
- 256 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Le strade di polvere
Informazioni su questo libro
Il tempo dei desideri che si consumano, dei balli, delle stagioni, della gioventú, il tempo crudele e magico di tutto ciò che non lascia traccia. La storia di una famiglia monferrina, dalla fine dell'età napoleonica ai primi anni dell'Italia unita.
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Informazioni
Print ISBN
9788806236731eBook ISBN
9788858409824Capitolo settimo
Il violino del Giai
L’estate Pietro Giuseppe tornava per le vacanze e i fratelli non lo lasciavano mai, lo seguivano ancora fuori il cancello litigandosi per stargli vicino finché lui, stufo, non alzava la voce per rimandarli a casa. Loro ubbidivano a malincuore seguendolo con lo sguardo mentre andava giú per la strada polverosa, le mani in tasca e il cappello di paglia indietro sui capelli. Affascinati e intimiditi da quel fratello che al prestigio dell’età maggiore univa adesso quell’altro, piú oscuro ed esaltante, di una città che affacciava sul mare e aveva palazzi, teatri, navi alla fonda.
A loro la vita di Pietro Giuseppe appare come le luci tremolanti che a distanza segnalano nella loro intermittenza una vita che il buio rende ancora piú fantastica. Perché Pietro Giuseppe non racconta mai nulla di sé e quando parla dell’arrivo di una nave o di una rappresentazione a teatro, sfugge a ogni domanda che lo riguarda. Mancano le sue emozioni. Dove è, lui, nella sua redingote di studente o nella ampia mantella di panno nero indispensabile per le fredde sere ventose, quando il maestrale soffia dal porto e fa oscillare gli alberi delle navi?
Invece è prodigo di particolari su Tante Marianne, cosí lui chiama la zia, sulla sua casa pesante di tende dove i passi non fanno rumore e ogni pomeriggio portano su dalla pasticceria le brioches calde che Tante Marianne inzuppa nella cioccolata. Al suo servizio Tante Marianne ha un boy che l’accompagna quando esce e siede impettito dietro la carrozza su un apposito seggiolino.
– Un... che? – chiede il Duardin. – Boy, – ripete Pietro Giuseppe laconico. La Sofia si gratta attonita un orecchio, la Piulott, la magra, scura Piulott se ne va invece da un’altra parte perché non capisce. Pietro Giuseppe la richiama, la prende sulle ginocchia, un servo, le spiega, piccolo e moro che Tante Marianne veste di seta sgargiante. I fratelli spalancano la bocca dallo stupore mentre la Piulott gli si appoggia al petto come se a lei niente la stupisse; e da quella posizione di privilegio guarda provocatoria il Duardin, la Sofia, l’Evasio.
Possiede anche un violino a tastiera Tante Marianne, uno strumento moderno e raro, per lei demoiselle Ginette suona le arie dell’Italiana in Algeri, un’opera che Tante Marianne ama appassionatamente e ascolta con il viso raccolto nella mano, i grandi occhi che brillano nella semioscurità rossastra dei tendaggi. Demoiselle Ginette è una «profuga», da cosa e da chi sia fuggita non si sa, è una ragazza con i capelli crespi alti alla fronte e gli occhi piccoli, chiarissimi, capaci di fissare l’interlocutore con una intensità sconcertante. Non bella, dirà Tante Marianne, ma di grande temperamento.
Tante Marianne che spalanca la finestra e il sole avvampante del crepuscolo invernale irrompe sui divani capitonné, i tavoli di finto marmo, gli scialli abbandonati sulle poltrone. Dalla finestra lei fa cenno a qualcuno giú nella piazza mentre quella luce precoce di tramonto sfolgora nei suoi occhi azzurri e languidi. E quando si gira e vede il nipote ha un sussulto, il viso le diventa di porpora. Il viso di una ragazza: là in basso ci sono gli ex amanti della maggiore delle Maturlin. Vengono a trovarla da ogni parte del mondo, da Vichy e da Bordeaux, da Aversa; e il primo mai dimenticato da Bosco Marengo. Lei li avverte dalla finestra quando la via è libera perché al marito non piace incontrarli e loro siedono fra l’oro e il rosso delle poltrone e le parlano dei comuni ricordi, bevono la cioccolata, incantati dal suo sorriso che rimescola ancora il sangue. Le portano dolci rari, essenze dai nomi esotici che lei manda il boy a buttare non appena loro sono andati via; tanto è l’amore di Tante Marianne per il marito e la paura che un nulla possa turbarlo. Dei fiori insoliti come le aquilegie, un profumo diverso da quel Jasmine de Corse di quando lui la conobbe a Bordeaux e in una settimana la portò via perché diventasse sua moglie.
La sera siede accanto al fuoco preparato sugli alari e con il marito parla del conto del pasticciere, degli avvenimenti della giornata, il viso roseo di cipria e le mani allungate verso la fiamma, il lungo filo di perle che le scivola nel solco fra i seni. Il nipote da un angolo la guarda in silenzio soggiogato dalle sue metamorfosi. Tante Marianne gli sorride ma è come se non lo vedesse, come se fosse già uscito dal suo campo visivo e quel sorriso lo pensasse là fuori, sulle scale illuminate da una lampada a gas. Demoiselle Ginette ha richiuso il violino a tastiera, un sorriso congeda anche lei, i piedi della ragazza sono senza rumore sul tappeto e per un attimo, mentre si avvia alla porta, il fuoco sembra crepitare nei capelli alti alla fronte, accendere le sue guance pallide. Tante Marianne raccoglie un tizzone sfuggito e nel farlo scivola lentamente dalla poltrona, in ginocchio davanti alla fiamma in un largo dispiegarsi di scialli.
Cosa potevano fare una giovane profuga e il figlio primo di Luís a poco piú di vent’anni, spinti, incoraggiati a uscire dalla stanza, dalla casa, dal bel portone di noce massiccio? Andavano. La sera con gli odori che arrivavano dal mare piaceva ad entrambi, erano giovani e non sentivano il freddo, il vento pungeva le guance e demoiselle Ginette infilava le mani nel manicotto. Se Pietro Giuseppe le aveva gelate poteva infilarle anche lui. Andavano e parlavano, scendevano giú verso i vicoli del porto e se incontravano qualche ubriaco lui la proteggeva sotto la sua ampia mantella nera. Seguivano il lungomare e a volte gli spruzzi bagnavano la mantella, loro guardavano le luci tremolare nell’acqua e gli alberi delle navi confondersi fra il nero delle nuvole. Dalle bettole intorno alla darsena si sentivano le grida rauche dei giocatori di dadi, demoiselle Ginette mascherava la paura con delle piccole risate che sembravano sprigionarsi dalla profondità dei suoi occhi.
Quando venne la primavera cominciarono a spingersi oltre, verso la periferia dove demoiselle Ginette aveva alcuni amici. Là la sera non c’era illuminazione e bisognava stare attenti a dove mettere i piedi, la gente si chiamava da una casa all’altra e le finestre erano rattoppate con la carta, si sentivano piangere i bambini. Il porto era lontano e i pescatori stendevano le reti lungo il canale, l’odore della primavera si mescolava all’odore dell’acqua dove imputridivano i rifiuti. Loro entravano in quelli che demoiselle Ginette chiamava i Milieux, lí erano altri profughi come lei e le lampade a petrolio puzzavano, facevano nere le narici. Nel fervore della discussione demoiselle Ginette si dimenticava di Pietro Giuseppe e in piedi su una sedia gridava in quel suo rauco francese del sud.
Dopo, se non era troppo tardi, facevano l’amore in una barca ormeggiata sul canale, al riparo di una tela cerata. E lo stesso fervore che aveva messo nella discussione, demoiselle Ginette lo metteva in quei lunghi abbracci nell’oscillare della barca.
L’estate del ’64 i fratelli trovarono Pietro Giuseppe cambiato. Aveva perso ogni smania di andare in giro e se qualche amico veniva a chiamarlo rifiutava con una scusa. Preferiva restare in casa, magari solo per giocare a moscacieca, un gioco che aveva detestato fin da quando era bambino.
Spesso la mattina radunava i suoi libri in un cesto e saliva alla cascina della Gru dove sedeva a leggere e a prendere appunti sotto l’ombra del ciliegio, una botte rovesciata per tavolo. Della Gru elogiava l’aria e perfino l’afa di certe giornate quando tutto stagnava immobile e intorno a lui regnava il silenzio, solo il verso delle oche che scendevano a bere. Le prime volte erano saliti con lui anche la Limasa e i fratelli, fermandosi a distanza per non disturbarlo, ma poi avevano smesso perché i piccoli facevano fatica a salire con quel caldo e i contadini dai campi lo potevano vedere solo lassú sotto il ciliegio con i gomiti appoggiati alla botte rovesciata, i libri che andava sfogliando con ritmo costante. Un grande quaderno aperto davanti su cui ogni tanto chinava la testa a scrivere, la penna che andava e veniva dal calamaio appoggiato sulla botte.
Quei libri, una volta tornato, li chiude in camera e di rado li apre mentre il quaderno ogni tanto lo tira fuori per scriverci qualcosa. Cosa non si sa e a ogni domanda dà risposte evasive. Con i suoi esami c’entra sí e no. Forse non proprio con gli esami, per quelli ha tempo. Ma con i suoi studi sí, per quelli è molto importante. Corruga le sopracciglia, si gratta la testa sudata. Sorride con i suoi occhi grigi.
Demoiselle Ginette l’ha nominata solo di sfuggita e nessuno sospetta che le lettere in arrivo due volte la settimana siano sue. Sono buste azzurre vergate da una calligrafia ferma, lunga, maschile. Pietro Giuseppe se le infila in tasca senza aprirle come se già sapesse quello che contengono e alle domande del padre o dell’Antonia solleva lo sguardo distratto, curioso lui stesso della curiosità degli altri.
Spesso verso l’imbrunire si ferma a parlare con gli schiavandari e siede con loro nella stalla chino a guardarli mungere. Ma non è certo per imparare: lui conta i giorni che lo separano dal ritorno a Genova e si è costruito un piccolo calendario di legno dove va cancellandoli uno dopo l’altro. Un’ansia di ripartire che non appare mai; e la sera si mette alla spinetta e con la straordinaria disposizione ereditata dalla madre ritrova le note dell’Italiana in Algeri. I fratelli si mettono a ballare, lui batte allegro sui tasti; la Suava arriva anche lei con le braccia aperte, pronta a spiccare il volo.
Dalle finestre entra l’odore dell’erba e della sera e i bambini eccitati dalla musica si incrociano, si urtano, gridano. I grandi, piú goffi, ballano anche loro. L’Antonia si affaccia alla porta e le sembrano, quei ragazzi e quei bambini, appartenere alla natura allo stesso modo delle mele là fuori sugli alberi, dei conigli selvatici nei campi. Pietro Giuseppe è nel pieno dello splendore, in quell’età in cui i colori sono piú vivi e i movimenti impetuosi e il corpo ha una forza che sembra di poter toccare nell’aria.
Lei lo guarda ammirata senza osare di entrare. Una felicità, la loro e la sua, che in quel momento vanifica quanto esiste di minaccioso fuori da quell’angolo di giardino su cui cade la luce della sera.
Pietro Giuseppe la vede ferma sulla porta e girato verso di lei, senza smettere di suonare, le ricambia il sorriso.
La notizia del suo arresto, a febbraio, arrivò come una palla di cannone. A Genova fu deciso che sarebbe andato Gavriel, c’era neve ovunque e lui impiegò tre giorni e quando vide per la prima volta il mare non provò nessuna emozione. Quella lontana luminescenza increspata di azzurro gli parve insignificante. Era stanco; e quella bellezza troppo vasta.
Pietro Giuseppe non glielo fecero neanche vedere, era stato arrestato insieme ad altri sei internazionalisti e nessuno poteva avvicinarli senza il permesso del giudice. In casa di Tante Marianne regnava un grande silenzio e la maggiore delle Maturlin non faceva che portarsi le mani al viso dallo sgomento. Il violino a tastiera era chiuso: demoiselle Ginette era in carcere, arrestata anche lei. Nessuno salí dalla pasticceria a portare le brioches calde e fu servito il caffè, l’unica bevanda in grado di sostenere il cuore in un momento simile. Il boy negro sedeva in anticamera, offeso, depresso, simile a una palla di stracci. Gavriel lo trovò orribile.
Quella notte dormí senza spogliarsi su una poltrona accanto al fuoco e quando si svegliò in mezzo alla notte con le ossa gelate sfilò una coperta dal letto e si rincantucciò dentro. Da sotto la porta filtrava una lama di luce e si sentiva la voce di Tante Marianne che parlava al marito, una voce di bambina fatta di bisbigli e paroline. Ogni tanto, a intervalli, come suonata su uno strumento diverso, arrivava quella del marito. Un ribollire sordo, risentito.
Quando finalmente Gavriel fu di ritorno a casa, ci fu un gran parlare a porte chiuse. L’Antonia pianse e la Limasa salí piú volte le scale per cercare di cogliere qualche parola che la rassicurasse. Ha rubato? chiese, ha ferito qualcuno? Una rissa? Un duello?
Un duello sarebbe stato quello che Tante Marianne avrebbe perdonato piú volentieri. Anche una rissa, se ci fosse stato di mezzo l’amore. Ma quello che era successo era al di là della sua comprensione. Quando finalmente riuscí ad andare a trovare il nipote e dopo aver effuso nei corridoi del carcere il suo Jasmin de Corse lo vide al di là delle sbarre, la barba lunga e l’ira che ancora si sprigionava dal pallore delle mascelle, fu necessario darle i sali. Le era bastato guardarlo e l’intera verità si era fatta strada illuminando ogni angolo rimasto in ombra: demoiselle Ginette, gli esami mai dati, i libri, le uscite serali.
Tante Marianne arrivò un pomeriggio di fine marzo. La neve non si era ancora sciolta del tutto e lei aveva percorso un lungo giro per evitare ogni disagio. Era grassa e salí a fatica il viale spoglio delle settembrine. Luís la ricevette nel suo studio e parlarono a lungo, la Limasa bussò con una cioccolata calda guardando ansiosa il bel viso della maggiore delle Maturlin. Ma la vendemmia era andata male e la concorrenza dei vini francesi aveva peggiorato la situazione: Luís non era disposto a tirare fuori una lira e il naso lungo e sottile puntava Tante Marianne indicando in lei la colpevole. Tante Marianne si concentrò come nei momenti peggiori della sua vita per non perdere il controllo. Non lo perse, ma Luís non cedette. Non riusciva neanche a capire, disse, i motivi di tanta demenza. Cosa voleva Pietro Giuseppe, la rivoluzione, i Re al patibolo, gli schiavandari a comandare sulle sue terre? Tante Marianne lo guardava annuendo con la testa: l’aria grigia, l’impossibilità di crinare quel rifiuto asciutto, sordo, crudele, la opprimevano.
Come la volta precedente fu invitata a fermarsi. A cena l’Antonia era l’unica a conversare con lei, poi a poco a poco i bambini le si fecero intorno e Tante Marianne dimenticò le sue pene. Cominciò a raccontare delle storie di quando loro sorelle erano ragazze e i bambini ridevano, comparivano i vuoti nelle bocche dei piú piccoli là dove avevano perso i denti. La Limasa si era rinfrancata e andava su e giú dalla cucina per offrire a Tante Marianne un nuovo assaggio: cotognate, mostarde, marmellate che si andavano accumulando sulla tavola e Tante Marianne distribuiva ai bambini girando bocca per bocca con il cucchiaino. L’Antonia le stava seduta di fronte: di Tante Marianne le piaceva tutto, perfino la sua grassezza.
Aveva ricominciato a piovere e quando la mattina dopo Tante Marianne ripartí l’accompagnarono in corteo fino in piazza, i bambini che si coprivano la testa con il grembiule. Solo Luís la salutò appena e come vide l’Antonia di ritorno e le lesse sul viso il desiderio di perorare la causa del figlio, cominciò a salire zoppicando le scale. Non voglio discuterne piú, disse alla moglie. L’Antonia si fermò sgomenta con la mano sulla ringhiera. Nella sua mente si era fatto buio, quell’uomo che faticosamente avanzava gradino dopo gradino, l’uomo che aveva amato con sofferenza e gioia, le sembrava un estraneo. Estraneo nel senso che era lui a rifiutare ogni appartenenza là dove non si riconosceva; sarebbe bastato poco, pensò con un brivido, e anche lei sarebbe potuta scivolare via, fuori per sempre dalla sua vita.
Per pagare l’avvocato Tante Marianne vendette le posate di vermeilles che erano appartenute al Kedivé d’Egitto. Salí molte scale e trovò ovunque comprensione per un ragazzo che non era schedato in nessuna polizia del Regno, orfano di madre fin dalla nascita. Le sue lettere commossero piú di un amico che contava fra i potenti. Qualche preoccupazione la destò Pietro Giuseppe con il suo atteggiamento ostinato; ma prima che arrivasse l’estate, in una città percorsa dalle luci chiare e profonde del primo caldo, Pietro Giuseppe si ritrovò libero, ancora vestito dei suoi panni invernali. Tante Marianne lo aspettava all’angolo chiusa in una carrozza di piazza.
Cosa si dissero là dentro protetti dalle tendine abbassate nessuno lo raccontò mai. Forse lei chiese al nipote una capitolazione totale. Forse fu Pietro Giuseppe che di fronte a quella zia cosí amante della legalità si chiuse in un rifiuto caparbio, senza pentimenti. Doveva essere l’ultima volta che si vedevano; quando Pietro Giuseppe poco dopo scese dalla carrozza Tante Marianne lo guardò andare via sperando che si voltasse un’ultima volta. Il nipote aveva imboccato la strada in discesa tra i ciuffi verdi che traboccavano dai giardini, teneva la mantella sotto il braccio ed era senza cappello. In fondo c’era il mare e dei ragazzini facevano i primi tuffi nell’acqua ibrida del porto, lui camminò spedito senza voltarsi mai, neanche quando sentí il rumore della carrozza che girava.
Nella bella casa in Piazza De Ferraris non tornò neanche per riprendersi i vestiti, questi gli furono mandati insieme ai libri in Via Pietro Micca dove aveva trovato una stanza presso una rammendatrice di tappeti. A pagargli vitto e alloggio ci pensava Gavriel.
L’Antonia gli mandò piú di una lettera a cui non rispose mai e l’Antonia smise di scrivergli in quella strana lingua che era stata la loro, a metà fra il dialetto e il francese. Quando venne Natale arrivarono alla Piulott le conchiglie che era andato raccogliendo durante le lunghe passeggiate sul bordo del mare, quando inerpicandosi fra gli scogli ogni tanto sedeva in piccole radure di sabbia che si aprivano a ventaglio. Altre gliene mandò per Pasqua.
Nell’estate del ’66, quando colò a picco la Re d’Italia, si ricercarono i genitori di un volontario imbarcato a Genova e rimasto ferito alla testa la mattina del 26 luglio nelle acque di Lissa.
La ricerca durò diverse settimane e quando finalmente si risalí a Luís, Pietro Giuseppe stava iniziando la convalescenza e da Ancona era stato riportato via mare a Genova. Lí lo trovarono Luís e l’Antonia, già in piedi e con la testa rapata, i piedi nudi negli zoccoli. Era una giornata calda e sedettero tutti e tre su una panca all’ombra di una acacia. Parlarono della terra, del Duardin che voleva fare la carriera militare, della Sofia che aveva messo le vesti lunghe. Altri feriti giravano per il cortile, chi con le stampelle e chi ancora con le fasce. Qualcuno aveva avuto parte del viso asportata e ad altri mancava una mano, un braccio, o una benda nera copriva degli occhi che non c’erano piú. Alle domande del padre Pietro Giuseppe raccontò i vari momenti della battaglia e quale era stata la strategia dell’Ammiraglio Tegetthoff fin dall’inizio, quando con la sua flotta era comparso all’orizzonte di Ancona per poi sparire prima che qualcuno pensasse a inseguirlo. Usava dei termini tecnici e l’Antonia non capiva, con la punta dell’ombrellino disegnava nella polvere del cortile. Aveva preso freddo durante il viaggio e si spostò al sole.
Pietro Giuseppe descrisse il mare in burrasca e le difficoltà ad armare le vele in mezzo alla pioggia e al vento. Descrisse anche l’incendio che era divampato in seguito a una granata; ma di sé, come sempre, non disse nulla; e quando l’Antonia gli chiese della ferita si portò le mani alla testa come se l’avesse dimenticata. Non ricordava, disse, cosa l’aveva colpito.
Prima di ripartire Luís gli chiese quando sarebbe tornato a casa. Era il perdono. Pietro Giuseppe con il viso ancora pallido e la testa rotonda senza capelli, sorrise: il padre giudicava che avesse scontato abbastanza. Non so quando mi dimetteranno, rispose, per adesso sono ancora un militare. Si abbracciarono e la testa di Pietro Giuseppe, come il suo corpo e i suoi panni, puzzava. L’Antonia uscí dall’ospedale convinta che il figliastro li avrebbe raggiunti di lí a pochi giorni. Era agosto e la guerra era finita; chiese a Luís di portarla a vedere il porto. Si strinse nello scialle giú per i vicoli in ombra, aveva le mani gelate e il viso grigio, quasi bluastro ai lati del naso.
Quella visita l’aveva confortata, a entrambi Pietro Giuseppe era sembrato piú loquace e disponibile di un tempo e per essere ancora convalescente, in buona salute. Forse la ferita non era ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Le strade di polvere
- I. Il Pidrèn
- II. I cosacchi
- III. Gavriel e Luís
- IV. Le mele rusnent
- V. Braida
- VI. Il Dragone Junot
- VII. Il violino del Giai
- Epilogo
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright