Il sogno del celta
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Il sogno del celta

  1. 432 pagine
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Informazioni su questo libro

« Il sogno del celta è uno straordinario tassello di un'opera complessiva che l'Accademia di Svezia ha giustamente premiato».
The Times Literary Supplement La vita vera di Roger Casement è materia da romanzo. Irlandese, nato nel 1864, si trovò a indagare sugli orrori del colonialismo («L'orrore! L'orrore!» di Kurtz, in Cuore di tenebra di Conrad, che pure fu amico di Casement), seguendo la scia di sangue e denaro proveniente dall'affare planetario tra Otto e Novecento, la raccolta del lattice per la produzione del caucciù. Il Congo belga di Leopoldo II e la foresta amazzonica tra Perú, Colombia e Brasile sono i due scenari in cui Casement esercita il suo ruolo di osservatore, su incarico del governo inglese, e le condizioni d'incredibile sfruttamento in cui vede costrette le popolazioni indigene lo convincono della necessità di una lotta senza quartiere contro i massacri dei colonialisti, contro le prevaricazioni dell'uomo sull'uomo. L'esperienza di quello che fu il primo olocausto della storia moderna inciderà sulla coscienza del protagonista, contribuendo al radicalizzarsi della sua passione per la terra d'origine, l'Irlanda, nella lotta contro l'Inghilterra (di cui peraltro Casement fu console, e dove fu nominato Sir). Mentre tentava di trovare il sostegno della Germania in chiave anti-inglese per gli insorti irlandesi, sarà arrestato nel 1916 e, sfruttando le fantasticherie omosessuali scritte nei suoi Black Diaries - forse un falso dell'Intelligence, forse no -, sarà oggetto di una campagna di discredito che lo condurrà al patibolo, malgrado fossero dalla sua parte Arthur Conan-Doyle, William Butler Yeats e Gorge Bernard Shaw. Ha detto Mario Vargas Llosa: «Gli eroi non sono statue, non sono esseri perfetti». E il personaggio Casement è certo un eroe - per il contributo immenso dato alla lotta contro il colonialismo - ma è altresì uomo di contraddizioni, comprese la sua vena nazionalista e la sua incapacità di accettare e praticare la propria condizione sessuale. Per questo, e per la splendida scrittura dell'autore, Il sogno del celta schiude con forza le porte sull'oscurità dell'animo umano, e ci consente di sapere di più sul mondo, sulla storia, su di noi.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
Print ISBN
9788806208318

L’Amazzonia

VIII.

Quando, l’ultimo giorno dell’agosto del 1910, Roger Casement giunse a Iquitos dopo oltre sei settimane di un viaggio spossante che trasferí lui e i membri della Commissione dall’Inghilterra fino al cuore dell’Amazzonia peruviana, la vecchia infezione che gli irritava gli occhi era peggiorata, come pure gli attacchi di artrite e lo stato generale di salute. Però, fedele al suo carattere stoico («senechista», lo chiamava Herbert Ward), in nessun momento del viaggio lasciò intravvedere i suoi acciacchi e, piuttosto, si sforzava per sollevare gli animi dei compagni e aiutarli a resistere agli stenti che li affliggevano. Il colonnello R. H. Bertre, vittima della dissenteria, dovette tornarsene in Inghilterra dallo scalo di Madeira. Quello che resisteva meglio era Louis Barnes, esperto dell’agricoltura africana perché aveva vissuto in Mozambico. Il botanico Walter Folk, esperto del caucciú, pativa il caldo e soffriva di nevralgie. Seymour Bell temeva la disidratazione e aveva sempre in mano una bottiglia da cui beveva a piccoli sorsi. Henry Fielgald era stato in Amazzonia un anno prima, inviato dalla Compagnia di Julio C. Arana, e dava consigli su come difendersi dalle zanzare e dalle «cattive tentazioni» di Iquitos.
