Irene era arrivata quando nessuno se l’aspettava piú.
Per esempio quando io avevo già quarantadue anni e fumavo venti rosse al giorno dalla maggiore età .
Segni di fumo su di me non ce n’erano: la pelle resisteva come al primo giorno di università , quando il chiostro di Lettere mi aveva risucchiato per promettermi che avrei studiato quello che volevo, e che quello che avessi imparato sarei diventata io. Io al cinema a quattromila lire, io a letto con chi volevo, io chiusa per ore in biblioteca come un’investigatrice a cercare libri che erano in consultazione da troppi anni sul comodino dei professori. Io con la sigaretta in mano pronta a smettere quando avessi voluto, quando sarebbe stato giusto, nel momento in cui avessi progettato un figlio.
O per esempio Irene è arrivata il giorno in cui avevo fatto fila al sindacato per cinque ore nello smog di piazza Garibaldi, e alla fine, conteggiato tutto, e riscattati anche gli anni dell’università , mi avevano detto che no: la pensione quasi non l’avrei avuta, o comunque molto tardi e senza liquidazione.
E io allora me l’ero fatta a piedi per tutta via Marina, rinunciando ai tram bloccati dalle macchine sui binari, respirando tutti gli scarichi che il mare non riusciva piú a chiamare a sé. A piedi sui marciapiedi, scansavo i cartoni e i materassi degli immigrati, con una strana forza dentro le gambe e dentro il fiato. Ero sà piú lenta dell’auto blu del sindaco, ma comunque piú veloce delle ambulanze ferme nel traffico, ed ero arrivata al laboratorio di analisi. E là dovevo avere fatto la faccia di una madonna che non aspettava piú l’annunciazione, perché l’infermiera mi aveva portato un bicchiere di acqua e zucchero mentre io telefonavo al padre.
Ma soprattutto Irene era arrivata quando suo padre non se l’aspettava. Era un uomo elegante che mi era passato nella vita recitando frasi molto belle. E la bellezza si era poi rivelata essere l’unico valore che avevano.
Tutto quello che avevamo costruito insieme, era stato uno specchio che rifletteva le nostre solitudini, quelle solitudini in cui ti ritrovi a quarant’anni, quando si è placata l’ansia di fare tutto, e si può cominciare a prendere fiato.
Non era stato un grande amore, era solo stato distratto.
E anche io, che ce ne ho messo di tempo per capirlo, per non telefonargli piú, per vederlo andare via, piccolo uomo come era venuto. Ma non piccolo come una figura vista da lontano, piuttosto senza prospettiva in un mosaico bizantino: io sproporzionata al suo fianco e anche Irene, cosà minuscola che nell’incubatrice avevano dovuto avvolgerla tra i cuscini, eppure accanto a lui immensa.
– Ma mo non fate che non venite piú.
– E perché non dovrei venire? Io entro nel nono mese a giugno, dopo l’esame.
– Sà vabbuò, pure mia moglie ha detto cosà per tutti e tre i figli, e poi si metteva a letto con le gambe in aria e non faceva piú niente… voi siete pure di una certa età .
– Ué Gaetano voi tenete quattordici anni piú di me.
– Eh, ma non vi offendete: io mica lo dico per qualcosa… solo che mi metto paura che non ci portate voi all’esame. Dopo centocinquanta ore.
– Dopo centocinquanta ore stiamo messi male, che vi credete che all’esame potete dare del voi alla commissione?
– E che gli devo dare, il tu?
– Il LEI, Gaetano vi dovete imparare a dare il lei. Facciamo cosÃ: da oggi in poi io – Maria – e lei – Gaetano – ci diamo il lei. Fino a giugno.
– Madonna, professoré, e mi sembra di mancarvi di rispetto…
Quando alle sei e mezza siamo scesi tutti, alunni e docenti, a prendere il caffè, Gaetano quasi mi aiutava ad attraversare la strada, allora ho tirato Fabrizio, che mi conosce bene, verso la cassa, e mi sono lamentata:
– Offri tu.
– Stai nervosa?
– Gaetano. È morboso, mi fa sentire la maestrina dalla penna rossa.
– Perché sei incinta, è padre di tre figli.
– No, è un rapporto strano… è da quando gli ho insegnato a scrivere con la sinistra.
Era che dopo aver lasciato tre dita della mano destra sotto una pialla a filo, Gaetano non si era potuto neppure prendere il patentino di fabbrica, perché non riusciva a mantenere la penna tra il pollice e il mignolo: quelli corti che la lama non aveva beccato. E poi anche che mio padre era stato un operaio grosso come un armadio, e per un incidente del genere avrebbe fatto chiudere la fabbrica per cinque sei turni di seguito, fino all’arrivo dei dirigenti da Milano o da Ginevra. Una volta mangiammo per un mese uova e morzelle di baccalà , perché la busta paga era finita subito con tutti gli scioperi che avevano fatto.
«E quelli i giornali ci hanno messo una settimana per arrivare…» diceva lui a tavola senza guardare mia madre che girava la frittata.
Insomma per questa strana forma di affetto io, la sera, quando il custode della scuola ci cacciava bestemmiando noi e tutti i centri di formazione territoriale, dovevo litigare con Gaetano per non farmi riaccompagnare a casa.
– Gaetano, scusa: guarda Luisa, Luisa non se ne va da sola?
– No, professoressa, non mi mettete in mezzo a me: per Gaetano a me mi possono pure uccidere…
– Ma che c’entra, Luisella se ne va con la macchina.
– E se no come ci arrivo fino a Ponticelli: con il metrò dell’arte?
– Dà i Gaetano, me ne vado con Shan, sta dalle parti mie.
– Dà i è tu, mo, professoressa, ci dobbiamo dare il lei.
Shan si faceva prendere sottobraccio senza dire nulla, anche se proprio naturale non gli sembrava, di passeggiare con una donna incinta che non era sua moglie.
Fabrizio aveva il corso di italiano per stranieri e mi raccontava che in classe marocchini e srilankesi facevano fatica anche a guardare in faccia le loro compagne ucraine. All’inizio pensavo che era per questo che non scendevano mai in pausa con noi al bar. Poi un giorno a una ragazza bielorussa era venuta una tachicardia cosà forte che l’avevamo dovuta portare in ospedale.
– Si è drogata? – aveva chiesto l’infermiere.
– Un caffè ha preso.
Lei poi ci aveva tenuto a spiegare che il caffè è una droga potente. Noi le avevamo creduto perché al suo paese era laureata in Chimica, in classe si annoiava, la sera leggeva Carlo Emilio Gadda.
– Ma perché vieni a scuola tu? – le chiedeva Gaetano con una punta d’invidia e molto dialetto.
– Perché mi serve la terza media per essere assunta nel mio livello.
– E che lavoro fai?
– Sto in un’impresa di pulizia, al centro direzionale.
Insomma quella volta si era capito che gli alunni stranieri non scendevano al bar perché non potevano bere il caffè, e perché il tè delle bustine gli faceva schifo.
Sotto il braccio di Shan mi sentivo tranquilla. Non perché lui abitava al Cavone, che era poco dopo casa mia, ma perché su di lui proiettavo un’aspettativa.
Io passavo spesso per il Cavone dove una volta vivevano i napoletani, e ora ci vedevo i negozi di artigianato indiano, e gli alimentari con la verdura che ancora costava quanto deve costare la verdura. E mano mano che scendevo vedevo i phone center, gli internet point, e i negozi di musica bollywood, le ludoteche e gli asili di quartiere, padri che accompagnavano i bambini a scuola mentre le mogli erano a servizio dai notai di Posillipo, e sui muri manifesti pieni di lettere arricciate che invitavano a chissà quale evento culturale. E allora mi stringevo al braccio di Shan aspettando il giorno in cui avremmo avuto un elettorato di srilankesi, il giorno in cui questi bambini che ora giocavano a cricket a piazza Dante sarebbero diventati grandi. Uno sarebbe diventato un custode, al posto del custode della mia scuola che ci odiava perché non poteva piú fare i comodi suoi, e neppure poteva vendere le merendine ai cinquantenni, e un altro sarebbe sicuro diventato un preside al posto della mia preside, che si sentiva invasa dalla scuola serale, che doveva pagare la bolletta dell’elettricità anche di sera, senza che noi organizzassimo recite per l’assessore e senza nemmeno poterci inserire nel piano per l’offerta formativa. Ne ero sicura mentre sentivo Shan parlare, e parlava sempre meglio, sempre meglio, glielo avevo detto io a Fabrizio: «Fai bene il tuo lavoro, che salverai la città ».
