Il salto dell'acciuga
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Il salto dell'acciuga

  1. 80 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il salto dell'acciuga

Informazioni su questo libro

Con Il salto dell'acciuga, nel 1997, Nico Orengo usciva per la prima volta dai «suoi» territori dell'estremo Ponente ligure, dove aveva ambientato tutti i suoi romanzi, per spingersi verso il Piemonte seguendo una traccia antica e avventurosa: quella del commercio del sale e delle acciughe, un traffico che si perde oltre il Medioevo nella notte delle fiabe e dei miti. Orengo racconta, ricorda, intreccia notizie storiche e storie di paese, insegue mestieri perduti, odori e colori, accompagnandoci alla scoperta delle verità poetiche e umane che si nascondono nei viaggi millenari del sale e dell'acciuga. E insieme ai riti e ai canti che venivano fatti durante la preparazione della bagna caoda, ci dà del famoso piatto la «vera» ricetta.Usando il cibo, in particolare il sale e le acciughe, come filo conduttore e come sottofondo di tutto il testo, Orengo scrive un libro poetico e malinconico, coltissimo ed estremamente popolare, in cui personaggi presenti e passati si mescolano e si sovrappongono, in cui autobiografia e mito popolare vanno a braccetto ricostruendo lo spaccato di una civiltà meticcia il cui retaggio sopravvive soltanto, sbiadito, in minuscole borgate abbandonate di montagna o nei relitti di vecchie barche da pesca ormai buone solo per ornare spiagge senza piú pesci né pescatori. Orengo parla in primis di se stesso, ripesca nei propri ricordi mischiando passato e presente, seguendo tracce storiche e chiacchiere da bar, lasciandosi portare dal passo stanco degli ultimi pescatori ormai scomparsi o dai Saraceni che all'alba del Rinascimento riparano in montagna per sfuggire alle sconfitte militari subite sulle coste liguri e provenzali. Una storia di meticciato, di resilienza e di caparbietà, ma anche una storia che una volta in piú ci mostra con semplicità e linearità come confini e frontiere siano una cupa ossessione di chi detiene il potere e il denaro, mentre la storia di tutte le civiltà e di tutte le bellezze del mondo non può che risiedere nell'ibridazione e nella mescolanza.
dalla prefazione di Carlo Petrini

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
Print ISBN
9788806242138
eBook ISBN
9788858431184

Il salto dell’acciuga

In primavera attraversava cespugli di cisto, macchie di timo, fazzoletti di erba, veronica, ciuffi di valeriana rossa aggrappati ai muri, lance d’origano e di timo, onde di lavanda e di ginestrini. Mentre al riparo degli ulivi aglietti e iris blu rasentavano isolotti di borragine, acetoselle e piselli odorosi.
A giugno sotto gli ulivi c’è il giglio arancione di San Giovanni.
Dopo ulivi: querce, lecci, carpini, noccioli, castagne e sui prati primule, brughi, rose canine, crochi, timo, prugnoli e puiot di lavanda.
La seule intacte, et la plus ancienne chose du globe,
Tout ce qu’elle touche est ruine;
Tout ce qu’elle abandonne est nouveauté;
Celle, qui se ressaisit entre deux faire qu’elle se donne,
elle se donne et se retire amèrement.
PAUL VALÉRY
La putina s’affacciò al mare. Era primavera, di mattina. Guardò intorno, cosa teneva unita l’acqua: le rocce del Darsanún, delle Funtanete, dei Cianeti, dei Tre Brechi, della Dormigliusa, della Punta d’a Miruna e poi l’Isorotu. Si voltò per continuare il suo giro di perlustrazione ed ebbe paura. Davanti a lei non c’era che mare e mare e poi altro mare. Provò un brivido, pensò che tutta quell’acqua, prima o poi, le si sarebbe riversata sul capo.
La putina si lasciò scivolare verso il fondo e con energici colpi di coda cercò la riva, la pace di uno scoglio.
