Epilogo.
Imperi, nazioni, archivi
1. La fine
Ci vollero trent’anni perché il processo di Galileo tornasse a Roma.
La richiesta di restituzione, beninteso, iniziò immediatamente dopo l’abdicazione di Napoleone. Le ricerche che Marino Marini svolse nella capitale francese tra 1815 e 1817, tuttavia, non ebbero ragione dei rifiuti opposti con argomenti vari dai ministri borbonici e dai funzionari ex napoleonici, a cominciare da Daunou1. Il manoscritto si «smarrì» fino a che, nel 1820, Giovanni Battista Venturi, un fisico e uomo politico repubblicano di Reggio Emilia alle prese con la biografia del grande filosofo, ne chiese notizia ai colleghi dell’Institut. Risultò allora che Barbier, confermato bibliotecario reale, aveva effettivamente trattenuto l’incartamento. Venturi ebbe copia dei materiali già tradotti, che utilizzò per il secondo volume delle Memorie e lettere inedite [...] di Galileo Galilei. Intanto, Jean-Baptiste Delambre, segretario dell’Institut, messo in allerta dalle ricerche dell’italiano, ne rivelava altri particolari nella sua Histoire de l’astronomie moderne2.
Con la rivoluzione orleanista, però, il fascicolo partì in esilio al seguito del deposto Carlo X nei bagagli del conte Blacas d’Aulps, e solo alla morte di questi fu fatto pervenire a papa Gregorio XVI. Dopo la seconda Repubblica romana e un’altra invasione francese (questa volta in difesa del papa), Marini, ormai custode dell’Archivio Segreto, ne pubblicò alcuni brani in Galileo e l’Inquisizione, una storia apologetica del sacro tribunale, risposta differita a Daunou, Venturi, Ranke e «molti altri storici eterodossi», nonché memoria difensiva del proprio operato nei turbolenti tempi napoleonici3. Solo alla vigilia di Porta Pia uno studioso esterno all’Archivio Segreto Vaticano, Domenico Berti, ottenne il permesso di consultarlo4.
Le peripezie del processo di Galileo sono una delle celebri dislocazioni d’archivio che seguirono al crollo dell’impero napoleonico. Non era stato facile formare l’archivio del mondo all’hôtel de Soubise, e non fu meno complicato disfarlo e ricollocare i documenti confiscati nella nuova mappa archivistica d’Europa, disegnata per metà dagli interventi francesi e per metà dagli Stati-(proto)nazione della Restaurazione.
Il trattato siglato nella Parigi occupata il 30 maggio 1814, che ristabiliva provvisoriamente la Francia nei confini del 1792, prevedeva la restituzione degli archivi relativi ai territori ceduti e quelli «prelevati» in paesi occupati, con un chiaro riferimento a Vienna (che del resto non aveva mai smesso di reclamarli5). Malgrado l’aggiunta di un codicillo segreto circa le carte del Sacro Romano Impero, fu però assai laborioso per gli inviati di Vienna, coadiuvati da Carlo Altieri passato al loro servizio, individuare il materiale. Furono loro dapprima consegnati documenti del Regno di Italia che erano presso l’ambasciata italica e una trentina di casse prelevate a Parma che non erano state neanche aperte; solo alla fine di settembre 1814 seguirono carte della Cancelleria di Stato e della Galizia orientale, poi di Galizia occidentale e Salisburgo6. In attesa della pace generale, le operazioni erano, a detta degli austriaci, rallentate da Daunou che «ci mette[va] tanta lentezza quanta cattiva volontà »7, mentre gli impiegati francesi (anch’essi in attesa di conoscere la propria sorte) schedavano in tutta fretta il materiale straniero da restituire8.
Pure i delegati del Piemonte e della Santa Sede recuperarono qualcosa, ma non gli emissari della Repubblica di Genova, la cui sorte era già segnata9. Intanto, gli agenti dei paesi colpiti dalle guerre napoleoniche cercavano «come dei cacciatori», senza neanche coordinarsi tra loro, opere d’arte e altri beni confiscati (la quadriga di Brandeburgo tornò trionfalmente a Berlino)10. Era, questo, un terreno più erto dal punto di vista del diritto delle genti (in Italia, per esempio, le cessioni erano state inserite negli armistizi). I francesi, del resto, vi si opponevano e le cancellerie europee temevano di indebolire il nuovo re Luigi XVIII, che dal canto suo non esitò a dichiarare che «i capolavori dell’arte» appartenevano ormai alla Francia per diritti «più stabili che quelli della vittoria». La riprova fu l’inaugurazione, nonostante l’indignazione dei ministri stranieri, della grande mostra sulle Écoles primitives de l’Italie, de l’Allemagne et de plusieurs autres tableaux de différentes écoles, con le tavole requisite da Denon in mezza Europa.
Il reperimento dei faldoni e delle opere d’arte era in corso quando Napoleone evase dall’Elba e tornò fulmineo a Parigi. Dopo Waterloo, però, le potenze vincitrici cambiarono atteggiamento: mentre la stampa in patria si infiammava di toni patriottici, imposero le restituzioni con le armi – nel Palazzo degli archivi furono addirittura acquartierati dei dragoni prussiani. Nel giro di tre mesi, mentre si svuotava il Louvre e si perlustrava la Biblioteca imperiale, furono rimesse all’Austria più di duemila casse, inclusi finalmente gli atti del Reichshofrat nonché il resto delle casse di Parma11. I documenti relativi ai Paesi Bassi austriaci prelevati a suo tempo a Vienna furono consegnati ai rappresentanti austriaci, che ne selezionarono 236 volumi e rimisero il resto al nuovo Regno d’Olanda; furono poi fatti arrivare a Bruxelles, nucleo dei futuri archivi nazionali del Belgio12. Lodovico Costa recuperò per i Savoia carte e mappe catastali, libri, manoscritti e antichità della Biblioteca universitaria di Torino e molte opere d’arte piemontesi e liguri, e il cavalier Karcher ottenne gli archivi di Siena e una parte dei dipinti e oggetti del granducato di Toscana13. Presero la via del ritorno i manoscritti orientali di Vienna, libri, gemme, cammei, i cavalli di San Marco, i grandi marmi e i codici del Vaticano e una parte delle tele prelevate in Italia, nelle Fiandre, negli Stati tedeschi, in Spagna14. Furono accolti al loro arrivo con feste, processioni, fuochi d’artificio ed esposizioni a Firenze come a Colonia e a Berlino, dove la mostra delle opere recuperate fu il primo passo verso l’apertura di una galleria pubblica.
Intanto, si setacciavano gli archivi di mezza Europa alla ricerca di titoli e incartamenti da spostare secondo la nuova mappa politica, un’operazione che si protrasse per decenni. Persino i venerandi archivi del Reichskammergericht, assegnati inizialmente alla Prussia, furono dopo lunghe trattative divisi tra gli Stati tedeschi15.
2. Archivi smarriti, archivi spaesati
In questa gran retrocessione di carte, non tutto funzionò.
Se localmente l’ostacolo principale fu il disordine in cui versavano i depositi delle prefetture16, a Parigi si presentarono problemi di diversa natura.
In primo luogo, com’era frequente a margine dei trattati, la Francia non voleva cedere carte relative a territori che erano, o erano stati anticamente, francesi. Perciò ci volle più di un secolo, nonostante reiterate richieste, perché una parte dei documenti prelevati a Simancas ripartissero: precisamente nel 1941, quando Pétain, che era stato ambasciatore a Madrid, li restituì come atto di amicizia al generale Franco. Ma anche allora gli arch...