Il leopardo di Kublai Khan
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Il leopardo di Kublai Khan

Una storia mondiale della Cina

  1. 488 pagine
  2. Italian
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Il leopardo di Kublai Khan

Una storia mondiale della Cina

Informazioni su questo libro

Intrecciando storie di personaggi straordinari e di gente comune, Il leopardo di Kublai Khan è un racconto avvincente quanto contraddittorio di guerre, missioni diplomatiche, vassallaggi, credenze religiose e scambi commerciali: per una principessa che attraversa la Persia allo scopo di stringere un'alleanza politica sposando il sovrano dell'Ilkhanato, una missione diplomatica in Sri Lanka termina con il rapimento del re locale; gli imperatori invitano i commercianti mongoli e coreani di cavalli ai mercati del Nord della Cina, ma i loro ufficiali tratteranno i marinai portoghesi alla stregua di pirati; per un re Giorgio III elettrizzato all'idea d'incontrare un cinese qualunque a Londra, i minatori cinesi che lavorano in Sudafrica andranno spesso incontro alla tortura... Una storia magistrale di invasioni, carestie, inondazioni e pestilenze, diffusione di idee e tecnologie, che segue quell'incerta linea di confine tra commercio e pirateria, resistenza e complicità con il colonialismo: una storia del mondo con la Cina al suo centro.«Secondo le ricostruzioni storiche convenzionali la Cina divenne un solo paese nel 221 a.C. [...] La transizione da una molteplicità di paesi a un unico paese rappresenta senza alcun dubbio una svolta decisiva, ma [...] un'altra transizione, ben piú recente, si verificò nel XIII secolo, quando l'oscillazione dinastica tra un solo regno unificato e una molteplicità di regni disseminati si esaurí una volta per tutte, e la Cina ricadde sotto l'occupazione dei Mongoli discendenti di Chinggis (Gengis) Khan. Fu in seguito a questa seconda grande unificazione che la Cina divenne un paese completamente differente. I fasti delle dinastie Tang e Song precedenti all'invasione mongola rappresentano un dato di fatto indiscutibile, e i lasciti delle piú remote dinastie continuano ancora oggi a plasmare la cultura cinese. Ma per lo storico, il cui sguardo si proietta sul lungo periodo, la Cina di oggi è figlia dei Mongoli, piú che dei Qin».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
Print ISBN
9788806244316
eBook ISBN
9788858434499
Argomento
Storia
Categoria
Storia cinese
Parte seconda

