
- 432 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Tempi difficili
Informazioni su questo libro
La triste vicenda di Louisa Grandgrin e di suo padre è una delle piú belle storie raccontate da Dickens. Thomas Grandgrin, come molti suoi contemporanei, ha commesso il tremendo errore di fare della Filosofia dei Dati di Fatto, cioè la filosofia utilitaristica, la teoria guida della propria vita. E solo quando la figlia Louisa, intrappolata in un matrimonio senza amore, diventa preda di un ozioso seduttore, il padre si vede costretto a prendere le distanze dalle proprie convinzioni.
Tempi difficili è uno dei grandi romanzi della maturità di Dickens, una macchina travolgente in cui ricorrono gli ingredienti consueti della sua scrittura, ma con in piú un tono di favola che stempera gli eventi in chiave comica.
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Informazioni
Libro secondo
Mietitura
Capitolo primo
Conseguenze alla banca
Era un giorno di mezza estate, pieno di sole. Succedeva qualche volta, persino a Coketown.
Vista da lontano con questo tempo, Coketown appariva avvolta da una sua caratteristica caligine che sembrava impenetrabile ai raggi del sole. Si capiva che là dentro c’era la città solo perché senza una città non avrebbe potuto esserci nel panorama una macchia cosà cupa. Una bruma di fumo e di fuliggine che tendeva confusamente ora in una direzione, ora nell’altra, ora innalzandosi verso la volta del cielo ora strisciando pigramente a terra a seconda di come si alzava, cadeva o mutava direzione il vento; un grumo denso e informe solcato da fasci di luce che altro non mostravano se non una massa di tenebre. Sebbene non si scorgesse neppure un mattone, Coketown si annunciava già in lontananza per quello che era.
Il solo fatto che esistesse era di per sé sorprendente. Tante e tali devastazioni aveva subito, che c’era dell’incredibile nel vedere come fosse riuscita a sopravvivere a tanto scempio. Una cosa è certa: non ci fu mai porcellana piú fragile di quella di cui erano fatti gli imprenditori di Coketown. Non li si trattava mai con sufficiente delicatezza ed essi andavano in frantumi con tanta facilità da far nascere il sospetto che fossero già incrinati in partenza. Caddero in rovina quando fu loro imposto di mandare a scuola i bambini che lavoravano nelle fabbriche, quando si nominarono gli ispettori incaricati di controllare le condizioni di lavoro nelle officine; quando i suddetti ispettori manifestarono qualche dubbio circa l’eventualità che ci potessero essere ragionevoli giustificazioni al fatto che le loro macchine facessero a pezzetti la gente; furono completamente distrutti quando qualcuno insinuò che forse non era sempre necessario fare tutto quel fumo.
Oltre a quella del cucchiaio d’oro di Bounderby, ormai generalmente accettata, era assai popolare a Coketown un’altra autorevole diceria, per lo piú espressa in forma di minaccia. Ogniqualvolta un notabile di Coketown si sentiva maltrattato – vale a dire, ogni volta che non gli si permetteva di fare il comodo suo e si avanzava l’ipotesi che potesse essere responsabile delle conseguenze dei suoi atti – si poteva star certi che costui se ne sarebbe uscito con la terribile minaccia che, piuttosto, avrebbe «gettato tutti i suoi beni nell’Atlantico»; minaccia che, in piú occasioni, aveva procurato al Ministro degli Interni uno spavento tale da far temere per la sua vita.
Ma i cittadini di Coketown erano, dopo tutto, cosà patriottici che non solo non si sognarono mai di gettare tutti i loro beni nell’Atlantico, ma anzi si dimostrarono tanto solerti da continuare a prendersene la miglior cura possibile. E cosà la città restava dov’era, immersa nella sua caligine e seguitava a crescere e a moltiplicarsi.
