Di cosa fosse, di che forma avesse e di come suonasse il blues prima dell’avvento della registrazione discografica non abbiamo nessuna idea: il disco fissa su gommalacca un periodo che parte dai primi anni del Novecento, mentre le ricerche etnomusicologiche di Lomax e altri studiosi, avviate nei primi anni Trenta, pur riportando a galla reperti e fossili musicali piuttosto interessanti non hanno svelato, né rivelato, in quali forme si esprimessero i bluesmen che hanno inventato questo genere musicale. Abbiamo solo delle testimonianze, e null’altro.
Il blues assume una forma codificata, standardizzata, a partire dagli anni Venti. Questo però non vuol dire che prima non si usassero altre forme, o che questa fosse condivisa da ogni bluesman a qualunque latitudine. Né, soprattutto, che il blues sia nato in questa forma. Il meccanismo armonico, melodico e testuale che andremo a smontare nel prossimo paragrafo è un modello ormai universalmente condiviso, e ampiamente utilizzato, almeno dal punto di vista del giro armonico, da molti altri generi musicali. Soltanto scomponendolo nelle sue parti fondamentali avremo gli elementi necessari per comprenderne il funzionamento, e per procedere alla ricerca di ulteriori elementi di indagine.
1. Questioni di forma.
Dodici misure. Tre accordi. Tre versi, di cui due uguali e l’ultimo che rima con il precedente. Uno spazio riempito per metà dal canto e per l’altra metà da una frase strumentale. Volendo ridurre all’osso, la strofa tipica del blues è tutta qui, in questa estrema economia di mezzi, in questo scheletro essenziale, ma capace di produrre variazioni infinite e meraviglie altrettanto infinite.
Quando ci si riferisce alla forma blues, ovvero a quel meccanismo strofico condiviso, e in qualche modo convenzionale, che si afferma a partire dagli anni Venti, e che abbiamo riassunto in pochi tratti poche righe piú su, si indica una forma musicale che non esiste in nessun’altra cultura e parte del mondo. Sebbene siano stati compiuti studi e ricerche tendenti a identificarne gli antecedenti e i precursori, non sembra essere stato individuato alcun parente prossimo, o stretto. La forma blues, come il blues, affonda le sue radici in Africa (come abbiamo visto nel capitolo I), ma al tempo stesso è il frutto, originale e sorprendentemente singolare, della creatività dell’uomo afroamericano.
Proveremo, dunque, a comprenderne e riconoscerne i meccanismi, gli ingranaggi, le sezioni, le parti e i singoli componenti a partire da tre macrostrutture: il giro armonico, la particolare disposizione del testo e l’interazione tra quest’ultimo e la melodia.
Il giro armonico, cioè la successione degli accordi, può essere facilmente sintetizzata nella matrice seguente:
A ogni quadrato della matrice corrisponde una misura (o battuta) e a ogni numerale romano un accordo costruito sul relativo grado della scala musicale: I indica l’accordo costruito sul primo grado della scala, quindi la nota fondamentale della medesima (nella scala di Do, la nota do); IV si riferisce all’accordo costruito sul quarto grado della scala (nella scala di Do, la nota fa) e V contraddistingue l’accordo costruito sul quinto grado della scala (il sol, sempre riferendoci alla scala di Do maggiore). Nel sistema tonale questi tre particolari accordi sono i piú importanti e i piú frequentemente utilizzati; in piú assolvono a specifiche funzioni di carattere armonico: il primo, detto anche tonica, individua la regione di riposo, quindi statica, che fa capo alla nota fondamentale della scala; il V, chiamato accordo di dominante, segnala, al contrario, il momento di massima tensione dinamica, e richiede il ritorno al I grado, allo stato di quiete. In questa dialettica di tensione-distensione si inserisce l’accordo costruito sul IV grado, detto anche sottodominante, a individuare gradi intermedi di tensione e distensione.
