La morale concerne l’individuo nella sua singolarità. Il criterio del giusto e dell’ingiusto, la risposta alla domanda «cosa devo fare?» non dipende in sostanza dagli usi e costumi che io mi trovo a condividere con chi mi vive accanto, né da un comando di origine divina o umana – dipende solo da ciò che io decido di fare guardando a me stesso. In altre parole, io non posso fare certe cose, poiché facendole so che non potrei piú vivere con me stesso. Questo vivere-con-se-stessi è qualcosa di piú della coscienza o dell’autocoscienza che sempre mi accompagna nel fare certe cose e nel dire che le sto facendo. Essere con se stessi e giudicare se stessi è qualcosa che concerne il pensiero, e ogni processo di pensiero è un’attività in cui io parlo con me stesso di tutto quanto accade e mi riguarda. Il modo d’esistere tipico di questo dialogo silenzioso tra me e me lo chiamerò adesso solitudine. Ciò significa che la solitudine è qualcosa di diverso dal semplice stare da soli, e soprattutto è qualcosa di diverso dall’isolamento.
La solitudine significa che, pur da solo, io sono in compagnia di qualcuno (vale a dire di me stesso). Significa che io sono due-in-uno, laddove l’isolamento resta estraneo a questa sorta di scisma, a questa interna dicotomia in cui io posso pormi domande e ricevere risposte. La solitudine e l’attività corrispondente, ossia il pensiero, possono essere interrotte da qualcun altro che mi rivolge la parola, o possono essere interrotte – come qualsiasi altra attività del resto – quando mi metto a fare qualcos’altro, o quando sono troppo stanco. In tutti questi casi, il due che io ero ridiventa uno. Se qualcuno mi rivolge la parola, devo replicargli, senza piú parlare con me stesso. Io ridivento uno, sempre nel pieno possesso della mia coscienza e autocoscienza, ma senza essere piú pienamente in possesso di me stesso. Se è una persona sola che mi rivolge la parola e se, come talvolta accade, a quel punto cominciamo a dialogare su qualcosa che aveva occupato la mente del mio interlocutore fino a poco prima, allora posso dire che è come se mi mettessi a parlare con un altro io. E quest’altro io, allos authos, è ciò che Aristotele chiama giustamente l’amico. Se, d’altro canto, io smetto di pensare per ragioni differenti, ridivento comunque uno, poiché quell’uno che io sono è adesso senza compagnia, ma posso magari mettermi a cercare la compagnia di altri – di persone, di libri, di musica – e qualora non la trovi posso essere travolto da un senso di noia e di isolamento. Affinché ciò si verifichi, tuttavia, non è necessario che io sia da solo: posso annoiarmi terribilmente e sentirmi isolato anche nel bel mezzo di una folla. Ma in quel caso non si tratterà di solitudine, non sarò cioè in compagnia di me stesso o di un amico, nel senso di un altro io. Ed ecco perché la solitudine è meno pesante da sopportare dell’isolamento in mezzo una folla – come una volta notò Meister Eckhart.
L’essere da soli che ho definito isolamento si verifica quando non sono in compagnia di me stesso né in compagnia di altri, ma mi occupo delle faccende del mondo. L’isolamento può essere un requisito indispensabile per tutti quei lavori che richiedono la massima concentrazione e possono soltanto essere disturbati dalla presenza d’altri, incluso me stesso. Questi lavori possono essere attività produttive, di fabbricazione di qualche nuovo oggetto per esempio, ma non è detto che sia sempre cosí: anche studiare o semplicemente leggere un libro sono attività che richiedono un certo grado di isolamento che ci protegga dall’intrusione degli altri. L’isolamento, poi, può avere pure una connotazione negativa: gli altri con cui io di solito mi occupo delle faccende del mondo possono a un certo punto abbandonarmi. Ciò accade piuttosto di frequente nella vita politica – è questa la triste esperienza dell’uomo politico, ma anche l’esperienza di quei semplici cittadini che improvvisamente perdono il contatto con i propri concittadini. L’isolamento inteso in questo senso negativo può allora essere contenuto solo dalla solitudine, e tutti coloro che hanno un minimo di dimestichezza con la letteratura latina sanno che furono proprio i romani, e non i greci, a scoprire la solitudine e a scorgere nella filosofia uno stile di vita compatibile con la triste esperienza dell’allontanamento dagli affari pubblici. Quando si scopre la solitudine muovendo da una precedente esperienza di vita in compagnia dei propri pari, è pressoché inevitabile dire con Catone che «Mai sono piú attivo di quando non faccio nulla, mai meno solo di quando sono con me stesso». Potete tutti ancora udire in queste parole, credo, la sorpresa di un uomo attivo, in precedenza ben lungi dall’inattività e dall’isolamento, nello scoprire le delizie della solitudine e dell’attività di pensiero del due-in-uno.