Rebissu, il Gigante, l’Ernesto erano tornati dalla pesca. A riva pulivano le reti dalle alghe e dai rimasugli di pesce rimasti fra le maglie. Buttavano le alghe fra i sassi e i brandelli in un barattolone di latta Cirio sospesa su un fuoco di pigne e legnetti di risacca. Sul fondo della pignatta Rebissu aveva gettato un po’ d’olio, teste d’aglio e ciuffi di finocchi. Poi aveva aggiunto acqua dolce e acqua di mare. Ogni tanto il Giga girava l’intruglio con un pezzo di canna. Piano, piano, sulla spiaggia di Begliamín cominciò a distendersi un odore forte, appetitoso.
Era aglio rosato, veniva dal Cap, dopo Monaco. Era migliore di quello di Marsiglia, piú leggero. Ma c’era chi lo preferiva, quello di Marsiglia, proprio perché piú forte, piú antico. Era già coltivato al tempo dei Fenici. Piaceva ai Romani, che se ne intendevano. I liguri preferivano quello di Cap d’Ail, aveva la pelle rossiccia come le rocce dei Balzi Rossi. Ne facevano lunghe trecce da appendere negli angoli freschi della cucina. Cosí poteva superare l’inverno e caricarsi dei profumi di capra, coniglio, agnello, passati per le pentole.
Il mare profumava di rosmarino e resina di pino. Se ne stava immobile, stretto nella piccola baia delle Uova, sotto le grandi caverne dei Balzi, da dove, di tanto in tanto, uscivano gabbiani e rondoni, in spola continua fra la terra e il mare, un punto mobile nell’acqua, un’isola di putine che si spostava continuamente, freneticamente, per fuggire la lancia acuminata di un becco che saettava, ritmicamente, giú dal cielo.
Ma per le isole di putine c’erano ben altri pericoli, anche lí dove stavano: bocche voraci di cernie, murene, polipi, saraghi, cefali. E poi: maglie finissime di reti, secchielli, lunghe calze controcorrente che le imbrigliavano e sollevavano, portandole in una luce viva, azzurra, crudele.
Nella pineta di Capo Mortola, a poche decine di metri dalla Via Romana, oltre il muro graffito di antiche navi romane, c’era ancora di quegli equipaggi il segno di grandi fuochi sul terreno, perimetri d’accampamento e cucine: pietre abbrustolite, carbonizzate, che reggevano paioli fumanti d’aglio, finocchio selvatico e polpa di pesce, una salsa per le legioni di Cesare, il garum o liquamen, dove intingere verdure. C’erano i segni delle pesanti anfore d’olio e di vino, quelle stesse che intatte e fracassate si trovavano in mare, all’altezza degli scogli della Nave, a non piú di cinque-sei metri di profondità.
Su quelle pietre, a fuoco basso, si appoggiavano le latte della Cirio dal fondo coperto di cucchiai d’olio, teste d’aglio e pomodori pestati e teste di rascassa, di triglia, di buga, e due cucchiai di macheto. Dopo mezz’ora di fuoco basso sul fondo della latta si rapprendeva un brodetto pastoso, nel quale si erano sciolte le lische del pesce trasformandosi in una invisibile trama di consistenza, un’architettura che teneva unito l’aglio, la polpa, l’olio e il pomodoro.
Del pomodoro si poteva anche fare a meno. Il sapore di macheto vinceva su quello dei pomodori. Tutt’al piú lo ingentiliva.
Finivano sempre le sigarette e i pacchetti di trinciato forte sul gozzo dell’Ernesto. Le notti erano lunghe, in mare. E diventavano piú lunghe quando si attaccavano pezzi di mattina, perché il pescato era insufficiente e si doveva fare alcuni bordi, battendo il remo, dietro i branchi di mormore e di orate.
Allora il Giga si metteva a rovistare da poppa a prua, sollevando i paglioli, spostando nasse, reti, buglioli, in cerca di scaglie, frammenti di pesce secco. Poi, con il suo prezioso bottino, si isolava sulla coperta di poppa e servendosi di una bottiglia iniziava l’operazione di sminuzzamento, di mortaio. Sbriciolava fino ad ottenere una polvere filacciosa che gli serviva a riempire tubetti di carta giallognola, spessa, da pesce. Sfregava un fiammifero sulla murata e accendeva i suoi «cannoni», sigari deformi, bitorzoluti. Un odore aspro s’allungava sul gozzo e sul mare, un colore violastro che prendeva consistenza, disegnando forma e sostanza d’acciuga.
«Le acciughe fanno il pallone | che sotto c’è l’alalunga | se non butti la rete: non te ne lasci una | alla riva sbarcherò | alla riva verrà la gente | questi pesci sorpresi: li venderò per niente…» canta Fabrizio De André.
– A anciue fan un balun, – mi dice De André, – a Genova e a Levante si usa cosí. Da ragazzo le vedevamo alla Foce. Chi le vedeva gridava: «A anciue fan un balun», noi allora uscivamo da casa, dai bar e ci buttavamo a mare con i salabri e i secchielli. Le usavamo anche da esca, passandogli la lenza tra branchie e bocca: collane per tonni e palamiti, e boniti. Come scintillavano, allora, le acciughe. Oggi le compro in barattoli, giú in Sardegna, a novemila lire il chilo. Da un po’ di tempo le lavano meglio: sono meno salate.
Il sale veniva dalla Provenza, dalla Sardegna e dalle Baleari. Quello di Ibiza era di color sanguigno, bianco quello corso di Bonifacio, bianchissimo quello di Portogallo, un po’ meno da Hyères, Aigues Mortes, Ventimiglia. I magazzini che raccoglievano, a Ponente, montagne di sale erano ad Albenga, Alassio, Porto Maurizio e Ventimiglia. Padroni del sale erano i genovesi, facevano pesare il loro monopolio dal Monte Argentario fino alle terre agliate di Marsiglia. Ci facevano su molti denari ed erano feroci con i contrabbandieri e i mercanti di frodo. A Rapallo c’era un Alberto che si fabbricava il sale e lo vendeva alla luce del sole. Ma di cognome faceva Doria. Tutti gli altri erano sottoposti a gabelle e a sorveglianza stretta. Nessuna nave poteva sbarcare sacchi di sale se non sotto la Lanterna. Pane, olio, vino, e sale. In quattro parole: la vita; quella era, per i liguri genovesi, nel pugno dello stato. Anche il Piemonte e la Lombardia aspettavano il sale da Genova.
L’imperatore del Sacro Romano Impero cosí aveva voluto e i genovesi, grati, cercarono di mantenere il privilegio anche quando i Savoia, spingendo sui confini, cercarono di introdurre controgabelle su quel sale dello stato genovese. Quando cercarono di lucrare sul lucrato sale erano gli ultimi anni del ’500.
Verso Ibiza, Bouc, Levalduc, Hyères correvano navette, coche, panfili, saette cariche di stoffe e tele e tornavano appesantite del sale. Erano legni di Cervo, Noli, Albenga, Porto Maurizio, Voltri, di Provenza. E naturalmente di Genova. Quando, nel 1805, la Liguria venne annessa all’Impero francese sulla Gazzetta di Genova apparve la «Legge regolamentaria della Banca di San Giorgio» che, dicendo: «Gli Uffizii del 1444, dei Revisori del Sale e di Dogana, esistenti altre volte sotto il nome di Magistrati, sono soppressi», dichiarava la morte del monopolio sul sale da parte di Genova, ottenuto prima del 1293. E mentre si dissolveva l’Officium Salis, andavano in pensione gli stapolieri, eletti dalle autorità liguri, sui percorsi: Genova, Savona, Loano, Garessio; Genova, Novi, Tortona, Voghera, Alessandria, Acqui, Casale, Vercelli; Savona, Cairo, Cortemilia, Alba. Gli stapolieri abbandonavano i grandi magazzini del sale e con le ossa asciutte andavano a godersi l’orto.
In quei pezzi di mattina dove il gozzo dell’Ernesto inseguiva branchi di bughe capitava d’arrivare davanti alla foce della Roja. Allora il Rebissu smetteva di battere il remo sulla murata e chiedeva il tempo di fumarsi una sigaretta e guardare in alto, verso le montagne delle Meraviglie, il Bego. Non era mai stato lassú, non era stato mai oltre Olivetta. Qualche parente l’aveva fatto, immigrati in Val Maira, in Val Varaita. A fare gli acciugai. A lui non piacevano le frontiere. Ma gli piacevano quelle montagne che l’inverno si mascheravano di neve. La frontiera l’attraversava esclusivamente in barca. A terra, a Ponte San Luigi, temeva di dover far parole con i finanzieri, sicuramente «terroni». E poi non ricordava dove fossero, se mai li avesse posseduti, le «carte», i documenti. Il Giga motivava il rifiuto delle frontiere, da parte del Rebissu, con una brutta storia. La sorella, a cui lui era molto affezionato, faceva contrabbando di sale e banane tra Mentone e Ventimiglia. Saliva sul treno indossando una grande gonna rossa a fiori bianchi, tenendo fra gli alti elastici delle calze sacchetti di sale e piccole banane d’Africa. A Ventimiglia, una sera, un finanziere di Caltanissetta l’aveva toccata fra le gambe, scoprendo il suo contrabbando. Trascinata in un magazzino della Dogana l’aveva costretta a spogliarsi e poi l’aveva presa, minacciandola: «O la galera o il silenzio». La sorella del Rebissu, Olga, aveva continuato, in silenzio, a fare contrabbando e a subire violenza, finché non perse la testa e una sera tagliò con un rasoio il belino al «terrone». La verità venne fuori al processo. Anche se, su quella verità, vennero incollate bugie: che alla Olga non dispiaceva e che la lama doveva essere vista come un segno di passionalità e di gelosia. Forse lui, il finanziere, era ormai sazio e i suoi occhi altrove.
Non c’erano piú tracce, in Ventimiglia, delle antiche saline. Forse i salinatori usavano, vicino alla spiaggia, vasche d’argilla per la condensazione e l’evaporazione dell’acqua, forse grandi paioli appesi a travi. Spariti i contenitori, dove la sabbia intrisa di sale veniva mescolata, resa salamoia e fatta lungamente bollire, come una zuppa di pesce, a fuoco basso e costante. L’Ernesto indica la zona delle Calandre e quelle di Marina San Giuseppe e del Nervia come luoghi probabili, perché le acque dei fiumi rendevano piú facili le operazioni sulle saline. C’erano saline a Barletta, Spalato, Zara, Venezia, Chioggia, a Trapani, Siracusa, Cagliari, Alghero, Grosseto, a Hyères, in Linguadoca, a Ibiza, a La Mata a Huelva a Setúbal, a La Rochelle, a Bristol. Il Mediterraneo era una salina, da Tripoli a Bergen. E per avere il sale migliore contavano vento, sole, acqua. E il lavoro durissimo dei salinatori, metà uomini di terra, metà uomini di mare.
Ernesto ripeteva quei nomi come grani di un rosario o nodi di una lunga rete da tremaglio. Navi anseatiche dal Baltico al Portogallo, quelle bretoni che cercano i porti dell’Europa occidentale.
Olga venne mandata da una zia a Olivetta, fra poche case, molti conigli e qualche ulivo. Nessuno dei suoi parenti si era ricordato che anche lí c’era un...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione
  4. Il salto dell’acciuga
  5. Il libro
  6. L’autore
  7. Dello stesso autore
  8. Copyright