Pensavo questo tutta contenta quando Shan all’incrocio mi lasciò e io cominciai a provare un dolore rotondo e forte, per cui andando verso casa sentii che qualcosa dovevo fare, che se no non sarei stata tranquilla, e invece di continuare presi la salita degli Incurabili, che porta a un pronto soccorso. Al pronto soccorso dove mi avrebbero rassicurata, o dato qualcosa, o detto che tutte le donne al sesto mese cominciano a sentire questi dolori. E insomma salii senza neppure chiamare nessuno, che tanto dopo un’ora al massimo sarei stata a casa, e già pensavo litiga con l’infermiere, fatti chiamare il medico, compila un formulario idiota, però continuai a salire, e la strada greca si arrampicava dritta dietro un palazzo di compensato alto quanto la collina, che era spuntato in una notte o poco piú all’inizio del millenovecentottantuno, come se il terremoto fosse stato pioggia e i costruttori spore a disperdersi tra le macerie.
Poi non pensai oltre, perché la salita si era fatta ancora piú lunga ed erta e mi stava dicendo già da molti passi: «Non si fanno i figli a quarantadue anni».
Il Celestone è un farmaco che aiuta il feto ad aprire i polmoni. Io quella sera non lo sapevo ancora, però sapevo che il medico di guardia aveva detto a un’infermiera di iniettarmelo. E lei non l’aveva fatto.
– Quella sostanza che lei ha chiesto, non me l’hanno fatta.
– SÃ, signora, quella è un’iniezione.
– Appunto, non me l’hanno fatta.
Lui, mentre sferrava l’autorità sulla ragazza, mi fece una faccia a dire che tanto non sarebbe cambiato molto, e io da qualche parte questo pure lo avevo capito, ma almeno giocavamo ad armi pari. Io stesa su una barella con la Vasosuprina che mi rallentava le contrazioni e mi spaccava il cuore, lui a fine turno, in attesa del cambio; però lo stesso ad armi pari. Tanto lo sapevo, che da eretta o da stesa, con qualcuno pure ci avrei litigato.
Invece non litigai con nessuno perché il medico tornò e disse che ormai era troppo tardi per tutto, che non potevano piú fermare le contrazioni, che la bambina sarebbe uscita dall’utero.
– Viva?
– Signora… la faccio parlare con il neonatologo, intanto se vuole un cesareo mi deve dare il suo consenso all’anestesia.
– Che alternativa c’è?
– Lasciare fare alla natura.
Io guardai attorno a me oltre la luna artificiale della lampada allo iodio, vidi vetrine asettiche piene di medicine e ferri chirurgici, due studentesse strutturande che si scambiavano informazioni su qualcosa che non avevano capito, un uomo in camice che odorava di amuchina, e oltre la finestra lampioni e strade. Pensai al mio comodino, su cui si alternano gocce di ansiolitico e tazzine di caffè, al cellulare di qualcuno che squillava nel corridoio, allo psicologo che da anni mi restituiva la stessa immagine di me che io gli lanciavo, solo deformata in modo diverso. E mi ritornarono anche in mente le parole da astronave che mi avevano detto al pronto soccorso quando si erano dati per sconfitti, e mi avevano caricato in ambulanza: «La portiamo in un centro di terzo livello». Allora, siccome a me la parola natura mi faceva pensare a una donna accovacciata a sgravare in un campo di grano, dissi:
– Fate voi.
– La bambina nascerà si...