Scoprendo la solitudine senza l’incubo dell’isolamento, ecco che allora potete capire perché un filosofo, Nietzsche, abbia presentato i suoi pensieri a riguardo in una poesia (Aus Hohen Bergen, alla fine di Al di là del bene e del male) che celebra il meriggio della vita: in quel momento la disperazione per l’abbandono dei compagni e degli amici scompare, perché «Um Mittag war’s da wurde Eins zu Zwei», uno diventa due. (Esiste anche un aforisma che risale a parecchi anni prima, sui pensieri in poesia, in cui Nietzsche osserva: «Il poeta conduce solennemente i suoi pensieri sul cocchio del ritmo: di solito perché non sanno andare a piedi»16. Ma cosa accade, potremmo anche chiederci garbatamente, quando un filosofo fa altrettanto?)
Cito queste diverse forme dell’esser soli (o i diversi modi in cui la singolarità umana si articola e attualizza) perché è molto facile confonderle, e questo non solo a causa del fatto che tendiamo sempre a lasciar perdere le distinzioni, ma anche a causa del fatto che passiamo di continuo dall’una all’altra quasi senza accorgercene. Il riferimento all’io come canone ultimo della condotta morale esiste certamente solo nella solitudine. E la sua validità è comprovata dalla formula «Meglio subire il male che farlo», in cui – come abbiamo visto – si cela l’idea che è meglio essere in conflitto con il mondo intero, piuttosto che con se stessi. Ma questa validità è tale solo per l’uomo che pensa, o che ha bisogno di se stesso per pensare. Mentre non concerne affatto l’uomo semplicemente isolato o abbandonato.
Pensare e ricordare, abbiamo detto, sono modi in cui gli uomini mettono radici e prendono posto nel mondo – un mondo in cui tutti giungiamo come stranieri. E quella che definiamo di solito persona o personalità, distinta dall’essere semplicemente appartenenti al genere umano, in effetti emerge da questo processo di pensiero che ci fa mettere radici. In tal senso, ho precisato che è ridondante parlare di personalità morale; una persona, ovviamente, può essere di indole buona o cattiva, generosa o avara, aggressiva o sottomessa, aperta o riservata; può avere ogni sorta di difetto, cosí come può essere congenitamente stupida o intelligente, brutta o bella, amichevole o scontrosa. Ma tutto questo ha poco a che fare con ciò di cui stiamo discutendo qui. Se si tratta di un essere pensante, radicato nei suoi pensieri e nei suoi ricordi, di qualcuno cioè che sa di dover vivere con se stesso, ci saranno limiti a ciò che si permetterà di fare, e tali limiti non gli verranno imposti dall’esterno, ma dal suo stesso io. Questi limiti possono cambiare considerevolmente da persona a persona, da Paese a Paese, di secolo in secolo; ma il male estremo e senza limiti è possibile solo quando queste radici dell’io, che crescono da sé e arginano automaticamente le possibilità dell’io, sono del tutto assenti. Quando sono assenti? Quando gli uomini pattinano sulla superficie degli eventi, quando si fanno sballottare a destra e a manca senza dar prova di quella profondità di cui pur sarebbero capaci – una profondità che ovviamente cambia da persona a persona, e di secolo in secolo, sia in ampiezza che in qualità. Socrate credeva che insegnando alla gente come pensare, come parlare con se stessi – senza insegnar loro l’arte oratoria di persuadere e senza l’ambizione di insegnar loro che cosa pensare – avrebbe migliorato i suoi concittadini. Ma se muovendo da questa premessa avessimo oggi la possibilità di chiedergli qual è allora la sanzione per quell’oscuro crimine che viene tenuto nascosto agli occhi degli uomini e degli dèi, egli potrebbe rispondere soltanto: la perdita di questa capacità, la perdita della solitudine e – come ho cercato di mostrare – la perdita anche della creatività. In altre parole, la perdita dell’io che costituisce la persona.
