Marcia su Roma e dintorni
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Marcia su Roma e dintorni

  1. 200 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Marcia su Roma e dintorni

Informazioni su questo libro

In ventidue capitoli, brevi ma ricchi di informazioni, Emilio Lussu con un tono dolente e sarcastico insieme racconta ciò che ha visto e subíto dal 1919 al 1929, anno della sua avventurosa fuga da Lipari con Carlo Rosselli e Fausto Nitti: il sorgere e il dilagare del fascismo, soprattutto in Sardegna, manovre politiche, agitazioni di piazza, figure camaleontiche e macchiette popolari. A cominciare dai questori, giornalisti, deputati, professori, sindacalisti voltagabbana, descritti da Lussu nel loro tragico spessore.
Un documento imprescindibile rivolto in particolare alle nuove generazioni, che testimonia del contesto nazionale e delle sorti dell'Italia nel decennio di maggior abbrutimento civile della nostra storia e che rivela la forza di chi ha lottato fino all'ultimo, anche negli anni del dopoguerra, per una sinistra democratica.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
Print ISBN
9788806184469
eBook ISBN
9788858413302
Argomento
Literatura

XXII.

Io rimasi nel carcere della mia città tredici mesi. La vita in carcere è poco allegra in Italia e, credo, anche altrove. L’istruttoria poteva essere fatta in un giorno, ma il procuratore generale ritenne opportuno allungarla.
Ricorda il lettore il mio amico politico deciso a tagliarsi le vene e infine passato al fascismo? Era l’avv. Giuseppe Pazzaglia, mio compagno d’infanzia e di studi; io ero stato persino testimone al suo matrimonio. Egli venne con aria compunta a comunicarmi la decisione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati, recentemente conquistato dal fascismo, con cui mi si radiava dall’albo degli avvocati come nemico del regime. Egli era segretario del Consiglio. Gli ricordai i suoi propositi di suicidio e gli espressi il rammarico che non avesse seguito la prima ispirazione. Mi rispose, senza guardarmi in viso, che egli era vivo ed io ero morto. Egli aveva certamente ragione: ora egli viveva. E si capiva anche dal suo aspetto: era grassoccio e roseo, mentre io ero magro e pallido. In carcere, infatti, avevo contratto, a causa dell’umidità della piccola cella e delle fredde correnti d’aria per le frequenti ispezioni notturne, una bronchite ed una pleurite.
Ha dimenticato il lettore i due amici repubblicani intransigenti, passati al fascismo nel periodo del generale Gandolfo? Uno, il prof. Paolo Pili, all’epoca del mio arresto, aveva fatto molta carriera: era deputato al Parlamento e capo dei fascisti locali. Il segretario generale del partito, on. Turati, gli rimproverò la mollezza dei suoi gregari che non erano stati capaci di sopprimermi in una circostanza cosí favorevole. Per dimostrare la sua fermezza, l’on. Pili scrisse violenti articoli sui giornali, esigendo dai magistrati, contro di me, tutta la severità reperibile nel codice penale. E, tra le righe, minacciava i giudici di rappresaglie. «Se non mi comporto cosí – spiegava egli a qualche intimo che si stupiva di tanto accanimento – io sono perduto». E per non perdersi arrivò persino a scrivere che usare riguardi a «un cane idrofobo (la similitudine era in mio onore) costituiva un delitto contro la patria e contro l’umanità».
Il procuratore generale, nell’occasione dell’apertura dell’Anno giudiziario, chiamò «orribile» il mio atto. Il conte Cao di San Marco si fece citare come teste all’istruttoria e dichiarò che egli era venuto nella mia casa per difendermi, non per aggredirmi. Il prefetto fu collocato a riposo perché aveva consentito che i carabinieri e la polizia si fossero comportati come miei partigiani.
Uno dei miei aggressori, squadrista noto e compagno del signor Nurchis, tale Baldussi, sentí il bisogno di recarsi a casa di mia madre, vecchia e malata, e d’insultarla. Anch’egli era fuggito, la notte della mia aggressione, e si era distinto per la velocità con cui aveva sgombrato la piazza. In seguito a questo aveva perduto un poco del suo prestigio presso i compagni spettatori; i quali, per altro, lo avevano volentieri imitato. Ora, questo suo contegno di audacia, di fronte a mia madre, vale molto a fargli riconquistare gran parte della reputazione perduta.
Tutto l’ambiente ufficiale era stato adeguatamente lavorato contro di me. Il procuratore generale chiese il mio rinvio al giudizio della Corte d’Assise: il che significava una prospettiva di venti anni di reclusione. E, nella motivazione, aggiunse parole di esaltazione per il «giovane eroe caduto». In Italia il procuratore generale dipende dal governo ed ha piú del questore, che non del magistrato. Mussolini informò i fasci isolani che io sarei stato giudicato fuori della Sardegna, a Chieti negli Abruzzi: là avrei trovato giudici assolutamente imparziali. La Corte d’Assise di Chieti è celebre perché i giurati, scelti tutti fra i fascisti, durante il processo contro gli uccisori di Matteotti strinsero la mano agli imputati.
L’opinione pubblica isolana reagí e ostacolò i progetti del governo. Lo stesso padre del fascista ucciso si rifiutò di costituirsi parte civile contro di me, e mi mandò a dire in carcere che egli si doleva non solo di aver perduto un figlio in un’impresa delittuosa, ma anche di vedere che, in nome della sua famiglia, tanta persecuzione si compisse a mio danno. I giudici, malgrado tutte le pressioni, mi assolsero in istruttoria. Il codice penale e l’ordinamento della magistratura non erano stati ancora riformati.
L’irritazione dei fascisti fu oltre ogni misura.
Immediatamente, furono inscenate dimostrazioni contro i giudici e contro di me. L’on. Pili riprese la campagna sulla stampa. Alcuni fascisti autorevoli proposero addirittura il mio linciaggio.
In seguito alla sentenza di assoluzione, io avrei dovuto essere immediatamente scarcerato. Ma le carceri dipendono dal ministero degli Interni, non dalla magistratura. Io fui trattenuto in carcere «per misura di ordine pubblico». In base alle leggi eccezionali per la difesa dello Stato fascista, si riuní una commissione fascista e, in via amministrativa, io venni condannato a cinque anni di deportazione come «avversario incorreggibile del regime».
In quei giorni io ero a letto con la febbre a 38 gradi. I medici dichiararono che una deportazione nelle isole mi sarebbe stata micidiale, a causa del clima marino. Il «Duce» volle personalmente interessarsi dello stato della mia salute, e la dichiarazione medica fu trasmessa a Roma.
Pochi giorni dopo, arrivò l’ordine di trasferimento immediato a Lipari, piccola isola dell’arcipelago eolico, fra la Sicilia e la Calabria. Era come se mi avessero collocato su di una «boa».
– Morrà di morte naturale senza spargimento di sangue, – spiegava l’on. Pili ai fascisti piú accaniti.
Le mie condizioni di salute erano tali da non consentire il trasferimento immediato. Occorreva attendere che la febbre diminuisse. Il medico fiscale delle carceri si attenne al regolamento e mi dichiarò intrasportabile. Il governo ordinò ugualmente la mia partenza.
La città era in grande fermento. Speciali servizi di truppa furono collocati attorno alle carceri. Si temeva della mia evasione. Durante la notte le ispezioni avvenivano nella mia cella ininterrottamente, e il prefetto, ogni tanto, chiedeva per telefono se io fossi sempre presente.
Il questore volle presenziare alla mia partenza dal carcere.
– L’isola di Lipari, – mi disse sorridendo e discreto, – produce una vernaccia celeberrima –. E mi venne incontro con la mano tesa. Gli risposi che ero astemio e lo dispensai dai convenevoli. La psicologia del condannato politico è quella di un principe in regime dispotico.
