Caro Michele
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Caro Michele

  1. 200 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Caro Michele

Informazioni su questo libro

«Caro Michele»: il piú classico degli incipit epistolari è quello che Natalia Ginzburg sceglie come titolo del suo romanzo. Una madre già avanti negli anni ma ancora giovane e un figlio lontano fisicamente e ancor piú (e soprattutto) distante nelle idee, nelle esigenze, negli affetti e nei dolori. Un figlio per il quale la madre prova rancore, ma dal quale non riesce a staccarsi; e l'ultimo, irrescindibile cordone ombelicale è fatto di sole lettere.
Sorta di Lessico famigliare dieci anni dopo, Caro Michele è un romanzo dai personaggi dispersi, divisi dall'incomunicabilità e destinati alla solitudine, e la scelta del genere epistolare suona provocatoria e simbolica. Con la cronologia della vita e delle opere, la bibliografia essenziale e l'antologia della critica.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806179618

Caro Michele

Capitolo primo

Una donna che si chiamava Adriana si alzò nella sua casa nuova. Nevicava. Quel giorno era il suo compleanno. Aveva quarantatre anni. La casa era in aperta campagna. In distanza si vedeva il paese, situato su una collinetta. Il paese era a due chilometri. La città era a quindici chilometri. Essa abitava da dieci giorni in quella casa. Infilò una vestaglia di velo color tabacco. Cacciò i piedi lunghi e magri in un paio di pantofole color tabacco, slabbrate, con un bordo di pelo bianco molto frusto e sudicio. Scese in cucina e si fece una tazza di orzo Bimbo, e ci inzuppò diversi biscotti. Sul tavolo c’erano delle bucce di mela e le radunò in un giornale destinandole a dei conigli, che non aveva ancora ma aspettava perché glieli aveva promessi il lattaio. Poi andò nel soggiorno e spalancò le imposte. Nello specchio che era dietro il divano salutò e contemplò la sua alta persona, i suoi corti e ondulati capelli colore del rame, la testa piccola e il collo lungo e forte, gli occhi verdi, larghi e tristi. Poi sedette alla scrivania e scrisse una lettera al suo unico figlio maschio.
«Caro Michele, – scrisse, – ti scrivo soprattutto per dirti che tuo padre sta male. Vai a trovarlo. Dice che non ti vede da molti giorni. Io ci sono andata ieri. Era il primo giovedí del mese. Lo aspettavo da Canova e lí mi ha telefonato il cameriere che lui stava male. Cosí sono salita su. Era a letto. Mi è sembrato molto sciupato. Ha le borse sotto gli occhi e un brutto colore. Ha dolori alla bocca dello stomaco. Non mangia piú niente. Naturalmente continua a fumare.
Quando vai a trovarlo, non portare lí le tue solite venticinque paia di calzini sporchi. Quel cameriere che si chiama Enrico o Federico non mi ricordo, non è in grado di sopportare il peso della tua biancheria sporca in questo momento. È stranito e intontito. Non dorme la notte perché tuo padre chiama. In piú, è la prima volta che fa il cameriere perché prima lavorava in un elettrauto. In piú, è un completo cretino.
Se hai molta biancheria sporca, portala da me. Ho una donna di servizio che si chiama Cloti. È venuta cinque giorni fa. Non è simpatica. Siccome il muso ce l’ha sempre, e la situazione con lei è già pericolante, se tu arrivi qui con una valigia di roba da lavare e stirare non me ne importa molto e puoi farlo. Ti ricordo però che esistono buone lavanderie anche lí vicino allo scantinato dove tu vivi. E tu sei in età di occuparti di te stesso da solo. Fra poco tu avrai ventidue anni. A proposito, oggi è il mio compleanno. Le gemelle mi hanno regalato delle pantofole. Però io sono troppo affezionata alle mie vecchie pantofole. Volevo ancora dirti che se ti lavassi da te ogni sera fazzoletto e calze, invece di ammucchiarli sporchi sotto il tuo letto per settimane, sarebbe bello ma questo non mi è mai riuscito di fartelo capire.