In quel giorno d’estate le strade erano calde e polverose e il sole splendeva cosà forte da riuscire a penetrare la densa e stagnante cappa di vapori, tanto che non lo si poteva fissare a occhio nudo. Emergendo da bassi corridoi sotterranei, i fuochisti uscivano nei cortili delle fabbriche, sedevano sui gradini, sulle assi e sulle staccionate e si tergevano i volti scuri contemplando le montagne di carbone. Era come se la città stesse friggendo nell’olio; c’era dappertutto un soffocante odore d’olio bollente. Le macchine luccicavano di olio, i vestiti degli operai ne erano intrisi, le fabbriche stillavano e trasudavano olio dai loro numerosi piani. L’aria che si respirava in quei palazzi fatati era come il soffio del simun; coloro che li abitavano, spossati dal caldo, si affannavano debolmente in quel deserto. Ma non c’era temperatura che potesse rendere piú folli o piú ragionevoli gli elefanti in preda a una malinconica follia. Le loro teste pesanti continuavano ad alzarsi e ad abbassarsi con lo stesso ritmo, con il caldo e con il freddo, con la pioggia e con il sole, con il bello o il cattivo tempo. Il ritmico movimento delle loro ombre sulle pareti era tutto quanto Coketown offriva al posto della frusciante penombra dei boschi; per tutto l’anno, dall’alba del lunedà alla sera del sabato, al ronzio estivo degli insetti sostituiva il cigolio di ingranaggi e pistoni.
Cigolavano sonnolenti in quella calda giornata di sole, rendendo ancora piú assonnato e accaldato chi si trovasse a passare lungo le ronzanti pareti delle fabbriche. Tende e getti d’acqua rinfrescavano un po’ le strade principali e i negozi, ma fabbriche, cortili e vicoli ardevano in quel caldo torrido. Giú a valle, lungo il fiume, nero e denso per le tinture, alcuni ragazzi in libertà – raro spettacolo in quel luogo – navigavano su una barca improvvisata che procedeva a balzi, tracciando sull’acqua una scia schiumosa e sollevando a ogni colpo di remi un fetore nauseabondo. Il sole stesso, per quanto generalmente benigno, era a Coketown piú inclemente del gelo, e ben di rado accadeva che volgesse lo sguardo verso quelle regioni senza generare piú morte che vita. In tal modo, quando mani sordide o incapaci si frappongono fra esso e le cose a cui si volge benevolo, persino l’occhio del cielo diventa nefasto.
Come ogni pomeriggio, la signora Sparsit se ne stava seduta nei locali della Banca, situati sul lato piú ombroso della strada arroventata. L’orario d’ufficio era ormai terminato e a quell’ora del giorno, nella bella stagione, la dama era solita illeggiadrire con la sua nobile presenza una stanza dirigenziale situata sopra gli uffici destinati al pubblico. Il suo salotto privato si trovava un piano piú in alto e dalla finestra di quella postazione essa era pronta a salutare, ogni mattina, il signor Bounderby che attraversava la strada, con l’affettuosa partecipazione che si riserva a una vittima. Era ormai sposato da un anno e mai la signora Sparsit aveva rinunciato, nemmeno per un istante, al proprio atteggiamento di convinta commiserazione.
La Banca non violava la salutare monotonia della città . Era uno dei tanti edifici di mattoni rossi, con imposte nere all’esterno e tende verdi all’interno, una porta d’ingresso nera sulla strada, due gradini bianchi, una targa d’ottone e un pomo d’ottone simile a un punto fermo. Era due volte piú grande della casa del signor Bounderby, cosà come le altre case erano pari alla metà o persino a un sesto di essa; in tutti gli altri particolari, l’edificio si atteneva rigorosamente agli schemi.
Scendendo la sera fra le scrivanie e il materiale da ufficio, la signora Sparsit era convinta di infondere al luogo un tocco di grazia femminile, per non dire di garbo aristocratico. Seduta alla finestra con il suo ricamo, o gli aghi da filet, aveva l’impressione, non priva di autocompiacimento, di ingentilire con le sue maniere signorili l’atmosfera volgarmente commerciale del luogo. Persuasa di essere un personaggio di grande interesse, la signora Sparsit si riteneva, in un certo senso, la fata della banca; ma per la gente di Coketown che, andando avanti e indietro, la vedeva lassú, ne era piuttosto il drago, posto a guardia dei tesori della miniera.
Di quali tesori si trattasse, nessuno sapeva nulla, tantomeno la signora Sparsit. Monete d’oro e d’argento, documenti preziosi e segreti che, se divulgati, avrebbero provocato imprecisate rovine a non meglio precisati individui (in genere persone che non attiravano le sue simpatie) costituivano le voci piú importanti del catalogo mentale che se ne era fatta. Per il resto sapeva che, dopo le ore di ufficio, regnava sovrana su tutto il mobilio e su una stanza blindata con tre serrature, contro la cui porta il fattorino posava il capo ogni notte, disteso su una brandina che scompariva al canto del gallo. La signora dominava inoltre incontrastata su certe camere blindate nei sotterranei, rigidamente separate da ogni contatto con questo mondo di predoni da acuminate barre di ferro, nonché sui resti della giornata lavorativa, ovvero macchie d’inchiostro, penne consumate, frammenti di carta assorbente e brandelli di fogli, strappati in pezzi cosà minuscoli che neppure lei, quando ci aveva provato, era riuscita a decifrare nulla d’interessante. Da ultimo, la signora Sparsit vegliava su un piccolo arsenale di sciabole e carabine minacciosamente disposte sopra uno dei caminetti dell’ufficio e su tutti quegli oggetti che una rispettabile tradizione non permette di separare da una sede d’affari con pretese di prosperità – una fila di secchi di sabbia contro gli incendi – recipienti che, come è noto, sono privi di qualsiasi utilità pratica, ma che paiono esercitare un considerevole influsso morale, pari quasi a quello esercitato dai lingotti, su buona parte della clientela.
Una domestica sorda e un fattorino completavano l’impero della signora Sparsit. Si mormorava che la domestica sorda fosse danarosa e da anni tra le classi piú umili di Coketown girava la voce che una notte o l’altra, alla chiusura della banca, qualcuno l’avrebbe assassinata per impadronirsi dei suoi quattrini. A dire il vero, era opinione generale che la cosa sarebbe già dovuta accadere da tempo, ma la donna aveva salvato pelle e averi con un’ostinazione maligna che aveva suscitato notevole indignazione e disappunto.
Il grazioso tavolinetto a tre gambe che la signora Sparsit, finito l’orario d’ufficio, era solita accostare a una lunga e severa scrivania dal ripiano in cuoio che occupava tutto il centro della stanza, era stato appena approntato per il tè. Il fattorino vi posò il vassoio sfiorandosi lievemente la fronte con le nocche della mano in segno d’omaggio.
– Grazie, Bitzer, – disse la signora Sparsit.
– Grazie a voi, signora, – rispose. Era rimasto esangue tale e quale ai tempi in cui, sbattendo rapidamente le ciglia, aveva definito il cavallo a beneficio della ragazza numero venti.
– È tutto chiuso, Bitzer? – chiese la signora Sparsit.
– Tutto chiuso, signora.
– E quali sono le novità del giorno? C’è qualcosa di nuovo? – s’informò la signora Sparsit versandosi il tè.
– Be’, signora, non posso dire di aver sentito qualcosa di speciale in giro. Brutta razza la gente di qui, signora, ma purtroppo niente di nuovo.
– Che combinano ancora quegli scalmanati? – domandò la signora Sparsit.
– Sempre le stesse cose, signora: sindacati, leghe, impegni a sostenersi l’un l’altro.
– È assolutamente riprovevole che le associazioni padronali tollerino queste leghe classiste, – commentò la signora Sparsit, il naso e le sopracciglia resi ancor piú classici dalla potenza del proprio rigore.
– SÃ, signora, – disse Bitzer.
– Essendo uniti in associazione, dovrebbero far fronte comune, tutti insieme, e non assumere nessuno che sia membro di un sindacato.
– L’hanno fatto, signora, – replicò Bitzer, – ma è andata piuttosto male.
– Non pretendo di capire queste cose, – dichiarò dignitosamente la signora Sparsit, – mi sono sempre trovata a frequentare tutt’altri ambienti e neppure il signor Sparsit, essendo un Powler, ebbe mai a che vedere con tali controversie. So solo che questa gente va messa al posto suo ed è giunto il momento di farlo, una volta per tutte.
– Sà signora, – rispose Bitzer mostrando grande rispetto per l’autorità oracolare della signora Sparsit. – Non avreste potuto essere piú chiara di cosÃ, signora, sul serio!
Era quella l’ora della chiacchierata confidenziale con la signora Sparsit e Bitzer, avendo colto nello sguardo di lei l’intenzione di domandargli qualcosa, finse di riordinare righelli, calamai e cosà via, mentre la signora continuava a sorseggiare il tè, guardando giú in strada dalla finestra aperta.
– È stata una giornata faticosa, Bitzer? – chiese la signora Sparsit.
– Non piú del solito, signorÃa: una giornata normale.
Ogni tanto gli scappava detto «signorÃa» invece del semplice «signora», quasi a involontario riconoscimento della dignità personale della signora Sparsit e del suo diritto a essere rispettata.
– Naturalmente gli impiegati sono fidati, puntuali e attivi, – soggiunse la signora spazzando via con cura dal suo mezzo guanto sinistro un’impercettibile briciola di pane imburrato.
– SÃ, signora, vanno tutti bene; con la solita eccezione.
Alla banca Bitzer ricopriva la funzione di spia e informatore generale e per questo servizio, che svolgeva volontariamente, riceveva a Natale un premio in aggiunta al normale salario settimanale. Crescendo era diventato un giovanotto estremamente lucido, cauto e prudente, che di sicuro si sarebbe fatto strada nel mondo. La sua mente, perfettamente regolata, era del tutto scevra di affetti e passioni e le sue azioni erano il risultato di calcoli freddi e precisi. Non senza ragione, la signora Sparsit diceva di lui che era il giovane dai principi piú saldi che le fosse mai stato dato di conoscere. Una volta accertatosi, alla morte del padre, che la madre aveva diritto a risiedere a Coketown, questo giovane e brillante economista aveva fatto valere quel diritto con un tale rigore che da allora la donna era rinchiusa nell’ospizio della città . Va detto che le concedeva mezza libbra di tè all’anno, una debolezza da parte sua, innanzi tutto perché i doni inducono il destinatario a fare affidamento sulla carità pubblica; e poi perché l’unica ragionevole transazione con quel genere di derrata sarebbe stata quella di acquistarla al prezzo piú basso per poi rivenderla al piú alto; essendo stato chiaramente dimostrato dai filosofi che tale principio comprende tutti i doveri dell’uomo – non in parte, ma nella loro globalità .
– Molto bene, signora. Con la solita eccezione, signora, – ripeté Bitzer.
– Ah! – esclamò la signora Sparsit scuotendo il capo sulla tazza e sorbendo una lunga sorsata di tè.
– Il signor Thomas, signora. Ho molti dubbi sul signor Thomas, signora; non mi piace affatto il suo modo di fare.
– Bitzer, – replicò la signora Sparsit con aria molto solenne, – ricordi quanto ho avuto occasione di dirti a proposito dei nomi?
– Chiedo scusa, signora, avete ragione. Avete sempre sostenuto che è meglio non fare nomi e che è preferibile evitarli.
– Ti prego di rammentare che qui io ricopro un incarico, – soggiunse maestosamente la signora Sparsit. – Mi sono state affidate mansioni di fiducia, in questo luogo, Bitzer, alle dipendenze del signor Bounderby. Per quanto alcuni anni fa tanto io quanto il signor Bounderby avremmo ritenuto alquanto improbabile che egli sarebbe mai divenuto il mio signore e benefattore e che mi avrebbe concesso una gratifica annuale, non posso fare a meno di considerare le cose sotto questa luce. Dal signor Bounderby ho ricevuto ogni possibile riconoscimento del mio rango sociale e tutta la considerazione per le origini della mia famiglia che avessi mai potuto aspettarmi. Di piú, molto di piú. Per questo motivo osserverò la piú scrupolosa fedeltà nei suo confronti. E non ritengo, non desidero, né posso ritenere, – concluse la signora Sparsit attingendo alla propria ampia riserva di onore e moralità , – che osserverei la piú scrupolosa fedeltà nei suoi confronti consentendo che, sotto questo tetto, si facessero nomi che disgraziatamente, assai disgraziatamente, non v’è ombra di dubbio, sono legati al suo.
Bitzer si sfiorò nuovamente la fronte con le nocche della mano e ancora una volta si scusò.
– No, Bitzer, – proseguà la signora Sparsit, – dà un certo individuo, e io ti ascolterò; dà il signor Thomas e dovrai porgermi le tue scuse.
– Con la solita eccezione di un certo individuo, signora, – disse Bitzer facendo un altro tentativo.
– Ah! – La signora Sparsit ripeté l’esclamazione, il movimento del capo e la lunga sorsata di tè, come a riprendere la conversazione al punto in cui si era interrotta.
– Un certo individuo, signora, – spiegò Bitzer, – non s’è mai comportato come avrebbe dovuto, fin dal primo giorno in cui ha messo piede qu...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Tempi difficili
- Introduzione di Maria Rita Cifarelli
- Cronologia della vita e delle opere
- Bibliografia
- Libro primo Semina
- Libro secondo Mietitura
- Libro terzo Raccolto
- Charles Dickens di George Orwell
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright