed i nomi come si attraversano i tempestosi oceani, quando per fedeltà alla rotta segnata si trascurano i profili di terre lontane e i giorni e le notti si perdono nella scia della nave.
Avevo sei nomi, ed uno era quello della mia fanciullezza. Quel nome mi si offrí inerme, indifeso nell’evidenza grafica con cui si stagliava per me sulle grosse copertine illustrate. Cercai di resistere, di non immaginarlo subito come lo strato piú esterno, mi dissi che il fatto di averlo incontrato per primo nella mia vita non significava che anche adesso dovesse essere il primo; che non potevo farmi complice di tanti luoghi comuni, di tanti sorrisetti odiosi; che questa volta non sarebbe bastato dire «Sei un altro scrittore, ma resti meraviglioso ugualmente», perché ogni distinzione, anche la piú leggera, sarebbe stata un rinnegamento.
E invece, sprofondando nella vergogna dell’ingratitudine, lo persi. Lo persi con tutta la mia infanzia, e fu tale la tristezza che in segno di rispetto vietai al mio cervello di enumerare gli elementi di impurità che potevano giustificare quella scelta. Perché la sua infinita generosità non meritava che né io né altri giudicassimo i suoi libri, i suoi cento libri scritti tutti con la stessa cannuccia tenuta insieme da un filo di cotone. E infatti Poe rimase in silenzio con gli occhi bassi, e Melville spezzò la sua penna, e Stevenson venne con un ramoscello di erica in fiore, e Conrad portò un’alta onorificenza della Marina inglese, e London si levò il berretto e lo gettò in mare. E dietro di loro comparve un altro gruppo di persone, e con un brivido che era insieme di gioia e di pena riconobbi Sandokan, la Tigre della Malesia; e Yanez de Gomera, il portoghese; e Kammamuri e Tremal-Naik; e il Conte di Ventimiglia detto il Corsaro Nero; e Wan Guld, il fiammingo; e una delegazione di filibustieri della Tortuga; e ad una voce dissero: noi andiamo con lui, e io lo pensai in quel bosco alle porte di Torino, tutto solo con un rasoio in mano, e l’universo non mi sembrò mai cosí orrendo. E poiché era calato il silenzio, sentii che anch’io dovevo dire qualcosa, e dissi: «In virtú dei poteri conferitici dalla mente amorosa noi qui conferiamo al signor Salgari Emilio – nonostante egli si sia ritirato anzitempo dal Corso di Gran Cabotaggio presso l’Istituto Nautico Paolo Sarpi di Venezia, e nonostante egli abbia al suo attivo, correndo il suo diciottesimo anno di età, soltanto un viaggio da Venezia a Brindisi in qualità di mozzo – la patente di Capitano cui egli teneva tanto», e sopra un pezzettino di carta spiegazzata scrissi «Cap.», e i cinque scrittori vi apposero sotto le proprie firme, e all’ultimo momento arrivarono trafelati anche Verne e Defoe che dissero: aspettate, vogliamo firmare anche noi, e firmarono.
E cosí fu fatto ciò che doveva essere fatto.
Cosí rimasi nel mio quintetto, la cui omogeneità mi illuse per un certo tempo di potere indefinitamente rinviare il seguito di quella brutale semplificazione. Mi ripetevo che il lato oscuro della vita me lo dipingevano tutti; che tutte le loro tempeste erano una sola tempesta e tutte le...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. I giornalini
  5. L’uomo che uccise Liberty Valance
  6. Le copertine di Urania
  7. Mi hanno sparato e sono morto
  8. L’orrore dei giardinetti
  9. Otto scrittori
  10. La freccia nera
  11. Certi verdini
  12. Canzoni di guerra
  13. E il tuo dimon son io
  14. Laggiú
  15. Indice