Io ho aspettato il medico. È un certo Povo o Covo, non ho ben capito. Abita al piano di sopra. Cosa pensa della malattia di tuo padre non l’ho capito. Dice che ha l’ulcera e questo lo sapevamo. Dice che bisognerebbe portarlo in una clinica, ma tuo padre non vuole saperne.
Forse pensi che io dovrei trasferirmi in casa di tuo padre e assisterlo. Anch’io lo penso in qualche momento, ma credo che non lo farò. Ho paura delle malattie. Ho paura delle malattie degli altri, delle mie no, ma io però non ho mai avuto grandi malattie. Quando mio padre aveva la diverticolite, ho fatto un viaggio in Olanda. Ma lo sapevo benissimo che non era diverticolite. Era cancro. Cosí quando è morto non c’ero. Ne ho rimorso. Ma è vero che a un certo punto della nostra vita i rimorsi li inzuppiamo nel caffè la mattina come biscotti.
Poi se io arrivassi lí domani con la mia valigia, non so tuo padre che reazione avrebbe. Da molti anni è diventato timido con me. Anch’io con lui sono diventata timida. Non c’è niente di peggio della timidezza fra due persone che si sono detestate. Non riescono a dirsi piú niente. Sono grate una all’altra di non ferire e non graffiare, ma una simile specie di gratitudine non trova la strada delle parole. Dopo la nostra separazione, tuo padre e io abbiamo preso quella noiosa e civile abitudine di incontrarci a prendere il tè da Canova ogni primo giovedí del mese. Era un’abitudine che non assomigliava né a lui né a me. Ce l’aveva consigliato quel suo cugino Lillino, che fa l’avvocato a Mantova, e lui quel suo cugino lo ascolta sempre. Secondo suo cugino, noi due dovevamo mantenere dei rapporti corretti e incontrarci ogni tanto per discutere dei comuni interessi. Però quelle ore che passavamo da Canova erano un tormento per tuo padre e per me. Siccome tuo padre è una persona metodica nel suo disordine, aveva stabilito che dovevamo restare a quel tavolino dalle cinque alle sette e mezzo. Ogni tanto sospirava e guardava l’orologio e questa era per me un’umiliazione. Se ne stava sdraiato all’indietro sulla sedia e si grattava la sua testaccia nera scompigliata. Mi sembrava una vecchia pantera stanca. Parlavamo di voi. Però a lui delle tue sorelle non gliene importa niente. La sua stella sei tu. Da quando tu esisti s’è cacciato in testa che sei l’unica cosa al mondo che sia degna di tenerezza e di venerazione. Parlavamo di te. Ma lui diceva subito che io di te non avevo mai capito niente e che lui solo ti conosce a fondo. Cosí il discorso era chiuso. Avevamo una tale paura di contraddirci che ogni argomento ci sembrava pericoloso e lo buttavamo via. Voi lo sapevate che noi ci incontravamo lí quei pomeriggi ma non sapevate che a consigliarcelo era stato quel suo maledetto cugino. Mi accorgo che ho usato l’imperfetto, ma in verità penso che tuo padre stia molto male e che non ci incontreremo mai piú da Canova ogni primo giovedí del mese.
Se tu non fossi cosí balordo, ti direi di lasciare il tuo scantinato e installarti di nuovo a via San Sebastianello. Potresti alzarti tu la notte invece del cameriere. Tu in fondo non hai niente di preciso da fare. Viola ha la casa e Angelica ha il lavoro e la bambina. Le gemelle vanno a scuola e poi sono piccole. Tuo padre del resto le gemelle non le sopporta. Non sopporta nemmeno tanto Viola o Angelica. Quanto alle sue proprie sorelle, Cecilia è vecchia, e con Matilde si detestano. Matilde ora sta da me e ci rimarrà l’inverno. Tuo padre comunque l’unica persona al mondo che ama e sopporta sei tu. Però essendo tu come sei mi rendo conto che è meglio che tu resti nel tuo scantinato. Se tu fossi là da tuo padre cresceresti il disordine e getteresti nella disperazione il cameriere.
Un’altra cosa che ti voglio dire è questa. Ho ricevuto una lettera di una persona che dice di chiamarsi Mara Castorelli e di avermi conosciuto l’anno scorso a una festa nel tuo scantinato. La festa me la ricordo, ma c’era tanta gente e non ricordo nessuno con precisione. La lettera mi è arrivata al vecchio indirizzo in via dei Villini. Questa persona mi chiede se l’aiuto a trovare un lavoro. Scrive da una pensione dove però non può restare perché paga troppo. Dice che ha avuto un bambino e vorrebbe venire da me per farmi vedere questo bel bambino. Io ancora non le ho risposto. Una volta i bambini mi piacevano, ma adesso non avrei nessuna voglia di meravigliarmi sopra un bambino. Sono troppo stanca. Vorrei sapere da te chi è questa qui e che specie di lavoro desidera, perché non lo spiega bene. Sul momento non ho dato peso a questa lettera, ma a un certo punto mi è venuto il dubbio che il bambino sia tuo. Perché non capisco come mai questa qui mi ha scritto. Ha una calligrafia bislacca. A tuo padre ho chiesto se conosceva una certa Martorelli tua amica, lui ha detto di no, poi si è messo a parlare del formaggio Pastorella che si portava dietro quando andava in barca a vela, ma con tuo padre non si può piú fare un discorso sensato. Ma io a poco a poco mi sono cacciata in testa che questo bambino è tuo. Ieri sera dopo cena ho tirato di nuovo fuori la mia macchina che è sempre una gran fatica tirarla fuori. Sono andata in paese a telefonarti ma a te non ti si trova mai. Mentre ritornavo mi è venuto da piangere. Un po’ pensavo a tuo padre che è cosí mal ridotto e un po’ pensavo a te. Se per caso è tuo il bambino di questa Martorelli cosa farai tu che non sai fare niente. Le scuole non hai voluto finirle. Quei quadri che fai con quelle case che crollano e quei gufi che volano non li trovo tanto belli. Tuo padre dice che sono belli e che io non capisco la pittura. A me sembra che assomigliano ai quadri che faceva tuo padre da giovane ma in peggio. Io non lo so. Ti prego fammi sapere cosa devo rispondere a questa Martorelli e se devo mandarle dei soldi. Non li chiede ma certo li vuole.
Io sono sempre senza telefono. Sono andata non so quante volte a sollecitare ma non è venuto nessuno. Per piacere vai anche tu alla Società dei Telefoni. Non ti costa niente perché non è lontano da te. Magari quel tuo amico Osvaldo che ti ha dato lo scantinato conosce qualcuno ai Telefoni. Le gemelle dicono che quell’Osvaldo ha lí un cugino. Senti se è vero. È stato gentile a darti lo scantinato senza pagare, però quello scantinato è buio per dipingere. Magari è per quello che fai tutti quei gufi, perché stai lí a dipingere con la luce accesa e pensi che è notte fuori. Dev’essere anche umido e io per fortuna ti ho dato quella stufa tedesca.