Se dal punto di vista dell’utilizzo di materiali armonici la forma blues non si configura come innovativa (I-IV-V sono tra gli ingredienti piú comuni nella popular music), è invece del tutto unico lo schema formale delle dodici misure, la dislocazione degli accordi, il meccanismo narrativo sviluppato a partire da questa concatenazione. Naturalmente, nel corso dei decenni allo schema su indicato sono state apportate numerosissime variazioni e varianti; le piú diffuse indicano un IV a misura due (sí che le prime quattro misure si snodino lungo la sequenza I-IV-I-I), e ancora un IV a misura dieci, che serve a stemperare il ritorno verso l’accordo di base (V-IV-I-I). È inoltre assai frequente l’apparizione di un V grado nell’ultima misura, dispositivo il cui scopo è quello di preparare, lanciandolo, l’inizio della strofa successiva: strategia narrativa che aumenta, nell’ascoltatore, il desiderio che la ruota continui a girare, e che la macchina non si fermi, come nell’esempio seguente:
Il meccanismo armonico della forma blues è quello che normalmente viene importato in altri generi o stili: jazz, rhythm and blues, boogie-woogie, rock and roll, country, soul, funky utilizzano della forma blues esclusivamente la concatenazione di accordi. Non la struttura dei versi, né l’interazione tra versi e melodia.
Facile capire perché. La struttura del verso, in un blues, è quanto di piú unico, originale e misterioso sia apparso nella musica degli ultimi due secoli. Come abbiamo già visto, la tipica stanza blues è composta di tre versi: i primi due identici (il secondo può essere lievemente variato), e un terzo che, oltre a concludere e completare il ragionamento, l’immagine o il racconto dei primi due, rima con essi, secondo uno schema AAB. L’esempio è tratto da Poker Woman di Blind Blake.
I love to gamble, gambling’s all I do
I love to gamble, gambling’s all I do
And when I lose, it never makes me blue7.
Gli studiosi da tempo si interrogano sul perché di questa conformazione. Per alcuni la ripetizione del verso serve a ribadire, rinforzare il concetto, favorendo la partecipazione del pubblico. Per altri ha lo scopo di aumentare l’attesa del verso finale, inchiodando l’ascoltatore in un inviluppo narrativo. Forse, piú semplicemente, la ripetizione del verso è tempo: tempo che serve al bluesman per creare estemporaneamente il verso di chiusura. Questo spiegherebbe il perché della presenza di un meccanismo formulaico (come vedremo piú nel dettaglio nel prossimo capitolo). Il blues, dunque, nasce come forma poetica improvvisata, adagiata su una base, invece, (relativamente) stabile.
Ciascun verso, inoltre, ha una suddivisione ulteriore in due frasi distinte; la separazione viene marcata attraverso una breve pausa (durante la quale il cantante prende fiato), o da una nota tenuta, o da un particolare intervallo tra due note. Col che, suggerisce Jeff Todd Titon, è possibile formalizzare il testo di un blues come la successione di stanze di tre versi, ciascuno dei quali suddiviso in due frasi:
Nella forma blues assume importanza decisiva anche il modo in cui i tre versi vengono collocati e posizionati all’interno della strofa. Ciascun verso, infatti, si inscrive nella fondamentale pratica del call and response, uno degli architravi del pensiero musicale africano: a ogni enunciato vocale, la domanda o “call”, segue una parte strumentale, ovvero una risposta. Quando il bluesman si esibisce in completa solitudine sarà lo strumento col quale si accompagna a determinare la risposta strumentale.
L’enunciato vocale occupa piú o meno la metà dello spazio a disposizione: finisce, cioè, solitamente sul primo quarto (quindi sul primo accento) della terza misura, lasciando alla musica uno spazio sostanzialmente analogo: testo e musica, cioè, ricevono lo stesso trattamento, a indicarne la medesima importanza, e rilevanza, all’interno del blues.
Questo solitamente non accade quando la forma blues viene presa in prestito da altri stili o generi; anche le espressioni piú vicine, come orizzonte estetico e cubatura timbrica, adottano strategie testuali diverse; se si confrontano, per esempio, il testo di un blues classico e quello di un brano in stile rock and roll di Chuck Berry, si nota come, nel secondo, il testo è organizzato in maniera completamente diversa, sebbene la forma armonica sia quella del blues e l’insieme dei gesti vocali, timbrici ed espressivi alluda alle propaggini piú elettriche del blues, come il rhythm and blues.
Sovrapponendo alla griglia armonica la struttura del verso e la sua dislocazione nello spazio musicale si ottiene una rappresentazione molto prossima a quello che accade in una strofa blues (in questo caso, la prima stanza di Saint Louis Blues interpretata da Bessie Smith, nella trascrizione di Graeme Boone).
L’aver accorpato tutti gli elementi prima analizzati singolarmente consente una serie di altre riflessioni. La prima riguarda il modo in cui testo e armonia concorrono all’elaborazione di un meccanismo narrativo assai robusto. È facile notare come l’unico elemento difforme nella ripetizione dei due versi è l’accordo di sottodominante a misura cinque e sei, mentre tutto il resto è invariato: il passaggio al IV, piazzato proprio all’inizio della ripetizione del primo verso, ne suggerisce una nuova interpretazione, una versione rinnovata. Lo scarto maggiore è all’inizio del terzo enunciato, la cui novità, e importanza all’interno del discorso, sono enfatizzate dal momento di massima tensione armonica: il passaggio al V, l’eventuale attenuazione sul IV e il ritorno al I, in attesa che tutto ricominci daccapo. Il “call”, in ultima analisi, poggia sempre su un sostrato armonico diverso (I-I o I-IV; IV-IV; V-V o V-IV): a restare immobile è l’armonia della “risposta” strumentale, gravitante attorno all’accordo di base. Questo consente al musicista di improvvisare con piú agio la figura strumentale da opporre al verso.
L’altra riflessione ha come oggetto un ulteriore elemento di potente evocazione: la scala blues. Intimamente connessa alla capacità di penetrazione del verso è la maniera in cui la melodia viene costruita, quasi scolpita all’interno di uno schema estremamente funzionale, dunque abbastanza rigido. Di norma, le scale, ovvero la successione di note, che vengono utilizzate nella costruzione di melodie e improvvisazioni sono anch’esse un frutto assai interessante del processo di adattamento dell’uomo afroamericano al Nuovo Mondo: talmente interessante da essere praticamente estraneo alle modalità scalari della musica europea. La scala piú utilizzata è la cosiddetta pentatonica, minore e maggiore: il nome stesso suggerisce che, al contrario della normale scala di Do, composta da sette note, questa ne comprende solo cinque, i cui rapporti intervallari generano tensioni e contrasti assai pronunciati, e dal sapore inconfondibilmente afroamericano. Altra scala molto usata è la scala blues, al cui interno sono presenti le famose blue notes: la terza e la settima nota (mi e si, nella scala di Do maggiore) vengono abbassate di un semitono (piú precisamente, vengono collocate in un’area di altezza flessibile), conferendo un suono, una grana armonica del tutto particolare alle melodie: il loro carattere, cioè, si sottrae alla bidimensionalità maggiore-minore per assumere un carattere indefinibile, come sono indefinibili la natura e lo spirito del blues.
Gli spigoli intervallari, le frizioni armoniche si assommano alla tecnica, anch’essa tutta afroamericana, di collocare l’inizio di ogni frase nel punto meno atteso, quindi mai esattamente all’inizio della battuta, né in concomitanza del cambio di accordo: sebbene, come rilevato da Kubik, il blues manchi degli aspetti pervasivamente poliritmici delle musiche di origine subsahariana, compensa con una enorme tensione ritmica, ottenuta dal contrasto tra il tempo di 4/4 assai articolato (spesso declinato come 12/8, e spesso non isometrico), e la funzione di destabilizzazione ritmica affidata al verso cantato.
Ogni blues, dunque, funziona come un articolato sistema di segni; ciascuna sua particella, ogni piú piccolo elemento costituisce un marcatore di identità culturale, e di continuità col proprio passato. Articolato, certo, ma al tempo stesso di estrema semplicità: un pattern di facile appropriazione, e come tale strumento di interazione sociale. L’ha spiegato, in maniera assai convincente, Susan McClary:
Questa semplice procedura si rivela estremamente elastica, capace di rafforzare i soggetti, gli affetti e gli stili piú vari. Se i singoli accordi blues non agiscono sulla base della deviazione per raggiungere i propri scopi espressivi […] sottoscrivono una potente struttura retorica, e la dinamica che delineano è stata rifinita da numerose generazioni di performer che hanno interagito con il pubblico. Mentre la nostra attenzione si concentra sulle sfumature d’immaginario esibite in ogni nuova manifestazione del blues, il pattern stesso, che ha lo scopo di facilitare, diviene il significante piú importante di tutto l’insieme: riconosce una storia sociale, una genealogia che deriva da una moltitudine di tributari. E con ogni strofa, ogni performance, inscrive nuovamente un modello specifico di interazione sociale.
La forma blues, cioè, agisce da dispositivo per la conservazione e la sopravvivenza di una memoria collettiva, di questa essendone un prodotto condiviso e assimilato a ogni livello.
2. 8-12-16 e altre quantità.
Nel tentativo di analizzare le varianti cui la forma blues è stata sottoposta nel corso degli anni, vanno osservate anche quelle che hanno agito sul numero di battute del modulo, non soltanto sulla natura degli accordi all’interno della matrice a dodici. Esistono blues il cui numero di battute scende a otto, e blues il cui numero di misure sale a sedici (per non parlare di tutti gli esperimenti cui i musicisti di jazz hanno sottoposto le dodici misure). Ciascuno di questi offre una diversa prospettiva, e contribuisce a puntare l’attenzione sulla domanda che, silenziosamente, ha preso corpo lungo tutta la sezione teorica: dal punto di vista della forma, da dove deriva il blues?
Naturalmente, è una delle domande cui è piú difficile dare risposta: forse non lo sapremo mai, però è possibile fare ipotesi. Come si è già visto nella prima sezione, il tentativo di far risalire per lo meno la struttura del verso AAB a pratiche e modelli africani è troppo vago per poter essere accolto come probante. Troppo scarsi i risultati, sebbene il tentativo di Kubik sia encomiabile e indichi con rigore la direzione in cui moltiplicare ricerche e sforzi.
Anni fa ebbe molta eco, e acquisí improvviso prestigio, l’ipotesi di uno studioso sudafricano, Peter Van Der Merwe: egli faceva risalire la forma blues a un’antica forma musicale europea, il passamezzo moderno, il cui contenuto armonico si snodava attorno a questa sequenza: I7IV I V : I IV I-V I. La danza, originatasi nel 1500, conobbe grande popolarità nei decenni e secoli successivi, fino a, secondo Van Der Merwe, generare una forma americana di passamezzo moderno, alla metà del XIX secolo, dalla quale discese la forma blues e dunque il rock and roll. Il blues ha, dunque, radici britanniche? L’idea è forte, e anche difficile da digerire. Al di là del fatto che dal punto di vista morfologico la distribuzione degli accordi (e soprattutto delle cadenze) è sensibilmente differente, è il presupposto a offrire il destro a robuste controdeduzioni. Walser, per esempio, sostiene che descrivere le canzoni di Little Richard come derivanti, in definitiva, da un modello britannico, o il blues come discendente di una forma seicentesca vuol dire travisare la natura dell’espressione musicale afroamericana, banalizzando l’attività di alcuni tra i piú importanti musicisti del secolo. Negus, invece, sottolinea le derive formalistiche, e astoriche, dell’idea vandermerwiana, colpevole di ignorare totalmente le qualità timbriche e i contesti di produzione e ricezione.
Sarà dunque opportuno non spingersi troppo indietro, e limitarsi a setacciare i dintorni temporali della nascita del blues. Scavando in quella determinata area temporale, per esempio, è possibile rinvenire, ampiamente documentati su rulli di cera e spartiti, forme a sedici misure la cui morfologia è assai affine: la successione armonica si snoda lungo la progressione I-I-I-I IV-IV-I-I IV-IV-I-I V-V-I-I, ovvero una normale forma a dodici misure in cui la seconda sezione – quella che ospita il secondo verso, per intenderci – è raddoppiata, duplicata. Questo allargamento armonico supporta una distribuzione dei versi assai particolare: la stanza ha la forma AAAB, con quattro versi e il primo che si ripete tre volte.
Verrebbe dunque naturale ipotizzare che questa particolare versione a sedici misure abbia generato, per semplice eliminazione di quattro misure e relativa soppressione della ripetizione di un verso (con conseguente diminuzione della ridondanza), la forma a dodici misure. La questione, in verità, non è cosí semplice; intanto, perché le due forme (a dodici, AAB, e sedici, AAAB) per un lungo periodo sono esistite contemporanee; poi, perché forme blues ...