Non mi fu neppure concesso il tempo di salutare mia madre. Affrettatamente, fui condotto al porto e, durante tutto il percorso, io non vidi che militari schierati e pattuglie di ciclisti armati.
Le banchine del porto erano deserte. Il traffico era sospeso. Dappertutto, sentinelle e pattuglie. Mentre scendevo verso un canotto della polizia, una vela da pesca rientrava veloce, spinta dal vento. Mi passò di fronte, a pochi metri. Un giovane marinaio mi riconobbe, e capí di che si trattava. Con un salto, si portò sulla prua e, ritto, gridò:
– Viva Lussu! Viva la Sardegna!
Fu questo l’ultimo saluto della mia Isola.
Le pattuglie sulla banchina si precipitarono verso la barca che approdava. Ebbi appena il tempo di vedere il pescatore accerchiato dalla folla armata e sparire.
Io viaggiai sempre con la febbre.
Due giorni dopo sbarcai a Lipari, ammanettato con due catene. Ero veramente sfinito.
De profundis! – mi gridò da lontano un gruppo di militi fascisti. E ridevano soddisfatti, come se io fossi venuto a loro in extremis. Essi ignoravano che, normalmente, la vita di un uomo politico, se non interviene il ferro oppure il fuoco, resiste piú a lungo di quella del cittadino agnostico.
A compensarmi di quel funereo saluto, mi vennero incontro vecchi amici della lotta politica, già deportati da un anno. Fra essi, vi erano parecchi deputati: Beltramini, Morea, Basso, Volpi, Picelli, Repossi, Rabezzana, Grossi, Binotti. V’era anche il capo della massoneria, Domizio Torrigiani. Il giorno stesso, ricostituimmo un Parlamento in piccolo. Qualcuno voleva persino si dichiarasse decaduta la monarchia e si proclamasse la repubblica. Ma, dopo maturo esame, lasciammo ancora in piedi il regime.
Non ho descritto la mia vita in carcere e non parlerò della mia vita di deportazione, vita di carcere anch’essa. L’autobiografia carceraria è un genere fastidioso. Ma ricorderò l’ambiente e la vita dei compagni che ancora son là.
Lipari è la migliore di tutte le isole in cui sono deportati gli oppositori al regime. Prima del fascismo, vi erano relegati i delinquenti comuni dichiarati incorreggibili. La zona riservata ai confinati era di un chilometro quadrato: attualmente è ridotta a poche centinaia di metri. Sentinelle e pattuglie sbarrano le vie d’accesso. Per cinquecento deportati prendevano servizio trecento agenti e militi fascisti. Attualmente vi sono cinquecento militi fascisti: dietro ogni deportato un milite. Solo pochi deportati, malati o con famiglia, possono abitare nelle case private: gli altri sono obbligati a dormire nelle caserme, dentro le mura di un antico castello. La popolazione simpatizza con i deportati, ma sono vietati i rapporti. In venti mesi, dal novembre cioè del 1927 all’agosto del 1929, io non ho potuto avvicinare che il medico. Il deportato deve vivere segregato dal mondo. I giornalisti stranieri che hanno visitato Lipari non hanno parlato che con gli agenti di polizia. Un giornalista americano, per il Natale del 1927, visitò l’Isola espressamente per passare le feste con il suo amico deputato Morea. Gli fu vietato lo sbarco.
Il mare è continuamente guardato da barche, da motoscafi veloci della regia marina e da un canotto da guerra: su tutti vi erano riflettori e mitragliatrici; sul canotto c’è anche un cannone. Di giorno e di notte, ispezionano le coste. Il controllo sulle navi che approdano nell’Isola, è fatto colle norme del tempo di guerra. Tutti gli estranei che sbarcano nell’Isola sono sottoposti a perquisizioni personali.
D’estate, il clima è tropicale: nelle altre stagioni è temperato ma incostante. Dopo un mese, io caddi nuovamente ammalato per una seconda pleurite grave. Il dott. Noldin, esponente dell’opposizione dei tedeschi dell’Alto Adige, abituato ai climi alpini, contrasse una febbre locale e morí, a 39 anni. Molti sono gli ammalati, ma il piccolo ospedale esistente per i deportati non può contenerne che minima parte.
I deportati sono tutti oppositori al regime, condannati in via amministrativa da una commissione fascista. Ve ne sono di tutti i partiti. Non mancano le rappresentanze tedesche dell’Alto Adige e degli slavi della Venezia Giulia. I deportati sono solo colpevoli di essere avversari del regime, non già di aver svolto qualsiasi attività contro il fascismo: in questo caso, il fatto costituisce sempre un delitto e cade sotto la competenza del Tribunale Speciale fascista: la pena va dalla reclusione alla morte.
Pochissimi sono quelli che dispongono di mezzi di sussistenza: anche gli agiati han perduto tutti i loro risparmi in tanti anni di persecuzione politica. Molti sono operai e contadini. L’Isola non consente impiego di mano d’opera che per una decina di specialisti. Tutti gli altri deportati debbono vivere con una indennità giornaliera data dal governo: dieci lire fino al 1931. Presentemente l’indennità è stata ridotta a cinque lire al giorno. Ai deportati che hanno con sé la famiglia non è concesso di piú. Vitto, vestiario, biancheria, igiene e luce, per quanto limitati, non possono essere pagati con cosí piccola somma. L’economia è diventata un’arte che ciascuno coltiva con raffinati espedienti. Ma gli espedienti hanno un limite e la fame non si combatte con l’arte. Perciò la tubercolosi e la dissenteria sono le malattie dominanti nella colonia.
Per tanti deportati condannati all’ozio, uniche distrazioni erano i libri e gli sports. Ora tutti gli sports sono proibiti e i modesti circoli esistenti sono stati soppressi. L’unica biblioteca organizzata dai deportati fin dal 1927, è stata chiusa. Sui libri è esercitata una rigorosa censura e sono ammessi solo quelli consentiti da una speciale polizia fascista…
Esistevano, fino al 1928, scuole di reciproco insegnamento: sono state vietate.
Solo rifugio è la conversazione. Ma le riunioni di gruppi costituiscono reato ed è proibito parlare di politica, pena il carcere. Se ne parla ugualmente, con gergo appropriato, ma con precauzioni sagaci e regolare servizio di vedette. La corrispondenza epistolare è sempre censurata, con estremo rigore, e spesso distrutta: cosí la censura è piú rapida.
Le ore di libera uscita, nella cerchia limitata, sono regolate da orari speciali, secondo le stagioni. Frequenti sono gli appelli, di giorno e di notte. Ogni appello è un controllo di polizia. Presentemente si arriva anche a dodici appelli per notte. In questo caso, si dorme di giorno.
Ogni infrazione alle prescrizioni del regolamento della colonia è punita con la reclusione da tre a sei mesi. Le prescrizioni sono parecchie decine. Eccone una: «Articolo 7 - È proibito al deportato di tenere atteggiamento equivoco».
I deportati che non sono stati condannati per infrazioni al regolamento si contano sulle dita.
L’estate, per quanto caldissima, era attesa come una liberazione. Tutto il giorno rimanevamo immersi nel mare o sdraiati sulla spiaggia. Ora, sono vietati anche i bagni, e l’accesso alla spiaggia è proibito. Simile vita è poco lieta. Il deportato deve sentire, ogni giorno, la vivente forza del regime. La fanfara fascista, dominante sul Castello, suona gli inni fascisti; squadre di militi percorrono la strada, cantando canzoni di beffa per l’opposizione impotente. Finché io sono vissuto nell’Isola, le provocazioni fasciste erano rare. Ma ora esse sono imposte dai superiori comandi. Il fascista che non provoca è tacciato di scarso senso rivoluzionario e può diventare sospetto. Perciò, gli stessi ufficiali della Milizia ne dànno l’esempio. Il coraggio ha bisogno di allenamento. I deportati reagiscono e, allora, interviene sovrana la legge. Dal settembre del 1929 alla fine del ’31, duecentosettantadue deportati sono stati condannati per «oltraggio alla Milizia fascista».
Parallela a questa, si esercita in permanenza l’azione degli agenti provocatori: professione che, in questi ultimi anni, è diventata assai redditizia. L’agente provocatore arriva nell’Isola come un deportato: tutti lo credono tale, tranne la polizia fascista che ne è informata. L’agente recita la parte dell’uomo politico e suggerisce congiure e complotti per rovesciare il regime. In che modo può mai rovesciarsi il regime a Lipari? Questo non ha importanza. Quello che occorre è la buona volontà. L’agente l’ha tutta. La maggioranza, diffidente, sospetta; i piú ingenui l’ascoltano. Lo Stato quindi è in pericolo. L’agente, all’ultimo momento, è colto dal rimorso di aver pensato a perdere la patria, e parla. Piovono gli arresti. Cosí, in una sola notte, per il Natale del 1927, ne furono arrestati duecentocinquanta. Duecento furono rimessi in libertà poco dopo, e cinquanta stettero in carcere un anno. Da quel periodo ad oggi, l’esperimento è stato ripetuto tre volte.
A queste aggressioni legali, si aggiungono le altre: quelle guerriere. I militi fascisti hanno ormai preso l’abitudine di passare dalle parole ai fatti: necessario addestramento a piú ampie imprese di guerra. Il libro di Fausto Nitti racconta parecchi episodi. Ma dal 1929 ad oggi, i fascisti hanno fatto grandi progressi. Essi han bisogno d’azione. Se il regime traversa un’ora critica e pare vacilli, la Milizia, con atti violenti, intende dimostrare che essa non pencola; se il regime acquista prestigio per avvenimenti solenni, la Milizia intende dare tangibili segni della accresciuta potenza fascista. Nell’un caso e nell’altro, il corpo dei deportati è campo delle loro manovre. Campanile, Triburzi, Sentinelli, Tulli, Consiglio e Corsi, nell’inverno del 1930, furono talmente bastonati da dover essere ricoverati all’ospedale. Campanile vi rimase tre mesi. Fra tutti, egli era il piú giovane, studente universitario per giunta. E, si sa, con i giovani bisogna essere energici.
Per il Natale del 1929, verso il tramonto, sulla linea di sbarramento, una capra starnutí. A Lipari, le capre passeggiano in mezzo agli uomini. Le sentinelle fasciste piú vicine trasalirono. Non era questo, per caso, un segnale convenuto dai congiurati per l’insurrezione? A cuore fermo spianarono i moschetti e dettero il «chi va là!» La capra non rispose. Subitamente, aprirono il fuoco. Tutte le altre sentinelle e le pattuglie si credettero in pericolo e, pancia a terra, spararono anch’esse, furiosamente. La tromba del Castello suonò l’«allarmi». Tutti i militi accorsero alle armi: anch’essi spararono. Come avviene nei combattimenti accaniti, il frastuono delle armi eccitò i combattenti.
La battaglia divenne furiosa. Tutti i motoscafi levarono le ancore e solcarono il mare: anch’essi aprirono il f...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Marcia su Roma e dintorni
  3. Introduzione di Giovanni De Luna
  4. Prefazione
  5. Marcia su Roma e dintorni
  6. I
  7. II
  8. III
  9. IV
  10. V
  11. VI
  12. VII
  13. VIII
  14. IX
  15. X
  16. XI
  17. XII
  18. XIII
  19. XIV
  20. XV
  21. XVI
  22. XVII
  23. XVIII
  24. XIX
  25. XX
  26. XXI
  27. XXII
  28. Il libro
  29. L’autore
  30. Dello stesso autore
  31. Copyright