Queste abbondavano, per davvero. Sembrava incredibile che in una città cosí piccola e cosí poco attraente, un immenso quartiere pieno di fango con rustiche costruzioni di legno e lamiera, ricoperte di foglie di palma, e con diversi edifici costruiti usando materiali nobili e con tetti di zinco, e vaste dimore dalle facciate illuminate con azulejos importati dal Portogallo, proliferassero in tal modo i bar, le taverne, i postriboli e le case da gioco, e prostitute di tutte le razze e di tutti i colori si esibissero con tanta impudicizia sugli alti marciapiedi sin dalle prime ore del giorno. Il paesaggio era superbo. Iquitos si trovava sulle rive di un affluente del Rio delle Amazzoni, il fiume Nanay, circondata da una vegetazione esuberante, alberi altissimi, un fruscio continuo della vegetazione e da acque fluviali che cambiavano colore con gli spostamenti del sole. Però poche strade avevano i marciapiedi o l’asfalto, vi correvano ruscelli che trasportavano escrementi o mondezza, vi era un puzzo pestilenziale che all’imbrunire s’ispessiva fino alla nausea, mentre la musica dei bar, dei bordelli e dei luoghi di divertimento non smetteva mai per tutte le ventiquattr’ore del giorno. Mr Stirs, il console britannico, che li ricevette all’imbarcadero, disse che Roger sarebbe stato ospite a casa sua. La Compagnia aveva preparato una residenza per il resto della commissione. Quella stessa sera, il prefetto di Iquitos, il signor Rey Lama, avrebbe dato una cena in loro onore.
Era passato da poco mezzogiorno e Roger, facendo presente che anziché mangiare preferiva riposare, si ritirò in camera. Gli avevano preparato una stanza semplice, con quadri indigeni dai disegni geometrici appesi alle pareti e una piccola terrazza da cui s’intravvedeva un pezzo di fiume. Il rumore della strada lí era attutito. Si distese senza neppure togliersi la giacca né gli stivaletti e si addormentò all’istante. L’invase una sensazione di pace quale non aveva provato nel corso del mese e mezzo di viaggio.
Non sognò dei quattro anni di servizio consolare che aveva appena terminato in Brasile – a Santos, Pará e Rio de Janeiro – ma di quell’anno e mezzo che trascorse in Irlanda fra il 1904 e il 1905, dopo quei mesi di sovreccitazione e impegno demenziali, mentre il Governo britannico preparava la pubblicazione del suo Rapporto sul Congo e lo scandalo che avrebbero fatto di lui un eroe e un appestato, su cui sarebbero piovuti allo stesso tempo gli elogi della stampa liberale e delle organizzazioni umanitarie e le diatribe degli scribacchini di Leopoldo II. Per sfuggire a quella pubblicità, mentre il Foreign Office decideva la sua nuova destinazione – dopo il Rapporto era impensabile che «l’uomo piú odiato dall’Impero belga» potesse rimettere piede in Congo –, Roger Casement era partito per l’Irlanda, in cerca di anonimato. Non passò inavvertito, ma si liberò di quell’invadente curiosità che a Londra lo privava di una vita privata. Quei mesi avevano significato la riscoperta del suo paese, l’immersione in una Irlanda che conosceva soltanto attraverso conversazioni, fantasticherie e letture, molto diversa da quella in cui aveva vissuto da bambino con i genitori, o da adolescente con gli zii e altri parenti paterni, un’Irlanda che non era la coda e l’ombra dell’Impero britannico, che lottava per recuperare la propria lingua, le proprie tradizioni e le proprie usanze. «Roger caro, sei diventato un patriota irlandese», lo prendeva in giro in una lettera sua cugina Gee. «Sto recuperando il tempo perduto», le aveva risposto.
Durante quei mesi aveva fatto una lunga camminata per Donegal e Galway, misurando il polso alla geografia della sua patria schiava, osservando da innamorato l’austerità dei campi riarsi, la costa selvaggia, e parlando con i pescatori, esseri senza tempo, fatalisti, indomiti e con i contadini frugali e laconici. Aveva conosciuto molti irlandesi «dell’altro versante», cattolici e protestanti che, come Douglas Hyde, fondatore della National Literary Society, promuovevano la rinascita della cultura irlandese, desideravano restituire i nomi originali alle località e ai villaggi, far rivivere le antiche canzoni dell’Eire, le vecchie danze, i filati e i ricami tradizionali del tweed e del lino. Quando seppe della nomina al consolato di Lisbona, ritardò la partenza fino all’infinito, inventando pretesti di salute, per poter assistere al primo Feis na nGleann (Festival dei Glens), ad Antrim, al quale parteciparono quasi tremila persone. In quei giorni, Roger sentí che gli s’inumidivano gli occhi nel sentire le allegre melodie eseguite dagli zampognari e cantate in coro, oppure ascoltando – senza capire che cosa dicessero – i cantastorie che narravano in gaelico storie e leggende che affondavano le radici nella notte del medioevo. Perfino una partita di hurling, quello sport centenario, venne disputata in quel festival, in cui Roger conobbe politici e scrittori nazionalisti come Sir Horace Plunkett, Bulmer Hobson, Stephen Gwynn e tornò a riunirsi con quelle amiche che, come Alice Stopford Green, avevano fatto loro la lotta in favore della cultura irlandese: Ada MacNeill, Margaret Dobbs, Alice Milligan, Agnes O’Farrelly e Rose Maud Young.
Da allora destinava parte dei suoi risparmi e delle sue entrate alle associazioni e alle scuole dei fratelli Pearse, che insegnavano gaelico, e a riviste nazionaliste alle quali collaborava con pseudonimi. Quando, nel 1904, Arthur Griffith fondò il Sinn Fein, Roger Casement si mise in contatto con lui, si offrí per collaborare e si abbonò a tutte le loro pubblicazioni. Le idee di quel giornalista coincidevano con quelle di Bulmer Hobson, del quale Roger divenne amico. Bisognava creare, accanto alle istituzioni coloniali, una infrastruttura irlandese (scuole, imprese, banche, industrie) che a poco a poco sostituisse quella imposta dall’Inghilterra. In questo modo gli irlandesi avrebbero preso coscienza del loro destino. Bisognava boicottare i prodotti britannici, rifiutarsi di pagare le imposte, rimpiazzare gli sport inglesi come il cricket e il football con sport nazionali e anche la letteratura e il teatro. In questo modo, in maniera pacifica, l’Irlanda si sarebbe affrancata dalla soggezione coloniale.
Oltre a leggere molto sul passato dell’Irlanda, sotto la guida di Alice, Roger tentò di nuovo di studiare il gaelico e assunse una professoressa, ma progredí ben poco. Nel 1906, il nuovo ministro degli Esteri, Sir Edward Grey, del Partito Liberale, gli offrí di inviarlo come console a Santos, in Brasile. Roger accettò, sia pure senza allegria, perché il suo mecenatismo filoirlandese aveva esaurito il suo piccolo patrimonio, tirava avanti con dei prestiti e aveva bisogno di guadagnarsi da vivere.
Forse lo scarso entusiasmo con cui riprese la carriera diplomatica contribuí a fare di quei quattro anni in Brasile – 1906-1910 – un’esperienza frustrante. Non riuscí mai ad abituarsi a quel vasto paese, malgrado le bellezze naturali e i buoni amici che ebbe a Santos, a Pará e a Rio de Janeiro. Quel che piú lo depresse fu che, a differenza del Congo, dove, malgrado le difficoltà, aveva sempre avuto l’impressione di lavorare per qualcosa di trascendente, che oltrepassava il limite dell’incarico consolare, a Santos la sua attività principale aveva a che fare con i marinai britannici ubriachi, che si cacciavano nei pasticci e che doveva tirar fuori di galera, pagare le loro multe e rimandare in Inghilterra. A Pará sentí parlare per la prima volta di violenze nelle regioni del caucciú. Ma il Ministero gli ordinò di concentrarsi nel controllo dell’attività portuale e mercantile. Il suo lavoro consisteva nel registrare il movimento delle navi e nel semplificare le pratiche degli inglesi che arrivavano lí con l’intenzione di comprare e vendere. Dove stette peggio fu a Rio de Janeiro, nel 1909. Il clima fece peggiorare tutti i suoi mali e gli procurò in piú alcune allergie che gli impedivano di dormire. Dovette decidersi ad andare a vivere a ottanta chilometri dalla capitale, a Petrópolis, posta su alture dove erano minori il caldo e l’umidità e le notti erano fresche. Ma i viaggi di andata e ritorno quotidiani in treno si trasformarono in un incubo.
Nel sogno ricordò con insistenza che, nel settembre 1906, prima di partire alla volta di Santos, aveva scritto un lungo poema epico, Il sogno del celta, sul passato mitico dell’Irlanda, e un opuscolo politico, insieme ad Alice Stopford Green e a Bulmer Hobson, Gli irlandesi e l’Esercito inglese, respingendo il fatto che gli irlandesi fossero reclutati per l’Esercito britannico.
Le punture delle zanzare lo ridestarono, strappandolo da quella gradevole siesta e spingendolo verso il crepuscolo amazzonico. Il cielo era diventato un arcobaleno. Si sentiva meglio: gli bruciava meno l’occhio e i dolori dell’artrite si erano attenuati. Lavarsi in casa di Mr Stirs risultò un’operazione complicata: il tubo della doccia usciva da un recipiente in cui un domestico rovesciava secchi d’acqua mentre Roger si insaponava e si sciacquava. L’acqua aveva una temperatura tiepida che gli fece venire in mente il Congo. Quando scese al primo piano, il console lo aspettava sulla porta, pronto a portarlo a casa del prefetto Rey Lama.
Dovettero camminare per alcuni isolati, accompagnati da un vento di terra che costringeva Roger a tenere gli occhi socchiusi. Nella semioscurità inciampavano nei sassi, nelle buche e nelle sporcizie della strada. Il rumore era aumentato. Ogni volta che incrociavano la porta di un bar la musica cresceva e si sentivano brindisi, liti e grida di ubriachi. Mr Stirs, ormai avanti con gli anni, vedovo e senza figli, si trovava da una dozzina di anni a Iquitos e sembrava un uomo senza illusioni e stanco.
– Qual è l’atteggiamento in città nei confronti di questa Commissione? – domandò Roger Casement.
– Francamente ostile – rispose il console, senza esitare. – Immagino che già lo sappia, mezza Iquitos vive grazie al signor Arana. O meglio, grazie alle imprese del signor Julio C. Arana. La gente sospetta che la Commissione venga con cattive intenzioni verso chi le dà lavoro e cibo.
– Possiamo aspettarci qualche aiuto dalle autorità?
– Semmai, tutti gli ostacoli del mondo, signor Casement. Le autorità di Iquitos a loro volta dipendono dal signor Arana. Né il prefetto, né i giudici, né i militari ricevono gli stipendi dal Governo da molti mesi. Senza il signor Arana morirebbero di fame. Consideri che Lima è piú distante da Iquitos che New York e Londra, a causa della mancanza di mezzi di trasporto. Sono due mesi di viaggio nel migliore dei casi.
– Sarà piú complicato di quanto avessi immaginato – commentò Roger.
– Lei e i signori della Commissione dovete essere molto prudenti – aggiunse il console, adesso sí esitando e abbassando la voce. – Non qui a Iquitos. Là, nel Putumayo. In quei luoghi fuori mano vi potrebbe accadere qualunque cosa. Quello è un mondo barbaro, senza legge né ordine. Né piú né meno che il Congo, immagino.
La Prefettura di Iquitos si trovava nella Plaza de Armas, un grande spiazzo sterrato senza alberi né fiori, dove, gli mostrò il console indicando una curiosa struttura di ferro che sembrava un meccano incompiuto, si stava costruendo una casa di Eiffel («Sí, lo stesso Eiffel della torre di Parigi»). Un cauchero facoltoso l’aveva comprata in Europa, l’aveva fatta arrivare smontata a Iquitos e adesso la stavano rimontando per farne il migliore club sociale della città.
La Prefettura occupava quasi mezzo isolato. Era una casona slabbrata, a un solo piano, senza grazie né forme, dalle stanze grandi, con inferriate alle finestre, che si divideva in due ali, una dedicata agli uffici e l’altra alla residenza del prefetto. Il signor Rey Lama, un uomo alto, dai capelli bianchi, con grandi baffi impomatati alle punte, portava stivali, pantaloni da cavallo, una camicia abbottonata al collo e una curiosa giacca con decorazioni ricamate. Parlava un po’ d’inglese e diede a Roger Casement un benvenuto eccessivamente cordiale, ampollosamente retorico. I membri della Commissione erano già tutti lí, stretti nei loro abiti da sera, sudati. Il prefetto presentò a Roger gli altri invitati: magistrati della Corte Suprema, il colonnello Arnáez, capo della Guarnigione, padre Urrutia, superiore degli agostiniani, il signor Pablo Zumaeta, direttore generale della Peruvian Amazon Company e altre quattro o cinque persone, commercianti, il capo della Dogana, il direttore de «El Oriental». Non c’era una sola donna nel gruppo. Sentí che stappavano dello champagne. Servirono loro dei bicchieri di un vino bianco spumeggiante che, sebbene caldo, gli parve di buona qualità, senza dubbio francese.
Avevano preparato la cena in un grande patio, illuminato con lampade a olio. Innumerevoli servitori indigeni, scalzi e con dei grembiuli, servivano stuzzichini e portavano vassoi di cibo. Era una serata tiepida e in cielo palpitavano alcune stelle. Roger si sorprese della facilità con cui capiva la lingua degli abitanti del Dipartimento di Loreto, uno spagnolo abbastanza sincopato e musicale in cui riconobbe espressioni brasiliane. Provò sollievo: avrebbe potuto capire molto di quello che avrebbe ascoltato nel viaggio e questo, pur avendo con sé un interprete, avrebbe facilitato la ricerca. Attorno a lui, a tavola, dove avevano appena servito un’untuosa zuppa di tartaruga che deglutí con difficoltà, si svolgevano diverse conversazioni nello stesso tempo, in inglese, in spagnolo, in portoghese, con interpreti che le interrompevano creando parentesi di silenzio. A un tratto, il prefetto, seduto di fronte a Roger e con gli occhi già accesi dai bicchieri di vino e di birra, batté le mani. Tutti tacquero. Fece un brindisi per i nuovi venuti. Augurò loro un felice soggiorno, una missione coronata dal successo e che potessero godere dell’ospitalità amazzonica. «Loretana e in particolare iquiteña», aggiunse.
Non appena si fu seduto, si rivolse a Roger con voce abbastanza alta quasi in modo da far cessare le diverse conversazioni e avviarne un’altra, con la partecipazione della ventina di presenti.
– Mi permette una domanda, stimato signor console? Qual è esattamente l’obiettivo del suo viaggio e di questa Commissione? Che cosa vengono a verificare qui, lorsignori? Non la prenda come un’impertinenza. Al contrario. Il mio desiderio, e quello di tutte le autorità, è di aiutarli. Ma dobbiamo sapere a quale scopo li manda la Corona britannica. Un grande onore per l’Amazzonia, certamente, del quale vorremmo mostrarci degni.
Roger Casement aveva capito quasi tutto quel che aveva detto Rey Lama, ma aspettò, paziente, che l’interprete traducesse le sue parole in inglese.
– Come senza dubbio sa, in Inghilterra, in Europa, vi sono state denunce circa atrocità che sarebbero state commesse contro gli indigeni – spiegò, con calma. – Torture, omicidi, accuse molto gravi. La principale compagnia cauchera della regione, quella del signor Julio C. Arana, la Peruvian Amazon Company, è, immagino ne sia al corrente, una compagnia inglese, registrata alla Borsa di Londra. Né il Governo né l’opinione pubblica tollererebbero in Gran Bretagna che una compagnia inglese violi cosí le leggi umane e divine. La ragione d’essere del nostro viaggio è indagare su che cosa vi sia di vero in quelle accuse. La Commissione è inviata dalla stessa Compagnia del signor Julio C. Arana. Io, dal Governo di Sua Maestà.
Un silenzio di gelo era caduto sul patio dopo che Roger Casement aveva aperto bocca. Il rumore della strada sembrava essere diminuito. Si avvertiva un’immobilità curiosa, come se tutti quei signori che, un momento prima, bevevano, mangiavano, conversavano, si muovevano e gesticolavano, fossero rimasti vittime di un’improvvisa paralisi. Roger aveva tutti gli occhi fissi su di sé. Un clima di diffidenza e disapprovazione aveva sostituito l’atmosfera cordiale.
– La Compagnia di Julio C. Arana è disposta a collaborare in difesa del proprio buon nome – disse, quasi gridando, il signor Pablo Zumaeta. – Non abbiamo nulla da nascondere. La nave con cui vanno al Putumayo è la migliore della nostra impresa. Lí avranno tutte le facilitazioni, in modo che possano verificare con i loro stessi occhi quanto infami siano quelle calunnie.
– Gliene siamo grati, signore – assentí Roger Casement.
E, in quello stesso momento, con un impeto inusuale in lui, decise di sottoporre i suoi anfitrioni a una prova, che, ne era certo, avrebbe dato luogo a reazioni istruttive per lui e per i membri della Commissione. Con la stessa voce naturale che avrebbe usato per parlare di tennis o della pioggia, domandò:
– A proposito, signori. Sapete se il giornalista Benjamín Saldaña Roca, spero di pronunciare correttamente il suo nome, si trova a Iquitos? Sarebbe possibile parlargli?
La domanda ebbe l’effetto di una bomba. I presenti si scambiavano sguardi di sorpresa e di fastidio. Un lungo silenzio seguí alle sue parole, come se nessuno osasse affrontare un tema cosí spinoso.
– Ma come! – esclamò alla fine il prefetto, esagerando teatralmente la sorpresa. – Fino a Londra è arrivato il nome di quel ricattatore?
– Proprio cosí, signore – annuí Roger Casement. – Le denunce del signor Saldaña Roca e quelle dell’ingegnere Walter Hardenburg hanno fatto scoppiare a Londra lo scandalo sulle caucherías del Putumayo. Nessuno ha risposto alla mia domanda: è a Iquitos il signor Saldaña Roca? Potrò vederlo?
Vi fu un altro lungo silenzio. Il disagio dei presenti era evidente. Alla fine parlò il su...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il Congo
  4. L’Amazzonia
  5. L’Irlanda
  6. Epilogo
  7. Ringraziamenti
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright