Le otto montagne
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Le otto montagne

Paolo Cognetti

  1. 208 pagine
  2. Italian
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Le otto montagne

Paolo Cognetti

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La montagna non è solo neve e dirupi, creste, torrenti, laghi, pascoli. La montagna è un modo di vivere la vita. Un passo davanti all'altro, silenzio, tempo e misura.
Lo sa bene Paolo Cognetti, che tra una vetta e una baita ambienta questo potentissimo romanzo. Una storia di amicizia tra due ragazzi - e poi due uomini - cosí diversi da assomigliarsi, un viaggio avventuroso e spirituale fatto di fughe e tentativi di ritorno, alla continua ricerca di una strada per riconoscersi. «Si può dire che abbia cominciato a scrivere questa storia quand'ero bambino, perché è una storia che mi appartiene quanto mi appartengono i miei stessi ricordi. In questi anni, quando mi chiedevano di cosa parla, rispondevo sempre: di due amici e una montagna. Sí, parla proprio di questo».
Paolo Cognetti Pietro è un ragazzino di città, solitario e un po' scontroso. La madre lavora in un consultorio di periferia, e farsi carico degli altri è il suo talento. Il padre è un chimico, un uomo ombroso e affascinante, che torna a casa ogni sera dal lavoro carico di rabbia. I genitori di Pietro sono uniti da una passione comune, fondativa: in montagna si sono conosciuti, innamorati, si sono addirittura sposati ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo. La montagna li ha uniti da sempre, anche nella tragedia, e l'orizzonte lineare di Milano li riempie ora di rimpianto e nostalgia.
Quando scoprono il paesino di Grana, ai piedi del Monte Rosa, sentono di aver trovato il posto giusto: Pietro trascorrerà tutte le estati in quel luogo «chiuso a monte da creste grigio ferro e a valle da una rupe che ne ostacola l'accesso» ma attraversato da un torrente che lo incanta dal primo momento. E lí, ad aspettarlo, c'è Bruno, capelli biondo canapa e collo bruciato dal sole: ha la sua stessa età ma invece di essere in vacanza si occupa del pascolo delle vacche.
Iniziano cosí estati di esplorazioni e scoperte, tra le case abbandonate, il mulino e i sentieri piú aspri. Sono anche gli anni in cui Pietro inizia a camminare con suo padre, «la cosa piú simile a un'educazione che abbia ricevuto da lui». Perché la montagna è un sapere, un vero e proprio modo di respirare, e sarà il suo lascito piú vero: «Eccola lí, la mia eredità: una parete di roccia, neve, un mucchio di sassi squadrati, un pino». Un'eredità che dopo tanti anni lo riavvicinerà a Bruno.
Paolo Cognetti, uno degli scrittori piú apprezzati dalla critica e amati dai lettori, entra nel catalogo Einaudi con un libro magnetico e adulto, che esplora i rapporti accidentati ma granitici, la possibilità di imparare e la ricerca del nostro posto nel mondo.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
ISBN
9788858424315
Parte prima

Montagna d’infanzia

Uno

Il paese di Grana si trovava nella diramazione di una di quelle valli, ignorata da chi passava di lí come una possibilità irrilevante, chiusa in alto da creste grigio ferro e in basso da una rupe che ne ostacolava l’accesso. Sulla rupe, le rovine di una torre sorvegliavano campi ormai inselvatichiti. Una strada sterrata si staccava dalla regionale e saliva ripida, a tornanti, fino ai piedi della torre; poi superandola si addolciva, voltava sul fianco della montagna ed entrava nel vallone a mezza costa, proseguendo in falsopiano. Era luglio quando la imboccammo, nel 1984. Nei prati stavano falciando il fieno. Il vallone era piú ampio di come sembrava da sotto, tutto boschi sul lato in ombra e terrazzamenti al sole: giú in basso, tra le macchie di arbusti, scorreva un torrente che ogni tanto intravedevo luccicare, e quella fu la prima cosa di Grana a piacermi. Leggevo romanzi d’avventura all’epoca. Era stato Mark Twain a trascinarmi all’amore per i fiumi. Pensai che laggiú si poteva pescare, tuffarsi, nuotare, abbattere qualche alberello e costruire una zattera, e rapito da queste fantasie non mi accorsi del paese che era comparso dopo una curva.
– È qui, – disse mia madre. – Vai piano.
Mio padre rallentò a passo d’uomo. Fin da quando eravamo partiti seguiva docile le indicazioni di lei. Si abbassò a destra e a sinistra, nella polvere che l’auto sollevava, guardando a lungo le stalle, i pollai, i fienili di tronchi, i ruderi bruciati o crollati, i trattori sul ciglio della strada, le imballatrici. Due cani neri con un campanello al collo spuntarono da un cortile. A parte un paio di case piú recenti, tutto il paese sembrava fatto della stessa pietra grigia della montagna, e le stava addosso come un affioramento di rocce, un’antica frana; un po’ piú in alto pascolavano le capre.
Mio padre non disse niente. Mia madre, che aveva scoperto quel posto per conto suo, lo fece accostare in uno spiazzo e scese dalla macchina, andando in cerca della padrona di casa intanto che noi due scaricavamo i bagagli. Uno dei cani ci venne incontro abbaiando e mio padre fece qualcosa che non gli avevo mai visto fare: allungò una mano per lasciarsela annusare, gli disse una parola gentile e lo accarezzò tra le orecchie. Forse se la cavava meglio con i cani che con gli uomini.
– Allora? – mi chiese, mentre sganciava gli elastici dal portapacchi. – Come ti pare?
Bellissimo, avrei voluto rispondere. Un odore di fieno, stalla, legna, fumo e chissà cos’altro mi aveva investito appena sceso dalla macchina, carico di promesse. Ma non ero sicuro che fosse la risposta giusta, cosí dissi: – A me non sembra male, e a te?
Mio padre scrollò le spalle. Alzò lo sguardo sopra le valigie e diede un’occhiata alla baracca che avevamo davanti. Pendeva da una parte, e sarebbe senz’altro crollata senza i due pali che la puntellavano. Dentro c’erano impilate delle balle di fieno, e sopra al fieno una camicia di jeans che qualcuno si era tolto e dimenticato.
– Io ci sono cresciuto, in un posto cosí, – disse, senza lasciarmi capire se fosse un ricordo buono o cattivo.
Afferrò la maniglia di una valigia e fece per tirarla giú, ma poi gli venne in mente qualcos’altro. Mi guardò con un’idea in testa che doveva divertirlo parecchio.
– Secondo te il passato può passare un’altra volta?
– È difficile, – dissi, per non sbilanciarmi. Mi faceva sempre indovinelli di questo tipo. Vedeva in me un’intelligenza simile alla sua, portata per la logica e la matematica, e pensava fosse suo dovere metterla alla prova.
– Guarda quel torrente, lo vedi? – disse. – Facciamo finta che l’acqua sia il tempo che scorre. Se qui dove siamo noi è il presente, da quale parte pensi che sia il futuro?
Ci pensai. Questa sembrava facile. Diedi la risposta piú ovvia: – Il futuro è dove va l’acqua, giú per di là.
– Sbagliato, – decretò mio padre. – Per fortuna –. Poi come se si fosse tolto un peso disse: – Oppala, – la parola che usava quando sollevava anche me, e la prima delle due valigie cadde a terra con un tonfo.
La casa che mia madre aveva preso in affitto stava nella parte alta del paese, in una corte raccolta intorno a un abbeveratoio. Portava i segni di due diverse origini: la prima era quella dei muri, dei balconi di larice annerito, del tetto in lose coperte di muschio, del grosso comignolo fuligginoso, ed era un’origine antica; la seconda era soltanto vecchia. Un’epoca in cui, dentro la casa, erano stati posati fogli di linoleum sui pavimenti, appesi poster floreali alle pareti, fissati gli armadietti pensili e il lavello in cucina, tutti già ammuffiti e stinti. Solo un oggetto si riscattava dalla mediocrità ed era una stufa nera, di ghisa, massiccia e severa, con la maniglia di ottone e quattro fuochi su cui cucinare. Doveva esser stata recuperata da un altro luogo e un altro tempo ancora. Ma penso che a mia madre piacesse soprattutto quello che non c’era, perché aveva trovato in effetti poco piú di una casa vuota: chiese alla proprietaria se potevamo metterla un po’ a posto e lei si limitò a rispondere: – Fate come volete –. Non la affittava da anni e di certo non si aspettava di affittarla quell’estate. Aveva modi bruschi, ma non era scortese. Credo fosse in imbarazzo perché stava lavorando nei campi e non si era potuta cambiare. Consegnò a mia madre una grossa chiave di ferro, finí di spiegarle qualcosa sull’uso dell’acqua calda, protestò brevemente prima di accettare la busta che lei aveva preparato.
Mio padre non c’era già piú da un pezzo. Per lui una casa valeva l’altra, e il giorno dopo doveva essere in ufficio. Era uscito in balcone a fumare, le mani sulla ringhiera di legno ruvido, gli occhi alle cime. Sembrava che le stesse studiando per capire da dove sferrare l’attacco. Rientrò dopo che la padrona di casa se n’era andata via, cosí aveva risparmiato i saluti, con un umore cupo che nel frattempo gli era calato addosso; disse che andava a comprare qualcosa per pranzo e che voleva rimettersi in macchina prima di sera.
In quella casa, una volta partito lui, mia madre tornò a una versione di sé che non avevo mai conosciuto. La mattina, appena alzata dal letto, ammucchiava dei legnetti nella stufa, appallottolava un foglio di giornale e strofinava un fiammifero sul ruvido della ghisa. Non la disturbava il fumo che allora si diffondeva in cucina, né la coperta che tenevamo addosso intanto che la stanza si scaldava, né il latte che piú tardi tracimava dal bricco e si bruciava sulla piastra rovente. Per colazione mi dava pane abbrustolito e marmellata. Mi lavava sotto il rubinetto, sciacquandomi la faccia, il collo e le orecchie, poi mi asciugava con uno strofinaccio e mi spediva fuori: che andassi a prendere vento e sole e perdessi finalmente un po’ della mia delicatezza urbana.
In quei giorni il torrente diventò il mio terreno d’esplorazione. C’erano due confini che mi era vietato superare: in alto un ponticello di legno, oltre il quale le rive si facevano piú ripide e si stringevano in una gola, e in basso la boscaglia ai piedi della rupe, dove l’acqua proseguiva verso il fondovalle. Era il tratto che mia madre riusciva a controllare dal balcone di casa, ma valeva un intero fiume. Il torrente veniva giú a balzi, all’inizio, cadendo in una serie di rapide schiumanti, tra grandi massi da cui mi sporgevo a osservare i riflessi argentati del fondo. Piú in là rallentava e si diramava, come se da giovane che era diventasse adulto, e tagliava isolotti colonizzati dalle betulle, dove potevo attraversare saltando fino alla sponda opposta. Oltre ancora un intrico di legname formava uno sbarramento. In quel punto scendeva un canalone, ed era stata la slavina, d’inverno, a tirar giú tronchi e rami che ora marcivano nell’acqua, ma io di queste cose all’epoca non sapevo nulla. Per me era il momento della sua vita in cui il torrente trovava un ostacolo, si fermava e s’intorbidiva. Ogni volta finivo per sedermi lí, a guardare le alghe che ondeggiavano appena sotto la superficie.
C’era un ragazzino che pascolava le mucche nei prati lungo la riva. Secondo mia madre era il nipote della nostra padrona di casa. Portava sempre con sé un bastone giallo, di plastica, dal manico ricurvo, con cui spronava le mucche su un fianco per spingerle in giú verso l’erba alta. Erano sette pezzate castane giovani e irrequiete. Il ragazzino le sgridava quando se ne andavano per conto loro, e capitava che all’una o all’altra corresse dietro imprecando, mentre al ritorno risaliva il pendio e si voltava a chiamarle con un verso cosí: Oh, oh, oh, oppure Eh, eh, eh, finché loro, controvoglia, lo seguivano in stalla. Al pascolo si sedeva per terra e le controllava dall’alto, intagliando un legnetto con il coltello a serramanico.
– Non puoi stare lí, – mi disse, l’unica volta che mi parlò.
– Perché? – chiesi.
– Pesti l’erba.
– E dov’è che posso stare?
– Di là.
Indicò l’altra sponda del torrente. Non vedevo come arrivarci, da dov’ero, ma non volevo chiederlo a lui né negoziare un transito sulla sua erba. Cosí entrai in acqua senza levarmi le scarpe. Cercai di star dritto nella corrente e di non mostrare alcuna esitazione, come se guadare i fiumi fosse cosa di tutti i giorni per me. Attraversai, mi sedetti su un masso con i calzoni fradici e le scarpe che gocciolavano, ma quando mi voltai il ragazzino non badava piú a me.
Passammo dei giorni, in quel modo, lui su una riva e io sull’altra, a non degnarci di uno sguardo.
– Perché non vai a farci amicizia? – mi chiese mia madre una sera davanti alla stufa. La casa era impregnata dell’umidità di troppi inverni, cosí accendevamo il fuoco per cena e poi restavamo a scaldarci fino all’ora di andare a dormire. Ciascuno dei due leggeva il suo libro e ogni tanto, tra una pagina e l’altra, ravvivava la fiamma e la conversazione. La grande stufa nera ci ascoltava.
– Ma come faccio, – risposi. – Non so cosa dire.
– Gli dici ciao. Gli chiedi come si chiama. Gli chiedi come si chiamano le sue mucche.
– Sí, buonanotte, – dissi, fingendomi assorto nella lettura.
Nei rapporti sociali mia madre era già molto piú avanti di me. Siccome di negozi in paese non ce n’erano, mentre io esploravo il mio torrente lei aveva scoperto la stalla dove comprare latte e formaggio, l’orto che vendeva qualche tipo di verdura e la segheria in cui procurarsi gli scarti di legname. Si era accordata anche con il ragazzo del caseificio, che passava mattina e sera in furgone per ritirare i bidoni del latte, perché le portasse il pane e un po’ di spesa. E non so come, dopo una settimana, aveva appeso delle fioriere in balcone e le aveva riempite di gerani. Ora la nostra casa si riconosceva da lontano, e avevo già sentito i rari abitanti di Grana salutare chiamandola per nome.
– Comunque non importa, – dissi, un minuto dopo.
– Che cos’è che non importa?
– Fare amicizia. A me piace anche stare da solo.
– Ah sí? – disse mia madre. Alzò gli occhi dalla pagina e senza sorridere, come se fosse una questione molto seria, aggiunse: – Sei sicuro?
Cosí decise di aiutarmi lei. Non tutti sono della stessa idea, ma mia madre credeva fermamente nella necessità di intervenire nella vita degli altri. Un paio di giorni dopo, in quella stessa cucina, trovai il ragazzino delle mucche che faceva colazione seduto sulla mia sedia. Lo annusai, per la verità, prima di vederlo, perché aveva addosso lo stesso odore di stalla, fieno, latte cagliato, terra umida e fumo di legna, che per me da allora è sempre stato l’odore della montagna, e che ho ritrovato in qualunque montagna del mondo. Si chiamava Bruno Guglielmina. Il cognome era quello di tutti a Grana, tenne a spiegarci, ma il nome Bruno ce l’aveva soltanto lui. Era di pochi mesi piú vecchio di me, dato che era nato nel ’72 ma in novembre. Divorava i biscotti che mia madre gli offriva come se non ne avesse mai mangiati in vita sua. L’ultima scoperta fu che non solo io avevo studiato lui, giú al pascolo, ma lui aveva studiato me mentre tutt’e due fingevamo di ignorarci.
– A te piace il torrente, vero? – mi chiese.
– Sí.
– Sai nuotare?
– Un po’.
– Pescare?
– Mi sa di no.
– Vieni, ti faccio vedere una cosa.
Disse cosí e saltò giú dalla sedia, io scambiai un’occhiata con mia madre e poi gli corsi dietro senza pensarci due volte.
Bruno mi portò in un posto che conoscevo, dove il torrente passava all’ombra del ponticello. Sottovoce, quando fummo sulla riva, mi ordinò di stare il piú possibile zitto e nascosto. Poi si sporse appena appena da un masso, quel che bastava per spiare di là. Con la mano mi fece segno di aspettare. Mentre aspettavo lo guardai: aveva capelli biondo canapa e il collo bruciacchiato dal sole. Portava calzoni di una misura non sua, arrotolati alle caviglie e cadenti sul cavallo, da caricatura di uomo adulto. Aveva anche i modi di un adulto, una specie di gravità nella voce e nei gesti: con un cenno mi ordinò di raggiungerlo e io obbedii. Mi sporsi dal masso per guardare dove guardava lui. Non sapevo che cosa dovevo vedere: lí dietro il torrente formava una cascatella e una piccola pozza ombrosa, profonda forse fino al ginocchio. L’acqua era mossa in superficie, agitata dallo scroscio della caduta. Ai margini galleggiava un dito di schiuma e un grosso ramo incastrato di traverso aveva raccolto erba e foglie fradicie. Non era niente, quello spettacolo, solo acqua che scorreva giú per la montagna, eppure mi incantava ogni volta e non sapevo perché.
Dopo un po’ che scrutavo la pozza vidi la superficie rompersi appena, e mi accorsi che lí dentro c’era qualcosa di vivo. Una, due, tre, quattro ombre affusolate con il muso contro la corrente, solo la coda che si muoveva piano in orizzontale. A volte una delle ombre si spostava di scatto e si fermava in un altro punto, e a volte emergeva con il dorso e poi tornava di sotto, ma sempre guardando verso la cascatella. Eravamo piú a valle rispetto a loro, per questo non ci avevano ancora visti.
– Sono trote? – sussurrai.
– Pesci, – disse Bruno.
– E stanno sempre lí?
– Non sempre. A volte cambiano buca.
– Ma cosa fanno?
– Cacciano, – rispose lui, a cui la cosa sembrava del tutto naturale. Io invece la stavo imparando in quel momento. Avevo sempre pensato che un pesce nuotasse nel verso dell’acqua, come verrebbe piú facile, e non che spendesse le sue forze a resisterle controcorrente. Le trote muovevano la coda di quel che bastava per restare immobili. Avrei voluto sapere che cosa cacciavano. Forse i moscerini che vedevo volteggiare sul pelo dell’acqua e restarne come intrappolati. Osservai per un po’ la scena cercando di capirla meglio, prima che Bru...

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Cognetti, P. (2016). Le otto montagne ([edition unavailable]). EINAUDI. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3425900/le-otto-montagne-pdf (Original work published 2016)

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Cognetti, Paolo. (2016) 2016. Le Otto Montagne. [Edition unavailable]. EINAUDI. https://www.perlego.com/book/3425900/le-otto-montagne-pdf.

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Cognetti, P. (2016) Le otto montagne. [edition unavailable]. EINAUDI. Available at: https://www.perlego.com/book/3425900/le-otto-montagne-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Cognetti, Paolo. Le Otto Montagne. [edition unavailable]. EINAUDI, 2016. Web. 15 Oct. 2022.