1.
– L’orso Masakichi aveva raccolto tanto miele che non poteva mangiarlo tutto da solo, cosí lo mise in un secchio, e scese dalle montagne per andare a venderlo in città. Masakichi era esperto nel raccogliere il miele.
– Come faceva un orso ad avere un secchio? – chiese Sara.
– L’aveva per caso, – spiegò Junpei. – L’aveva trovato lungo la strada, abbandonato lí da qualcuno, e l’aveva preso pensando che prima o poi avrebbe potuto servirgli.
– E gli è servito davvero.
– Infatti. Allora, l’orso Masakichi arrivò in città, andò nella piazza e lí trovò il posto che faceva per lui. Mise un cartello con su scritto «Vendesi miele genuino e squisito – un bicchiere 200 yen» e cominciò a vendere il miele.
– Gli orsi sanno scrivere?
– No. Gli orsi non sanno scrivere, – disse Junpei. – Chiese il favore a un signore che stava lí vicino, che glielo scrisse a matita.
– E sanno fare i conti?
– Sí. Sanno fare i conti. Siccome Masakichi da piccolo era stato allevato dagli uomini, aveva imparato a parlare e a fare i conti. Ma era un orso particolarmente bravo.
– Allora era un po’ diverso dai soliti orsi?
– Sí, era un po’ diverso dai soliti orsi. Era un orso speciale. Per questo era tenuto un po’ a distanza dagli orsi che speciali non erano.
– Che vuol dire tenere a distanza?
– Tenere a distanza vuol dire che dicevano «Ma quello chi è? Chi si crede di essere?» e non volevano starci insieme. Cosí lui non riusciva a fare amicizia. C’era soprattutto un orso prepotente che odiava Masakichi.
– Poverino, Masakichi.
– Sí, poverino. Ma siccome di aspetto era un orso, gli uomini pensavano «Saprà anche parlare e fare i conti, ma resta comunque un orso». Insomma, non era accettato da nessuno dei due mondi.
– Quindi era ancora di piú poverino. Masakichi non aveva proprio amici?
– No, non aveva amici. Gli orsi non vanno a scuola, quindi non c’era nessun posto dove potesse fare amicizia con gli altri orsi.
– Io all’asilo ce li ho gli amici.
– Certo, – disse Junpei. – Certo, è naturale che tu abbia gli amici.
– Tu, Junchan, ce li hai gli amici?
A Sara Junpei sembrava un nome troppo serio: preferiva chiamarlo affettuosamente «Jun-chan».
– Il tuo papà è il mio piú caro amico da tanto tanto tempo. E anche la tua mamma, anche lei è la mia piú cara amica.
– Meno male che hai degli amici.
– Sí, davvero, – disse Junpei. – Sono fortunato ad avere degli amici. Hai ragione.
Prima che Sara andasse a dormire, Junpei le raccontava spesso delle storie inventate sul momento. Ogni volta che c’erano delle cose che non capiva, gli faceva delle domande. Junpei rispondeva a tutte minuziosamente. Le domande erano acute e interessanti, e mentre pensava a come rispondere gli venivano idee per il proseguimento della storia.
Sayoko venne a portarle una tazza di latte caldo.
– Mi sta raccontando la storia dell’orso Masakichi, – spiegò Sara alla mamma. – Masakichi è bravo a raccogliere il miele ma non ha amici.
– Davvero? Masakichi è un grande orso? – le chiese Sayoko.
Sara guardò preoccupata Junpei.
– Masakichi è grande?
– Non è tanto grande, – rispose Junpei. – Anzi, è un orso piuttosto piccolo. Piú o meno come te, Sara. Ha un carattere tranquillo. Non sente musica punk o hard rock. Tutto soletto ascolta Schubert.
Sayoko canticchiò a bocca chiusa la melodia della Trota.
– Se ascolta la musica, vuol dire che ha il CD? – chiese Sara a Junpei.
– Ha trovato da qualche parte un radioregistratore che era caduto a terra, l’ha raccolto e se l’è portato a casa.
– Ma come mai in montagna si trovano tutte queste cose per terra? – chiese Sara con voce sospettosa.
– Siccome è una montagna molto ripida, le persone che la scalano sono talmente stanche che man mano lasciano cadere a terra le cose troppo pesanti. «Basta, non ce la faccio piú, – dicono. – Questa roba è troppo pesante! Il secchio non mi serve. Anche del radioregistratore posso fare a meno». È per questo che si trovano tante cose utili lungo il cammino.
– Anche la mamma capisce bene questa sensazione, – disse Sayoko. – Ci sono volte che butterei via tutto.
– Io no, – disse Sara.
– Perché tu sei un’ingorda, – disse Sayoko.
– Non sono un’ingorda! – protestò Sara.
– È perché sei piccola e piena di energia, – disse Junpei, scegliendo un’espressione piú amabile. – Ma adesso devi bere subito il tuo latte, perché se lo bevi ti racconto il seguito della storia di Masakichi.
– Va bene, – disse Sara. Prese la tazza con entrambe le mani e sorbí il latte caldo giudiziosamente. – Però come mai Masakichi non vende delle torte fatte col miele? Se invece del miele e basta vendesse delle torte al miele, anche la gente sarebbe piú contenta.
– È una giusta osservazione. E cosí aumenterebbero anche i suoi profitti, – disse Sayoko sorridendo.
– Valori aggiunti per aprire nuovi mercati. Questa bambina diventerà un’imprenditrice, – disse Junpei.
Fu quasi alle due di notte che Sara tornò a letto e finalmente si addormentò. Quando furono sicuri che dormisse, Junpei e Sayoko andarono in cucina, si sedettero l’uno di fronte all’altra al tavolo e divisero una lattina di birra in due. Lei non reggeva bene l’alcol, e lui di lí a poco avrebbe dovuto guidare fino a Yoyogi Uehara.
– Scusami per averti chiamato cosí tardi, – disse Sayoko. – Ma non sapevo proprio che fare. Ero sfinita, disperata, e non mi veniva in mente nessun altro che potesse calmare Sara. Non potevo certo telefonare a Kan.
Junpei annuí, bevve un sorso di birra e mangiò un cracker dal piattino.
– Non ti preoccupare per me. Tanto io sono sveglio fino all’alba, e di notte non c’è traffico. Nessun problema.
– Stavi lavorando?
– Piú o meno.
– Scrivevi un racconto?
Junpei annuí.
– Procede bene?
– Come al solito. Io scrivo un racconto. Lo pubblico su una rivista letteraria. Non lo legge nessuno.
– Io ho sempre letto tutto quello che hai scritto, senza eccezioni.
– Grazie, sei molto affettuosa, – disse Junpei. – Ma la verità è che la forma del racconto breve sta diventando progressivamente obsoleta quanto il regolo calcolatore. Ad ogni modo lasciamo perdere. Parliamo di Sara. È già successo altre volte?
Sayoko annuí.
– Dire «altre volte» sarebbe un eufemismo. Ultimamente succede tutte le sere. Passata la mezzanotte salta su dal letto in preda a una crisi isterica. È scossa da un tremito inarrestabile, e per quanto cerchi di calmarla non smette di piangere. Io non so piú che fare.
– Hai qualche idea su quale possa essere la causa?
Sayoko mandò giú la birra rimasta, e per qualche istante fissò il bicchiere.
– Penso che sia perché ha visto troppe notizie sul terremoto di Kōbe. Probabilmente l’impatto di quelle immagini è stato troppo forte per una bambina di quattro anni. È da quando c’è stato il terremoto che ha cominciato a svegliarsi di notte. Sara dice che di notte viene a svegliarla un uomo che non conosce. L’uomo del terremoto, lo chiama. Dice che viene a svegliarla, e cerca di farla entrare in una piccola scatola. Ma non è una scatola dove possano starci delle persone. Lei tenta di rifiutare, e lui la tira per la mano, facendole scricchiolare le giunture, e cerca di farla entrare a forza. Ed è a quel punto che si sveglia urlando.
– L’uomo del terremoto?
– Sí. Dice che è un vecchio alto e magro. Dopo aver fatto questo sogno, Sara gira per casa accendendo tutte le luci per controllare che l’uomo non ci sia. Guarda dappertutto, negli armadi a muro, nella scarpiera, sotto il letto, nei cassetti. Anche se le dico che ha solo sognato, non si convince. Quando ha terminato l’ispezione, ed è sicura che quell’uomo non si nasconda da nessuna parte, solo allora finalmente riesce a dormire. Ma nel frattempo ci sono volute due ore, e io ormai sono completamente sveglia. A causa di questa cronica mancanza di sonno, non mi reggo piú in piedi, e non riesco nemmeno a lavorare.
Era raro che Sayoko esprimesse cosí apertamente i suoi sentimenti.
– È meglio evitare di farle vedere ancora il telegiornale, – disse Junpei. – Anzi, per qualche tempo è meglio abolire del tutto la televisione. Adesso sui vari canali non si vedono altro che immagini del terremoto.
– Ormai la televisione non la sto accendendo quasi piú. Ma non serve. L’uomo del terremoto arriva lo stesso. L’ho portata anche dal dottore, che però mi ha dato solo delle specie di sonniferi per farmi rilassare.
Junpei rifletté per qualche istante.
– Senti, se ti va, perché questa domenica non andiamo allo zoo? Sara ha detto che una volta le piacerebbe vedere un orso vero.
Sayoko guardò Junpei socchiudendo gli occhi.
– Non è male come idea. Potrebbe distrarla. Va bene, dopo tanto tempo andiamo tutti e quattro insieme allo zoo. Potresti dirlo tu a Kan?
Junpei aveva trentasei anni, ed era nato e cresciuto a Nishinomiya, nella provincia di Hyōgo, nella tranquilla zona residenziale di Shukugawa. Il padre era un gioielliere, con due negozi, uno a Ōsaka e l’altro a Kōbe. Aveva una sorella di sei anni piú piccola. Dopo essersi diplomato in una scuola privata di Kōbe, era entrato all’università Waseda di Tōkyō. Superati gli esami di ammissione sia per la facoltà di Economia e commercio che per quella di Lettere, senza pensarci due volte aveva optato per Lettere, ma aveva mentito ai genitori dicendo di essersi iscritto a Economia. Sapeva che in caso contrario non l’avrebbero mantenuto agli studi. Junpei non aveva nessuna intenzione di sprecare quattro anni a imparare i meccanismi dell’economia. Quello che gli interessava era studiare letteratura, ma il suo vero obiettivo era diventare scrittore.
Nel corso di cultura generale, strinse amicizia con due colleghi. Uno era Takatsuki (detto Kan-chan), l’altra era Sayoko. Takatsuki era di Nagano, e durante gli anni di liceo era stato il capitano della squadra di calcio. Era un ragazzone alto, con le spalle larghe. Essendo stato bocciato una volta all’esame di ammissione all’università, era un anno piú grande di Junpei. Concreto, deciso, una faccia accattivante, in qualunque ambiente entrasse ne assumeva in modo del tutto naturale la leadership, ma i libri erano il suo tasto dolente. Si era iscritto a Lettere solo perché era l’unica facoltà dove avesse superato l’esame di ammissione. «Ma non mi importa. Dato che voglio diventare giornalista, ne approfitterò per imparare a scrivere», diceva, con atteggiamento positivo.