Non credo che verrai a farmi gli auguri per il mio compleanno perché non credo che te ne ricordi. Non verranno né Viola né Angelica perché ho parlato ieri al telefono con tutt’e due e non potevano. Sono contenta di questa casa, ma certo trovo scomodo essere cosí lontana da tutti. Pensavo che qui l’aria era buona per le gemelle. Le gemelle però scappano via tutto il giorno. Vanno a scuola con i loro motorini e mangiano in una pizzeria in centro. Fanno i compiti da un’amica e tornano che è buio. Finché non tornano sto in pensiero perché non mi piace che siano per strada quando già è buio. Da tre giorni è arrivata la tua zia Matilde. Vorrebbe andare a trovare tuo padre, ma lui ha detto che non ha voglia di vederla. Sono in freddo da molti anni. A Matilde ho scritto io di venire perché era giú di nervi e a corto di soldi. Ha fatto una speculazione sbagliata su certi fondi svizzeri. Le ho detto di dare qualche ripetizione alle gemelle. Le gemelle però scappano. Io dovrò sopportarla ma non so ancora come la sopporterò.
Forse ho fatto un errore a comperare questa casa. In certi momenti penso che è stato un errore. Mi devono portare dei conigli. Quando me li porteranno, vorrei che tu venissi a farmi le gabbie. Per adesso, penso di metterli nella legnaia. Le gemelle vorrebbero un cavallo.
Ti dirò che la ragione essenziale è stata che non volevo incontrare sempre Filippo. Sta a due passi da via dei Villini e lo incontravo sempre. Mi era penoso incontrarlo. Sta bene. Sua moglie avrà un bambino in primavera. Dio mio come mai nascono sempre tutti questi bambini quando la gente è stufa e non li sopporta piú. Se ne sono visti troppi.
Adesso smetto di scriverti, do la lettera a Matilde che va a fare la spesa e me ne sto a guardare nevicare e a leggere i Pensieri di Pascal.
Tua madre».
Finita e chiusa questa lettera, essa di nuovo scese in cucina. Salutò e baciò le sue due gemelle di quattordici anni Bebetta e Nannetta, che avevano due identiche code bionde, due identici giacconi blu con gli alamari e identici calzettoni scozzesi e se ne andarono a scuola su due identici motorini. Salutò e baciò sua cognata Matilde, zitella grassa e maschia dai capelli bianchi e lisci, con una ciocca che le cadeva sempre su un occhio e che buttava indietro con gesto spavaldo. Non si vedevano intorno tracce della donna di servizio Cloti. Matilde voleva andare a chiamarla. Osservò che si alzava ogni mattina un quarto d’ora piú tardi e ogni mattina aveva parole amare per il suo materasso che trovava a bernoccoli. Infine questa Cloti apparve e scivolò lungo il corridoio con una vestaglia azzurro cielo molto corta e gonfia e i lunghi capelli grigi sciolti sulle spalle. Dopo un attimo uscí dal suo bagno con un grembiale marrone rigido e nuovo. I capelli li aveva tirati su con due pettini. Si mise a rifare i letti trascinando le coperte con immensa malinconia e esprimendo il desiderio di licenziarsi in ogni gesto. Matilde s’infilò una mantella tirolese e disse che sarebbe andata a fare la spesa a piedi, lodando con la sua voce virile e profonda la neve e l’aria gelida e sana. Ordinò di mettere a cuocere certe cipolle che aveva visto appese in cucina. Aveva una buona ricetta per una zuppa di cipolle. Cloti notò con voce spenta che erano tutte marce quelle cipolle.
Adriana ora si era vestita e aveva dei calzoni color tabacco e un maglione color sabbia. Sedette nel soggiorno accanto al camino acceso ma non lesse i Pensieri di Pascal. Non lesse niente e nemmeno guardò la neve di fuori perché a un tratto le parve di detestare quel paesaggio nevoso e gibboso che si vedeva dalle finestre e invece posò la testa sulle mani e si accarezzò i piedi e le caviglie nei calzerotti color tabacco e tutta la mattina passò cosí.

Capitolo secondo

In una pensione in piazza Annibaliano entrò un uomo che si chiamava Osvaldo Ventura. Era un uomo tarchiato e quadrato, con un impermeabile. Aveva i capelli biondo-grigi, il colorito florido, gli occhi gialli. Aveva sempre sulla bocca un sorriso incerto.
Una ragazza che conosceva gli aveva telefonato di venire a prenderla. Voleva andarsene via da quella pensione. Qualcuno le imprestava un appartamento in via dei Prefetti.
La ragazza era seduta nell’atrio. Aveva una maglietta di cotone turchese, dei calzoni color melanzana, e una casacca nera con ricamati dei draghi d’argento. Ai suoi piedi c’erano borse e reticelle, e un bambino in una valigia di plastica gialla.
«Ti aspetto da un’ora qui come una cretina», lei disse.
Osvaldo radunò le borse e le reticelle e le portò tutte sulla porta.
«Vedi quella riccioluta vicino all’ascensore?» lei disse. «Era la mia vicina di stanza. È stata gentile con me. Le devo molto. Anche dei soldi. Salutala con un sorriso».
Osvaldo offerse alla riccioluta il suo sorriso incerto.
«Mio fratello è venuto a prendermi. Vado a casa. Domani le riporto il termos e tutto», disse Mara. Lei e la riccioluta si baciarono forte sulle guance.
Osvaldo tirò su la valigia, le borse e le reticelle e uscirono.
«Sarei tuo fratello?» lui disse.
«Era molto gentile. Cosí le ho detto che eri mio fratello. Alle persone gentili fa tanto piacere conoscere dei parenti».
«Le devi molti soldi?»
«Pochissimi. Vuoi darglieli tu?»
«No» disse Osvaldo.
«Le ho detto che glieli portavo domani. Ma non è vero. Non mi vedranno mai piú in questo posto. Un giorno, le farò un vaglia telegrafico».
«Quando?»
«Quando avrò un lavoro».
«E il termos?»
«Il termos forse non glielo restituisco piú. Tanto lei ne ha un altro».
La cinquecento di Osvaldo era posteggiata sull’altro lato della piazza. Nevicava e tirava vento. Mara camminava reggendosi sulla testa un cappellone di feltro nero. Era una ragazza bruna, pallida, molto piccola e molto magra, con i fianchi larghi. La sua casacca a draghi sventolava e i suoi sandali affondavano nella neve.
«Non avevi qualcosa di piú caldo da metterti?» lui disse.
«No. Ho tutta la mia roba in un baule. In casa di due miei amici. Sulla via Cassia».
«In macchina c’è Elisabetta», lui disse.
«Elisabetta? e chi è?»
«Mia figlia».
Elisabetta stava rincantucciata sul sedile di dietro. Aveva nove anni. Aveva i capelli color carota, un maglione e una camicia a scacchi. Teneva in braccio un cane col pelo fulvo e con lunghe orecchie. Accanto a lei fu posata la valigia di plastica gialla.
«Com’è che ti sei tirato dietro questa bambina con questa bestiaccia», disse Mara.
«Elisabetta era da sua nonna e sono andato a riprenderla», disse lui.
«Hai sempre delle incombenze. Fai sempre piaceri a tutti. Quand’è che avrai una vita tua», lei disse.
«Cosa ti fa pensare che io non abbia una mia vita», disse lui.
«Tieni forte quel cane che non lecchi il mio bambino, capito Elisabetta», lei disse.
«Esattamente quanto ha il bambino?» chiese Osvaldo.
«Ha ventidue giorni. Non te lo ricordi che ha ventidue giorni? Sono uscita dalla clinica due settimane fa. La caposala della clinica mi ha consigliato quella pensione. Ma non ci potevo stare. Era sporco. Mi faceva schifo posare i piedi sul tappetino del lavabo. Era un tappetino di gomma verde. Sai come possono fare schifo nelle pensioni quei tappetini di gomma verde».
«Sí, lo so».
«In piú, spendevo molto. In piú, erano sgarbati. Io ho bisogno di gentilezza. Ne ave...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Caro Michele
  3. Prefazione di Cesare Garboli
  4. Caro Michele
  5. Appendice
  6. Il libro
  7. L’autore
  8. Dello stesso autore
  9. Copyright