Il Grande Stato Ming

Capitolo quarto

L’eunuco e il suo ostaggio

Ceylon, 1411
Nel novembre 1410 la flotta del Grande Stato Ming fu avvistata all’orizzonte mentre giungeva da est e si dirigeva verso Ceylon. Quarantotto navi di grosse dimensioni dominavano il convoglio. I vascelli piú piccoli, che ne seguivano la scia accalcati come api intorno al miele, erano all’incirca il doppio. A bordo, tra marinai, soldati, eunuchi e assistenti, c’erano almeno trentamila persone. La notizia si diffuse rapidamente fra gli isolani e l’esercito fu messo in massimo stato d’allerta: stavano arrivando i Cinesi.
Non era la prima volta. Quattro anni prima una flotta altrettanto grande e minacciosa era approdata sulle coste di Ceylon, piú o meno nello stesso periodo dell’anno, due mesi dopo l’inizio del monsone invernale, quando il vento soffia da nord-est e la corrente marina spinge verso ovest. Un momento dell’anno ideale per navigare verso occidente attraverso il Golfo del Bengala. Per di piú la corrente costiera di Ceylon girava attorno all’isola in senso orario, spingendo chi proveniva dal golfo verso la punta meridionale dell’isola, per poi risalire sul versante occidentale, dove il regno di Ceylon (o Sri Lanka, come vuole lo stesso nome pronunciato in maniera differente) era piú esposto al mondo. Quella volta la flotta aveva gettato l’ancora nel kolamba («porto», area in cui ai nostri giorni si trova Colombo) a valle del kotte («forte», da cui Sri Jayawardenapura-Kotte, capitale dell’odierno Sri Lanka), dove il gran viceré Nissanka Alagakkonara, al comando di decine di migliaia di uomini armati, garantiva la pace del regno e vegliava sugli attacchi dei Tamil a nord.
L’incontro di quattro anni prima non era andato per niente bene. Era sbarcata una delegazione di ambasciatori del cosiddetto Grande Stato Ming, i quali, con i loro magnifici abiti di seta al vento, e con tutte le cerimonie del caso, avevano proposto al re di assoggettarsi al nuovo imperatore del Grande Stato. L’idea che il sovrano dovesse sottoporsi a una cerimonia di investitura per farsi riconoscere una posizione legittima, agli ordini dell’imperatore di un paese lontano, era parsa a dir poco offensiva. La minaccia portata dagli stranieri andava presa sul serio: se il re si fosse piegato alle loro richieste, i nemici dei territori circostanti l’avrebbero considerato un segnale di debolezza e avrebbero attaccato Ceylon non appena tutti quegli eunuchi, con i loro fantasiosi paramenti, avessero fatto fagotto per ritornare nel loro paese. La delegazione cinese aveva inoltre chiesto al re di inviare degli ambasciatori presso il Grande Stato Ming affinché si prostrassero dinanzi all’imperatore, riconoscendolo come Figlio del Cielo. Se davvero l’avesse fatto, il re avrebbe perso la faccia, senza contare che in teoria i suoi ambasciatori avrebbero potuto essere trattenuti fin quando l’imperatore non avesse permesso loro di far ritorno in patria. Uno piú insicuro si sarebbe intimorito alla vista di cosí tante navi e truppe. Ma Alagakkonara era a casa propria e aveva al suo comando un numero doppio di uomini. Ritenendo che non vi fosse alcuna ragione per capitolare, rifiutò l’offerta e ordinò ai Cinesi di far ritorno alle loro navi. L’eunuco a capo della delegazione, Zheng He, mantenne questa volta una linea di prudenza. Si ritirò con i suoi uomini a bordo delle navi e decise di non portare a termine la missione diplomatica affidatagli dall’imperatore. Dopodiché proseguí il suo viaggio e andò a trattare con altri sovrani del continente indiano.
La primavera successiva la flotta era stata avvistata nuovamente. Faceva rotta verso est per tornare in Cina, ma in quella circostanza non c’era stato il benché minimo tentativo di sbarco. Pericolo scampato per Ceylon, ma non certo perché l’eunuco Zheng non fosse capace di usare la forza quando le circostanze glielo permettevano. Chen Zuyi era un avventuriero cinese che scorrazzava nelle acque del porto di Palembang, a Sumatra, controllando le navi che percorrevano le rotte della regione e imponendo loro dei balzelli. Quando i Cinesi passarono da lí Zheng rifiutò di sottomettersi a Chen, e durante il viaggio di ritorno condusse un’operazione militare per catturarlo e portarlo in Cina, dove avrebbe avuto la punizione che si meritava. Il rifiuto opposto da Alagakkonara ai Ming aveva indispettito l’eunuco il quale, catturando Chen, voleva dimostrare a Ceylon che non si poteva competere con i Ming senza pagarne le conseguenze.
Nel 1408, due anni dopo la prima visita, un’altra imponente flotta ricomparve all’orizzonte. Questa volta, però, le navi cinesi non gettarono l’ancora; continuarono la navigazione, superando Ceylon, e fecero rotta verso nord, in direzione dell’India. Forse Zheng temette di subire una nuova umiliazione, o forse fu l’imperatore a ordinargli di non fermarsi a Ceylon. Ad ogni modo l’isola fu ignorata sia all’andata, nell’inverno 1408, sia al ritorno, la primavera seguente. Il fatto che i Cinesi evitassero Ceylon sembrava dimostrare che Alagakkonara, con la sua politica di chiusura agli stranieri, aveva avuto la meglio.
Due anni dopo, nell’inverno 1410, una flotta del Grande Stato Ming comparve nuovamente all’orizzonte. I Cinesi avrebbero continuato la loro navigazione senza fermarsi a Ceylon, come era accaduto la seconda volta, nel 1408, oppure avrebbero gettato le ancore? Ebbene, in questo caso la flotta entrò nel kolamba, attraccò e fece sbarcare lo stesso ambasciatore che si era presentato quattro anni prima1. Zheng He chiese di nuovo al re di Ceylon di sottomettersi all’imperatore cinese, ma questa volta portò una sfilza di omaggi e doni sfarzosi per rendere l’offerta piú allettante. Alagakkonara si comportò come nel 1406 e rifiutò l’offerta, ma questa volta, evidentemente, i suoi modi furono piú bruschi di quattro anni prima. Ordinò agli ambasciatori di lasciare l’isola e di non far piú ritorno. Zheng non poté far altro che ritirarsi, ancora una volta, e proseguire la navigazione verso l’India. La questione era però lungi dall’essere chiusa. Oltraggiare la sua dignità significava recare affronto alla dignità dell’imperatore e suo padrone. Fu cosí che, tre mesi dopo, Zheng ritornò a Ceylon.
Questa volta, secondo la versione da lui riportata all’imperatore e trascritta nel diario di corte, Alagakkonara lo «attirò» nell’entroterra del paese. Nelle fonti cinesi, però, c’è un equivoco intorno al nome Alagakkonara: a Ceylon, difatti, erano in due a chiamarsi cosí. Il re, Vira Alagakkonara, era il Sesto Vijayabahu e risiedeva nella capitale Gampola, situata nell’entroterra, a circa 160 chilometri dalla costa. L’altro Alagakkonara, Nissanka Alagakkonara, era il viceré e comandante dell’esercito che aveva affrontato Zheng He nel kolamba. Zio da parte di madre del re, si era distinto fin dagli anni Settanta del XIV secolo riuscendo a respingere svariate offensive lanciate dagli stati tamil lungo il confine settentrionale. Forse Zheng aveva confuso fin dall’inizio il viceré con il re? Quando si era reso conto che esistevano due Alagakkonara, e che quello che lo interessava stava a Gampola?
Non sappiamo se l’eunuco fosse stato davvero ingannato o se ciò facesse piuttosto parte, fin dall’inizio, di un piano d’attacco da lui escogitato. Sta di fatto che Zheng He fece sbarcare a Ceylon un contingente di seimila uomini che penetrò nell’entroterra, in direzione di Gampola, per costringere il «vero» Alagakkonara a scendere a patti con i Ming2. Mentre l’esercito di Zheng si faceva strada verso la capitale, il viceré ne approfittò per assaltare le navi cinesi ancorate nel porto, in quel momento piú sguarnite in termini di difesa. In un primo momento mandò a bordo il figlio per chiedere ai Cinesi di consegnare l’oro e l’argento contenuti nelle stive delle navi. Immaginando che si sarebbero rifiutati di farlo, dislocò cinquantamila soldati per preparare l’attacco. Nello stesso tempo inviò dei tagliaboschi lungo il percorso che era stato imboccato dall’armata cinese per recarsi a Gampola: avrebbero dovuto tenersi a debita distanza dai nemici e tagliare dei grossi alberi in corrispondenza delle strettorie presenti sulla strada, sbarrando l’accesso e impedendo ai Cinesi di accorrere rapidamente nell’area del porto.
Quando Zheng seppe che la sua flotta era in pericolo, mandò indietro una parte del reggimento ordinando ai soldati di seguire un percorso alternativo: ciò vuol dire che poteva contare su collaboratori locali che gli trasmettevano le informazioni giuste. Immaginò (a ragione, difatti) che il viceré avrebbe dislocato gran parte delle sue truppe nell’area del porto per saccheggiare le navi, lasciando Gampola relativamente scoperta. Lui, invece, continuò il cammino verso Gampola con un seguito di tremila uomini. Quando fu notte ordinò ai suoi di non fiatare: bisognava assolutamente evitare di farsi scoprire dalle guardie della capitale. Poi, al segnale convenuto, ossia uno sparo – i tecnici militari cinesi avevano messo a punto da poco armi da fuoco portatili –, presero d’assalto il palazzo reale. Catturarono il re Vira Alagakkonara insieme ai membri della sua famiglia e ad alcuni aristocratici. Non appena Nissanka Alagakkonara seppe dell’attacco inviò un grosso contingente a Gampola per mettere in salvo il re. Gli uomini di Zheng resistettero a un assedio di sei giorni, barricati a Gampola, ma alla fine riuscirono a fuggire fuori dalle mura e si diressero verso il mare con il re e la corte. Da entrambe le parti ci furono parecchie vittime. Quando i Cinesi raggiunsero la flotta, obbligarono i reali ceylonensi a salire a bordo, issarono le ancore e salparono.
È difficile fornire una descrizione accurata di quel che avvenne in quei giorni, perché per ricostruire la vicenda disponiamo solo di due fonti cinesi: la versione della storia che Zheng He raccontò all’imperatore, inclusa nel diario di corte ufficiale, e il racconto di Fei Xin, un soldato ventiquattrenne che partecipò alla spedizione e scrisse un breve resoconto delle sue avventure. Fei concluse la succinta cronaca dei fatti affermando che quella dei Ming era stata una «grande vittoria».

1. Aspettando gli ambasciatori.

Ma cosa ci facevano nell’Oceano Indiano quegli ambasciatori dell’imperatore cinese con il loro seguito armato? Per rispondere a questa domanda dobbiamo innanzitutto tener conto del fatto che Zheng He non fu il primo a essere inviato dalla Cina per incontrare i sovrani dell’area. Tale pratica risale all’epoca di Kublai Khan, come dimostra il viaggio di Marco Polo. Nel XIV secolo, però, questa pratica diplomatica attraversava ormai una fase di declino. Il fondatore della dinastia successiva, Zhu Yuanzhang, che nel 1368 scacciò dalla Cina i discendenti di Kublai, si considerava l’autentico erede della visione dell’ordine mondiale del Gran Khan vissuto nel secolo precedente, da lui definito «autentico uomo della steppa». Zhu non aveva la minima intenzione di rinunciare al ruolo di Gran Khan, e se l’impero Yuan era stato un Grande Stato, quello Ming non poteva essere da meno. Attribuendosi il titolo ufficiale di «Imperatore Hongwu» («Onda Marziale»), egli non fece altro che riprendere le cose lí dove i Chinggisidi le avevano lasciate. Ciò voleva dire rivolgersi verso il mare.
Per convalidare il passaggio di consegne dalla casata di Kublai alla sua, il nuovo imperatore Hongwu in teoria aveva bisogno di una conferma da parte del Cielo. In assenza di segnali divini, però, sarebbe stata la diplomazia internazionale a legittimarne l’autorità. Ricevendo delle delegazioni straniere che confermavano la sua supremazia e gli pagavano dei tributi, l’imperatore avrebbe dimostrato che il mondo intero riconosceva la sua legittimità, ottenendo altresí il favore del popolo. Seguendo l’esempio di Kublai, dunque, Hongwu si rivolse ai vari sovrani dell’Asia marittima affinché riconoscessero la sua egemonia mondiale3.
Nel 1368, primo anno del suo mandato, non vide giungere il benché minimo ambasciatore straniero. La dinastia si era appena insediata e probabilmente i sovrani degli stati piú piccoli pensarono che fosse piú prudente aspettare e vedere cosa sarebbe successo. All’inizio dell’anno seguente, però, Hongwu perse la pazienza. Un primo proclama fu dunque inviato al re del Dai Viet (il Vietnam settentrionale), al quale l’imperatore comunicò che si aspettava di essere riconosciuto.
Di recente nella Capitale Yuan sono stati ristabiliti l’ordine e la pace. Tutto ciò che si trova all’interno dei nostri confini è stato infine riunito, rendendo in tal modo legittima la nostra successione. D’ora in poi i nostri rapporti con tutti i paesi, vicini e lontani, saranno improntati alla sicurezza e alla libertà da ogni inquietudine, il che ci permetterà di godere di un’era di piena pacificazione4.
Hongwu, insomma, stava inaugurando una nuova era di concordia globale. Ma gli restava un dubbio:
L’unica cosa è che, probabilmente, voi stranieri ai quattro angoli del mondo, voi capi e comandanti di territori cosí remoti, non siete stati messi al corrente di ciò. Divulgo dunque il presente proclama affinché sappiate come stanno le cose.
In altre parole, Hongwu voleva dire: inviate immediatamente i vostri ambasciatori. Per assicurarsi che il messaggio venisse compreso ben al di là del Dai Viet, tre settimane dopo il Ministero dei Riti inviò ambasciatori in Giappone, nel Champa (il Vietnam meridionale), a Giava e a Coromandel, sulla costa indiana. Nelle due settimane successive ulteriori ambasciatori partirono poi alla volta del Giappone e dello Yunnan, che i Ming non avevano ancora conquistato, ma che a tempo debito avrebbero pagato il prezzo della loro insubordinazione in eunuchi; fu cosí, lo vedremo, che Zheng He finí in Cina.
Passò ancora del tempo, ma alla fine le tanto desiderate ambasciate cominciarono ad arrivare, anche se col contagocce. La prima fu quella di Ada Azhe, re del Champa, che inviò in dono a Hongwu tigri ed elefanti (i Ming finirono con l’avere un’intera stalla di elefanti, fatti sfilare durante le udienze di corte), seguita quasi subito da un’ambasciata del Dai Viet. Solo piú tardi si venne a sapere che il Dai Viet e il Champa erano in guerra e che ciascuna parte si contendeva con l’altra il sostegno della nuova dinastia: ciò dimostra che quella non era affatto un’«era di grande pace», come aveva promesso Hongwu nel suo proclama (in seguito l’imperatore Yongle si lanciò all’attacco del Dai Viet, nonostante il padre gli avesse fatto notare che era uno di quei quindici stati che i Ming non avrebbero mai dovuto invadere). Una terza ambasciata giunse nel 1369 dalla Corea. Ma fu tutto qui: nessun altro paese inviò i propri ambasciatori per celebrare il nuovo regime5.
Nella primavera successiva Hongwu inviò nuovamente degli ambasciatori in Giappone, a Coromandel e dai Chola, nell’India sud-orientale, segnalando negli appositi editti che la Corea, il Dai Viet e il Champa avevano già corrisposto i loro tributi, e che anche loro avrebbero dovuto farlo. Nel luglio 1370 convocò altresí Giava, gli Uiguri e altri stati continentali dell’Ovest, tutti invitati a adeguarsi alle sue richieste. «Il nostro unico auspicio è che i popoli della Cina e degli altri paesi siano felici, ciascuno al suo posto». Questa volta i suoi solleciti sortirono gli effetti sperati. Nel 1371 tutti questi stati avevano ormai reagito come richiesto e avevano inviato i loro tributi. Hongwu, però, continuava a occuparsi della questione in maniera ossessiva. Nel 1379 giunse una delegazione dal Champa con altri elefanti in dono. L’imperatore non era stato informato e venne a sapere del suo arrivo solo perché un eunuco aveva visto gli animali davanti all’entrata del palazzo. Hongwu andò su tutte le furie perché non era stato messo al corrente della visita, accusò gli alti vertici dell’esercito di aver ordito un complotto per deporlo e scatenò una purga in cui, secondo le sue stesse stime, morirono quindicimila soldati. Lungi dall’essere un semplice orpello diplomatico, i riconoscimenti provenienti dai sovrani stranieri dovevano essere intesi come un segno del volere del Cielo.

2. Il nipoticidio.

Prima della sua morte, avvenuta nel 1398, Hongwu designò alla successione uno dei nipoti. L’incoronazione dell’imperatore Jianwen non andò giú agli zii, tra i quali c’era anche uno dei figli di Hongwu, Zhu Di. Hongwu lo aveva distaccato a Pechino per gestire la difesa del confine settentrionale da eventuali attacchi del Grande Stato Yuan, sopravvissuto al di là della Grande Muraglia. Temendo che il nipote di Hongwu volesse consolidare il proprio potere confiscando i feudi degli zii, Zhu Di giocò di anticipo per evitare il peggio. Scatenò una violentissima insurrezione che si placò solo quattro anni dopo, quando il palazzo imperiale fu dato alle fiamme con all’interno l’imperatore Jianwen, che all’epoca aveva ventiquattro anni. A quel punto Zhu Di s’impadroní del trono e divenne l’imperatore Yongle, che significa «Gioia Perpetua». Alcune voci sostenevano che Jianwen era riuscito a mettersi in salvo dalle fiamme fuggendo via mare, e che in realtà lo scopo delle missioni marittime volute da Yongle era proprio quello di ritrovarlo. Ma il vero disegno dell’imperatore era un altro: consolidare la propria legittimità nello stile del padre e di Kublai Khan.
Il nipoticidio, perpetrato in spregio alle istruzioni lasciate dal padre per garantire la stabilità della successione, mise Yongle di fronte a un enorme deficit di legittimazione. La burocrazia era incredula e la popolazione sconcertata. Quando gli ufficiali che erano stati al servizio dell’imperatore Jianwen dissero la loro sul colpo di stato, Yongle li fece giustiziare: le vittime del repulisti furono decine di migliaia. I Mongoli accettavano la tanistria sanguinaria quando si ritrovavano di fronte al fatto compiuto, mentre i Cinesi erano molto meno propensi a tollerare tale pratica di successione. Per assicurarsi che la ricostruzione storica degli eventi che lo avevano portato al potere risultasse coerente, Yongle fece modificare le cronache di corte per far apparire che suo padre era vissuto fino al 1402, che suo nipote non era mai esistito e che la successione si era svolta in linea diretta dal padre Hongwu al figlio Yongle. Jianwen scomparve dai documenti ufficiali e solo duecento anni dopo gli storici riuscirono ad appurare il depistaggio, scoprendo l’esistenza del giovane imperatore. È dunque vero che in certi casi l’autocrazia cinese si prostrò agli imperatori mongoli che regnarono sulla Cina Yuan, ma è altrettanto vero che gli imperatori cinesi che governarono nel loro solco contribuirono a far degenerare le cose, e cosí facendo concorsero a svuotare di senso i tradizionali valori confuciani del dovere e della responsabilità, sostituendoli con un modello di asservimento cieco a chiunque fosse al potere.
Alla stregua d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Mappe
  4. Prefazione
  5. Introduzione. Diecimila paesi. Vancouver, 2019
  6. Il leopardo di Kublai Khan
  7. Parte prima. Il Grande Stato Yuan
  8. Parte seconda. Il Grande Stato Ming
  9. Parte terza. Il Grande Stato Qing
  10. Parte quarta. La Repubblica
  11. Note
  12. Indice analitico
  13. Apparati iconografici
  14. Il libro
  15. L’autore
  16. Dello stesso autore
  17. Copyright