Junpei non capiva come mai Takatsuki potesse essere interessato a lui. Junpei era uno che appena aveva un po’ di tempo si chiudeva in camera da solo a leggere libri e ad ascoltare musica senza mai stancarsi, e non era portato per l’attività fisica. Essendo timido, era raro che facesse amicizie. Eppure, inspiegabilmente, Takatsuki sembrava averlo scelto come amico sin dalla prima lezione, nel momento stesso in cui l’aveva visto. Aveva chiamato Junpei, e dandogli un colpo leggero sulla spalla gli aveva chiesto: Ti va di mangiare qualcosa insieme? Prima che finisse la giornata, erano diventati amici per la pelle, sicuri di potersi fidare ciecamente l’uno dell’altro. In breve, era nato tra loro un accordo perfetto.
Takatsuki, accompagnato da Junpei, aveva abbordato Sayoko allo stesso modo. Le aveva dato un colpetto sulla spalla, dicendo: Ti va di mangiare qualcosa tutti e tre assieme? E fu cosí che Junpei, Takatsuki e Sayoko formarono un loro piccolo gruppo molto affiatato. Facevano tutto in tre: dallo scambiarsi gli appunti presi in classe al mangiare alla mensa dell’università, dai discorsi sul futuro in caffetteria negli intervalli tra le lezioni ai lavori part-time, alle notti passate al cinema a vedere un film dopo l’altro. Erano in tre anche ai concerti rock, quando camminavano senza meta per le strade di Tōkyō, o bevevano in una birreria all’aperto fino a sentirsi male. Facevano insieme le cose che gli studenti del primo anno di università fanno in tutte le parti del mondo.
Sayoko era nata ad Asakusa, dove suo padre aveva un negozio di accessori per l’abbigliamento giapponese tradizionale. Era un negozio che si tramandava da generazioni, frequentato da famosi attori di kabuki. Aveva due fratelli piú grandi, uno che avrebbe continuato l’attività del padre, e l’altro che disegnava progetti per uno studio di architettura. Prima di entrare alla facoltà di Lettere di Waseda, Sayoko aveva studiato in un prestigioso liceo internazionale. Dopo la laurea, pensava di iscriversi al corso di dottorato in Letteratura inglese, per dedicarsi alla ricerca. Leggeva molto. Lei e Junpei si scambiavano i libri che avevano letto, e parlavano con passione di romanzi.
Sayoko aveva capelli stupendi e occhi intelligenti. Il suo modo di parlare era mite e calmo, ma dentro era forte. La sua bocca espressiva lo indicava con chiarezza. Senza trucco, e vestita sempre casual, non era il tipo vistoso che richiama l’attenzione degli uomini, ma aveva un particolare senso dell’umorismo e vi erano momenti in cui, facendo una piccola battuta, il suo volto si scomponeva in un sorriso malizioso. Junpei trovava quell’espressione incantevole. Si rese conto che era lei la ragazza che aveva sempre cercato. Prima di incontrarla, non si era mai innamorato. Anche perché, avendo frequentato un liceo maschile, aveva avuto pochissime occasioni di conoscere ragazze.
Ma Junpei non era mai riuscito a confessare il suo sentimento a Sayoko. Una volta dette quelle parole, non ci sarebbe stato piú modo di tornare indietro. Sayoko avrebbe potuto allontanarsi, diventare per lui irraggiungibile. E anche se questo non fosse accaduto, comunque il rapporto che c’era adesso tra Takatsuki, lui e Sayoko, cosí equilibrato e confortevole, ne sarebbe stato danneggiato. Per il momento è meglio continuare cosí, pensava Junpei. Studiare ancora un po’ la situazione.
A muoversi per primo fu Takatsuki.
– Non è facile per me tirar fuori questo discorso di punto in bianco, ma io sono innamorato di Sayoko. Ti dispiace? – disse a Junpei. Era metà settembre. Gli spiegò che mentre lui era tornato nel Kansai per le vacanze estive, il rapporto tra lui e Sayoko, quasi per caso, era cambiato in qualcosa di diverso.
Junpei fissò il volto dell’amico per qualche istante. Gli ci volle un po’ di tempo per comprendere quello che l’altro gli stava dicendo, ma quando capí, la rivelazione si abbatté su di lui con un peso schiacciante. Però non aveva nessuna scelta. – No che non mi dispiace, – rispos...