Dal momento che la filosofia morale è sempre stata, dopotutto, un prodotto della filosofia, e dal momento che i filosofi non sarebbero certo sopravvissuti alla perdita dell’io e della solitudine, non deve sorprendere che il canone ultimo della condotta verso gli altri sia stato sempre l’io – non soltanto per il pensiero filosofico, del resto, ma anche per il pensiero religioso. Un esempio abbastanza tipico di commistione del pensiero cristiano e di quello pre-cristiano lo possiamo trovare in Nicola Cusano, che (nella Visione di Dio) mette in bocca a Dio parole assai simili al «Conosci te stesso» dell’oracolo delfico: Sis tu tuus et Ego ero tuus («Se tu sei tuo, Io [cioè Dio] sarò tuo»). Il fondamento di ogni condotta, egli dice, è «che io scelga di essere me stesso» (ut ego eligam mei ipsis esse) e l’uomo è libero proprio perché Dio lo ha lasciato libero di essere se stesso, se lo vuole (ut sim, si volam, mei ispius). A tutto ciò va inoltre aggiunto che questo canone di condotta, benché verificabile nell’esperienza e nel pensiero, non si lascia comunque diluire in specifici precetti o specifiche norme di comportamento. Ragion per cui l’assunto di base di quasi tutta la filosofia morale nel corso dei secoli è entrato in contraddizione con la nostra comune credenza che le leggi del Paese enuncino le norme morali essenziali su cui tutti gli uomini devono concordare, perché Dio lo ha detto o perché cosí impone la natura dell’uomo.
Dato che Socrate credeva che quella che oggi chiamiamo morale, e che in realtà concerne l’uomo nella sua singolarità, potesse anche migliorare l’uomo in quanto cittadino, è giusto tener conto delle obiezioni politiche che furono sollevate già ai suoi tempi e si potrebbero sollevare ancora adesso. Alla pretesa avanzata da Socrate di migliorare i cittadini, la città rispose che in effetti egli corrompeva la gioventú ateniese, minando alla base le idee tradizionali su cui si basava una sana condotta morale. Lasciate che vi enunci queste obiezioni, citando o parafrasando quanto potete trovare nell’Apologia. Socrate, passando il suo tempo a esaminare se stesso e gli altri, nel tentativo di insegnare a se stesso e agli altri come si pensa, non poteva far altro che porre in questione ogni norma e ogni misura allora in vigore. Lungi dal voler rendere gli altri piú «morali», egli intendeva scuotere antiche certezze, e l’effetto era anche quello di porre in discussione un’incondizionata obbedienza. Forse era falsa l’accusa di voler introdurre nuovi dèi, ma solo perché le cose stavano ancora peggio: Socrate «non aveva mai insegnato o voluto insegnare alcunché». Non solo, ma – come egli stesso ammetteva – la sua vocazione lo aveva indotto a condurre una vita privata (idioteuein alla me demosieuein), rifuggendo dalla massa della gente, vale a dire dalla vita pubblica. In parole povere, aveva dimostrato fino a che punto avessero ragione gli Ateniesi quando dicevano che la filosofia andava bene solo per i giovani che non erano ancora diventati cittadini e che, perfino in quel caso, pur essendo necessaria per la formazione, doveva essere praticata con cautela poiché provocava malakia, ossia infiacchiva lo spirito. Da ultimo, l’accusa peggiore di tutte, avallata anch’essa dallo stesso Socrate, era la seguente: tutto ciò cui egli poteva appellarsi per giustificare la sua condotta era una «voce» che parlava dentro di lui, una voce che poteva trattenerlo dall’agire, ma tuttavia non lo induceva mai ad agire.
Nessuna di queste obiezioni va presa sotto gamba. Pensare significa sempre esaminare e domandare, ossia scuotere gli idoli, come a Nietzsche piaceva ripetere. Quando Socrate cominciava a porre domande, nulla e nessuno poteva resistergli – né gli argomenti della gente comune, né i controargomenti dei sofisti. Cosí, il dialogo con se stessi, condotto in solitudine o con altri, perfino qualora si svolgesse nella piazza del mercato, alla fine non poteva che allontanare o disperdere la moltitudine. E quando Socrate diceva che a suo avviso ad Atene non era mai capitato nulla di meglio delle sue punture, simili alle punture che scuotono un grande cavallo, educato ma un po’ impigrito, forse voleva dire soltanto che nulla di meglio poteva capitare a una moltitudine, nulla di meglio che essere dispersa in singoli uomini, vincolati tutti alla propria singolarità. Se ciò fosse davvero possibile, se ogni uomo potesse essere messo in condizione di pensare e giudicare da sé, allora forse sarebbe possibile agire senza norme o regole prefissate. Mentre là dove ciò non si verifica, negando questa possibilità, come la si è negata quasi sempre dopo Socrate, non si può che assistere a condanne come quella proferita dalla polis, che giudicherà Socrate un uomo altamente pericoloso. Chiunque ascoltasse l’esame socratico senza pensare, senza entrare nel processo stesso del pensiero, poteva facilmente esserne corrotto, ossia privato degli standard di riferimento cui si aggrappava senza nemmeno rendersene conto. In altre parole, chiunque fosse corruttibile correva in effetti grandi pericoli con Socrate. A questo paradosso – che lo stesso atto possa rendere buono un uomo e cattivo un altro – allude una volta anche Nietzsche, quando si lamenta di non essere stato capito da una donna: «Mi disse che non aveva alcuna morale – e pensai che avesse, come me, una morale piú severa»17. Si tratta purtroppo di un malinteso abbastanza comune, anche se in questo specifico caso (Lou Andreas Salomé) il rimprovero era assolutamente ingiustificato. A ogni modo, tutto ciò è vero fintantoché ammettiamo che le convenzioni, le regole e gli standard con i quali viviamo ogni giorno non uscirebbero illesi da un esame rigoroso e che sarebbe dunque avventato fidarsene nei momenti di vera emergenza. Ma che cosa significa allora tutto questo sul piano politico? Significa che la morale socratica è politicamente rilevante proprio in tempi di crisi e che l’io, inteso come ultimo bastione della condotta morale, rappresenta a livello politico una sorta di misura d’emergenza. Non solo, ma significa altresí che quando si invocano presunti principî morali per banali faccende quotidiane, si sta tendendo un inganno agli altri; non c’è bisogno di chissà cosa per dimostrare che i moralisti piú rigorosi, quelli che hanno sempre in bocca i sommi principî morali, sono poi gli stessi che aderiscono piú facilmente a qualunque regola o norma venga loro imposta; non ci vuole chissà cosa per dimostrare che i membri piú rispettabili della società, quelli che i francesi chiamano i bien-pensants, sono piú propensi a trasformarsi in gente poco o nient’affatto rispettabile, e perfino criminale, di quanto lo siano invece i bohémiens e gli hippies. Tutto ciò di cui abbiamo parlato qui diventa davvero importante, dunque, solo in circostanze eccezionali; e i Paesi in cui queste circostanze eccezionali diventano la norma e il problema di come comportarsi in circostanze simili diventa il problema piú urgente e scottante, possono essere accusati, per questa precisa ragione, di amministrare male il potere – per usare un eufemismo. Ma che dire allora di coloro che in situazioni perfettamente normali non fanno che parlare di grandi principî morali? Costoro è come se pronunciassero invano il nome di Dio.
Questa caratteristica del problema morale – quella di incarnare cioè un fenomeno limite della politica – diventa palese quando afferriamo che l’unica raccomandazione contenuta nel «Meglio essere in conflitto con il mondo intero che essere in conflitto con se stessi» è una raccomandazione esclusivamente negativa. Non ci dice cosa fare, ma ci previene semmai dal fare talune cose, anche qualora queste cose vengano fatte da tutti coloro che ci circondano. Non va dimenticato, insomma, che il processo di pensiero è incompatibile con qualunque altra attività. L’espressione «fermati a pensare» è davvero nel giusto. Ogni qual volta pensiamo, cessiamo di fare ciò che stavamo facendo fino a poco tempo prima. E finché restiamo due-in-uno, non possiamo fare altro che pensare.
Ecco perché non si può parlare solo di una distinzione tra il pensare e l’agire. Esiste in realtà una profonda tensione tra questi due tipi di attività; e il disprezzo platonico per i corpi indaffarati, che vanno e vengono senza mai fermarsi, è in effetti un tratto tipico di ogni buon filosofo. Tuttavia, questa tensione è stata sempre coperta e quasi nascosta da un’altra idea assai cara ai filosofi, l’idea che pensare sia anche un modo di agire, l’idea che il pensiero, come talvolta si dice, sia una sorta di «azione interna». Sono molte le ragioni che spiegano questa confusione – ragioni irrilevanti, quando i filosofi si difendono semplicemente dalle accuse e dai rimproveri mossi dai cittadini e dagli uomini d’azione; ragioni già piú rilevanti, quando si riflette sulla natura del pensiero. A ben vedere, infatti, il pensiero – al contrario della contemplazione, cui troppo spesso viene equiparato – è un’attività. Non solo, ma è un’attività che produce precisi effetti morali, trasformando chi pensa in qualcuno, in una persona o personalità. Ma l’attività e l’azione non sono la stessa cosa, e il risultato dell’attività di pensiero è una sorta di sottoprodotto dell’attività stessa. Non è qualcosa che si possa paragonare allo scopo cui un atto tende ed è consapevolmente prefissato. La distinzione tra il pensiero e l’azione è spesso convertita in un contrasto tra lo Spirito e il Potere, in cui Spirito fa puntualmente rima con Impotenza. E l’idea, tutto sommato, non è poi tanto sbagliata.
La distinzione principale, da un punto di vista politico, tra il Pensiero e l’Azione risiede nel fatto che io sono solo con me stesso o con l’io di qualcun altro quando penso, laddove sono in compagnia di molti quando inizio ad agire. Il potere, per noi esseri umani che non siamo onnipotenti, può risiedere solo in una delle tante forme della pluralità umana, laddove ogni declinazione della singolarità umana è per definizione impotente. È vero, tuttavia, che anche nella singolarità o dualità del processo di pensiero, la pluralità è presente come in germe, dal momento che io posso pensare solo scindendomi in due, benché sia uno. Ma questo due-in-uno, osservato dal promontorio della pluralità umana, è come l’ultima traccia di una compagnia – anche quando, pur essendo uno con me stesso, sono o posso diventare due – una traccia che diventa tanto importante solo perché scopriamo la pluralità là dove meno ce lo saremmo aspettati. Comunque sia, quando puntiamo il nostro sguardo sull’essere con gli altri, il pensiero diventa un fenomeno piuttosto marginale.
Queste osservazioni possono forse spiegare perché la morale socratica, con le sue qualità negative e marginali, si sia...