Il paese di Grana si trovava nella diramazione di una di quelle valli, ignorata da chi passava di lĂ come una possibilitĂ irrilevante, chiusa in alto da creste grigio ferro e in basso da una rupe che ne ostacolava lâaccesso. Sulla rupe, le rovine di una torre sorvegliavano campi ormai inselvatichiti. Una strada sterrata si staccava dalla regionale e saliva ripida, a tornanti, fino ai piedi della torre; poi superandola si addolciva, voltava sul fianco della montagna ed entrava nel vallone a mezza costa, proseguendo in falsopiano. Era luglio quando la imboccammo, nel 1984. Nei prati stavano falciando il fieno. Il vallone era piĂș ampio di come sembrava da sotto, tutto boschi sul lato in ombra e terrazzamenti al sole: giĂș in basso, tra le macchie di arbusti, scorreva un torrente che ogni tanto intravedevo luccicare, e quella fu la prima cosa di Grana a piacermi. Leggevo romanzi dâavventura allâepoca. Era stato Mark Twain a trascinarmi allâamore per i fiumi. Pensai che laggiĂș si poteva pescare, tuffarsi, nuotare, abbattere qualche alberello e costruire una zattera, e rapito da queste fantasie non mi accorsi del paese che era comparso dopo una curva.
â Ă qui, â disse mia madre. â Vai piano.
Mio padre rallentĂČ a passo dâuomo. Fin da quando eravamo partiti seguiva docile le indicazioni di lei. Si abbassĂČ a destra e a sinistra, nella polvere che lâauto sollevava, guardando a lungo le stalle, i pollai, i fienili di tronchi, i ruderi bruciati o crollati, i trattori sul ciglio della strada, le imballatrici. Due cani neri con un campanello al collo spuntarono da un cortile. A parte un paio di case piĂș recenti, tutto il paese sembrava fatto della stessa pietra grigia della montagna, e le stava addosso come un affioramento di rocce, unâantica frana; un poâ piĂș in alto pascolavano le capre.
Mio padre non disse niente. Mia madre, che aveva scoperto quel posto per conto suo, lo fece accostare in uno spiazzo e scese dalla macchina, andando in cerca della padrona di casa intanto che noi due scaricavamo i bagagli. Uno dei cani ci venne incontro abbaiando e mio padre fece qualcosa che non gli avevo mai visto fare: allungĂČ una mano per lasciarsela annusare, gli disse una parola gentile e lo accarezzĂČ tra le orecchie. Forse se la cavava meglio con i cani che con gli uomini.
â Allora? â mi chiese, mentre sganciava gli elastici dal portapacchi. â Come ti pare?
Bellissimo, avrei voluto rispondere. Un odore di fieno, stalla, legna, fumo e chissĂ cosâaltro mi aveva investito appena sceso dalla macchina, carico di promesse. Ma non ero sicuro che fosse la risposta giusta, cosĂ dissi: â A me non sembra male, e a te?
Mio padre scrollĂČ le spalle. AlzĂČ lo sguardo sopra le valigie e diede unâocchiata alla baracca che avevamo davanti. Pendeva da una parte, e sarebbe senzâaltro crollata senza i due pali che la puntellavano. Dentro câerano impilate delle balle di fieno, e sopra al fieno una camicia di jeans che qualcuno si era tolto e dimenticato.
â Io ci sono cresciuto, in un posto cosĂ, â disse, senza lasciarmi capire se fosse un ricordo buono o cattivo.
AfferrĂČ la maniglia di una valigia e fece per tirarla giĂș, ma poi gli venne in mente qualcosâaltro. Mi guardĂČ con unâidea in testa che doveva divertirlo parecchio.
â Secondo te il passato puĂČ passare unâaltra volta?
â Ă difficile, â dissi, per non sbilanciarmi. Mi faceva sempre indovinelli di questo tipo. Vedeva in me unâintelligenza simile alla sua, portata per la logica e la matematica, e pensava fosse suo dovere metterla alla prova.
â Guarda quel torrente, lo vedi? â disse. â Facciamo finta che lâacqua sia il tempo che scorre. Se qui dove siamo noi Ăš il presente, da quale parte pensi che sia il futuro?
Ci pensai. Questa sembrava facile. Diedi la risposta piĂș ovvia: â Il futuro Ăš dove va lâacqua, giĂș per di lĂ .
â Sbagliato, â decretĂČ mio padre. â Per fortuna â. Poi come se si fosse tolto un peso disse: â Oppala, â la parola che usava quando sollevava anche me, e la prima delle due valigie cadde a terra con un tonfo.
La casa che mia madre aveva preso in affitto stava nella parte alta del paese, in una corte raccolta intorno a un abbeveratoio. Portava i segni di due diverse origini: la prima era quella dei muri, dei balconi di larice annerito, del tetto in lose coperte di muschio, del grosso comignolo fuligginoso, ed era unâorigine antica; la seconda era soltanto vecchia. Unâepoca in cui, dentro la casa, erano stati posati fogli di linoleum sui pavimenti, appesi poster floreali alle pareti, fissati gli armadietti pensili e il lavello in cucina, tutti giĂ ammuffiti e stinti. Solo un oggetto si riscattava dalla mediocritĂ ed era una stufa nera, di ghisa, massiccia e severa, con la maniglia di ottone e quattro fuochi su cui cucinare. Doveva esser stata recuperata da un altro luogo e un altro tempo ancora. Ma penso che a mia madre piacesse soprattutto quello che non câera, perchĂ© aveva trovato in effetti poco piĂș di una casa vuota: chiese alla proprietaria se potevamo metterla un poâ a posto e lei si limitĂČ a rispondere: â Fate come volete â. Non la affittava da anni e di certo non si aspettava di affittarla quellâestate. Aveva modi bruschi, ma non era scortese. Credo fosse in imbarazzo perchĂ© stava lavorando nei campi e non si era potuta cambiare. ConsegnĂČ a mia madre una grossa chiave di ferro, finĂ di spiegarle qualcosa sullâuso dellâacqua calda, protestĂČ brevemente prima di accettare la busta che lei aveva preparato.
Mio padre non câera giĂ piĂș da un pezzo. Per lui una casa valeva lâaltra, e il giorno dopo doveva essere in ufficio. Era uscito in balcone a fumare, le mani sulla ringhiera di legno ruvido, gli occhi alle cime. Sembrava che le stesse studiando per capire da dove sferrare lâattacco. RientrĂČ dopo che la padrona di casa se nâera andata via, cosĂ aveva risparmiato i saluti, con un umore cupo che nel frattempo gli era calato addosso; disse che andava a comprare qualcosa per pranzo e che voleva rimettersi in macchina prima di sera.
In quella casa, una volta partito lui, mia madre tornĂČ a una versione di sĂ© che non avevo mai conosciuto. La mattina, appena alzata dal letto, ammucchiava dei legnetti nella stufa, appallottolava un foglio di giornale e strofinava un fiammifero sul ruvido della ghisa. Non la disturbava il fumo che allora si diffondeva in cucina, nĂ© la coperta che tenevamo addosso intanto che la stanza si scaldava, nĂ© il latte che piĂș tardi tracimava dal bricco e si bruciava sulla piastra rovente. Per colazione mi dava pane abbrustolito e marmellata. Mi lavava sotto il rubinetto, sciacquandomi la faccia, il collo e le orecchie, poi mi asciugava con uno strofinaccio e mi spediva fuori: che andassi a prendere vento e sole e perdessi finalmente un poâ della mia delicatezza urbana.
In quei giorni il torrente diventĂČ il mio terreno dâesplorazione. Câerano due confini che mi era vietato superare: in alto un ponticello di legno, oltre il quale le rive si facevano piĂș ripide e si stringevano in una gola, e in basso la boscaglia ai piedi della rupe, dove lâacqua proseguiva verso il fondovalle. Era il tratto che mia madre riusciva a controllare dal balcone di casa, ma valeva un intero fiume. Il torrente veniva giĂș a balzi, allâinizio, cadendo in una serie di rapide schiumanti, tra grandi massi da cui mi sporgevo a osservare i riflessi argentati del fondo. PiĂș in lĂ rallentava e si diramava, come se da giovane che era diventasse adulto, e tagliava isolotti colonizzati dalle betulle, dove potevo attraversare saltando fino alla sponda opposta. Oltre ancora un intrico di legname formava uno sbarramento. In quel punto scendeva un canalone, ed era stata la slavina, dâinverno, a tirar giĂș tronchi e rami che ora marcivano nellâacqua, ma io di queste cose allâepoca non sapevo nulla. Per me era il momento della sua vita in cui il torrente trovava un ostacolo, si fermava e sâintorbidiva. Ogni volta finivo per sedermi lĂ, a guardare le alghe che ondeggiavano appena sotto la superficie.
Câera un ragazzino che pascolava le mucche nei prati lungo la riva. Secondo mia madre era il nipote della nostra padrona di casa. Portava sempre con sĂ© un bastone giallo, di plastica, dal manico ricurvo, con cui spronava le mucche su un fianco per spingerle in giĂș verso lâerba alta. Erano sette pezzate castane giovani e irrequiete. Il ragazzino le sgridava quando se ne andavano per conto loro, e capitava che allâuna o allâaltra corresse dietro imprecando, mentre al ritorno risaliva il pendio e si voltava a chiamarle con un verso cosĂ: Oh, oh, oh, oppure Eh, eh, eh, finchĂ© loro, controvoglia, lo seguivano in stalla. Al pascolo si sedeva per terra e le controllava dallâalto, intagliando un legnetto con il coltello a serramanico.
â Non puoi stare lĂ, â mi disse, lâunica volta che mi parlĂČ.
â PerchĂ©? â chiesi.
â Pesti lâerba.
â E dovâĂš che posso stare?
â Di lĂ .
IndicĂČ lâaltra sponda del torrente. Non vedevo come arrivarci, da dovâero, ma non volevo chiederlo a lui nĂ© negoziare un transito sulla sua erba. CosĂ entrai in acqua senza levarmi le scarpe. Cercai di star dritto nella corrente e di non mostrare alcuna esitazione, come se guadare i fiumi fosse cosa di tutti i giorni per me. Attraversai, mi sedetti su un masso con i calzoni fradici e le scarpe che gocciolavano, ma quando mi voltai il ragazzino non badava piĂș a me.
Passammo dei giorni, in quel modo, lui su una riva e io sullâaltra, a non degnarci di uno sguardo.
â PerchĂ© non vai a farci amicizia? â mi chiese mia madre una sera davanti alla stufa. La casa era impregnata dellâumiditĂ di troppi inverni, cosĂ accendevamo il fuoco per cena e poi restavamo a scaldarci fino allâora di andare a dormire. Ciascuno dei due leggeva il suo libro e ogni tanto, tra una pagina e lâaltra, ravvivava la fiamma e la conversazione. La grande stufa nera ci ascoltava.
â Ma come faccio, â risposi. â Non so cosa dire.
â Gli dici ciao. Gli chiedi come si chiama. Gli chiedi come si chiamano le sue mucche.
â SĂ, buonanotte, â dissi, fingendomi assorto nella lettura.
Nei rapporti sociali mia madre era giĂ molto piĂș avanti di me. Siccome di negozi in paese non ce nâerano, mentre io esploravo il mio torrente lei aveva scoperto la stalla dove comprare latte e formaggio, lâorto che vendeva qualche tipo di verdura e la segheria in cui procurarsi gli scarti di legname. Si era accordata anche con il ragazzo del caseificio, che passava mattina e sera in furgone per ritirare i bidoni del latte, perchĂ© le portasse il pane e un poâ di spesa. E non so come, dopo una settimana, aveva appeso delle fioriere in balcone e le aveva riempite di gerani. Ora la nostra casa si riconosceva da lontano, e avevo giĂ sentito i rari abitanti di Grana salutare chiamandola per nome.
â Comunque non importa, â dissi, un minuto dopo.
â Che cosâĂš che non importa?
â Fare amicizia. A me piace anche stare da solo.
â Ah sĂ? â disse mia madre. AlzĂČ gli occhi dalla pagina e senza sorridere, come se fosse una questione molto seria, aggiunse: â Sei sicuro?
CosĂ decise di aiutarmi lei. Non tutti sono della stessa idea, ma mia madre credeva fermamente nella necessitĂ di intervenire nella vita degli altri. Un paio di giorni dopo, in quella stessa cucina, trovai il ragazzino delle mucche che faceva colazione seduto sulla mia sedia. Lo annusai, per la veritĂ , prima di vederlo, perchĂ© aveva addosso lo stesso odore di stalla, fieno, latte cagliato, terra umida e fumo di legna, che per me da allora Ăš sempre stato lâodore della montagna, e che ho ritrovato in qualunque montagna del mondo. Si chiamava Bruno Guglielmina. Il cognome era quello di tutti a Grana, tenne a spiegarci, ma il nome Bruno ce lâaveva soltanto lui. Era di pochi mesi piĂș vecchio di me, dato che era nato nel â72 ma in novembre. Divorava i biscotti che mia madre gli offriva come se non ne avesse mai mangiati in vita sua. Lâultima scoperta fu che non solo io avevo studiato lui, giĂș al pascolo, ma lui aveva studiato me mentre tuttâe due fingevamo di ignorarci.
â A te piace il torrente, vero? â mi chiese.
â SĂ.
â Sai nuotare?
â Un poâ.
â Pescare?
â Mi sa di no.
â Vieni, ti faccio vedere una cosa.
Disse cosĂ e saltĂČ giĂș dalla sedia, io scambiai unâocchiata con mia madre e poi gli corsi dietro senza pensarci due volte.
Bruno mi portĂČ in un posto che conoscevo, dove il torrente passava allâombra del ponticello. Sottovoce, quando fummo sulla riva, mi ordinĂČ di stare il piĂș possibile zitto e nascosto. Poi si sporse appena appena da un masso, quel che bastava per spiare di lĂ . Con la mano mi fece segno di aspettare. Mentre aspettavo lo guardai: aveva capelli biondo canapa e il collo bruciacchiato dal sole. Portava calzoni di una misura non sua, arrotolati alle caviglie e cadenti sul cavallo, da caricatura di uomo adulto. Aveva anche i modi di un adulto, una specie di gravitĂ nella voce e nei gesti: con un cenno mi ordinĂČ di raggiungerlo e io obbedii. Mi sporsi dal masso per guardare dove guardava lui. Non sapevo che cosa dovevo vedere: lĂ dietro il torrente formava una cascatella e una piccola pozza ombrosa, profonda forse fino al ginocchio. Lâacqua era mossa in superficie, agitata dallo scroscio della caduta. Ai margini galleggiava un dito di schiuma e un grosso ramo incastrato di traverso aveva raccolto erba e foglie fradicie. Non era niente, quello spettacolo, solo acqua che scorreva giĂș per la montagna, eppure mi incantava ogni volta e non sapevo perchĂ©.
Dopo un poâ che scrutavo la pozza vidi la superficie rompersi appena, e mi accorsi che lĂ dentro câera qualcosa di vivo. Una, due, tre, quattro ombre affusolate con il muso contro la corrente, solo la coda che si muoveva piano in orizzontale. A volte una delle ombre si spostava di scatto e si fermava in un altro punto, e a volte emergeva con il dorso e poi tornava di sotto, ma sempre guardando verso la cascatella. Eravamo piĂș a valle rispetto a loro, per questo non ci avevano ancora visti.
â Sono trote? â sussurrai.
â Pesci, â disse Bruno.
â E stanno sempre lĂ?
â Non sempre. A volte cambiano buca.
â Ma cosa fanno?
â Cacciano, â rispose lui, a cui la cosa sembrava del tutto naturale. Io invece la stavo imparando in quel momento. Avevo sempre pensato che un pesce nuotasse nel verso dellâacqua, come verrebbe piĂș facile, e non che spendesse le sue forze a resisterle controcorrente. Le trote muovevano la coda di quel che bastava per restare immobili. Avrei voluto sapere che cosa cacciavano. Forse i moscerini che vedevo volteggiare sul pelo dellâacqua e restarne come intrappolati. Osservai per un poâ la scena cercando di capirla meglio, prima che Bru...