Racconta Benvenuto da Imola nel suo commento alla Divina Commedia che san Francesco in punto di morte «al corpo suo non volle altra bara» che la nuda terra; e interrogato dai suoi frati dove voleva essere sepolto, risposte: «ad Carnarium». Il «carnaio» era il luogo fuori Assisi dove venivano gettati i corpi dei condannati. Là fu dunque sepolto il suo corpo: e proprio là – racconta ancora Benvenuto – sorse poi la chiesa grande e sontuosa diventata ben presto meta di pellegrinaggi1.
Da vivo coi lebbrosi, da morto coi condannati: erano quelli gli esclusi per definizione dalla città, rifiutati e guardati con orrore. Ma le cose cambiarono grazie anche al modello offerto da san Francesco. Verso la metà del Trecento la Misericordia Maggiore di Bergamo, una associazione di laici creata nel 1265 per iniziativa del domenicano Pinamonte, metteva in bilancio elemosine per aiutare i prigionieri per debiti o per seppellire chi in carcere moriva. Tra le sue carte si leggono mandati di spesa per le cappe di chi andava in processione recando una croce davanti ai condannati portati al patibolo2. Nell’arco di poco piú d’un secolo era avvenuto un mutamento profondo. Al canone evangelico delle opere di misericordia se ne era aggiunta una nuova, quella della fraternità con la categoria umana piú disprezzata: i condannati a morte. Una fraternità che si esplicava con la vicinanza accanto a loro nel momento dell’andata al patibolo e con la sepoltura dei loro corpi – due aspetti di una stessa opera, consistente nel riscattare quelle figure dall’esecrazione e dal rifiuto aprendo loro le porte dell’appartenenza alla comunità e trattando di conseguenza i loro corpi, non piú gettati nel carnaio insieme alle carogne degli animali ma sepolti come quelli degli altri cristiani. La cosa non riguardava solo Bergamo. Intorno a quella stessa data di metà Trecento si concentrano le origini vere e quelle presunte di molte confraternite laicali dedite a uno scopo analogo.
Vere o presunte, perché quando si affronta la storia delle confraternite laicali non è facile districarsi fra le nebbie delle pie tradizioni per ricercare il punto da cui si mosse il primo avvio dell’opera loro. In una cosa tutte le confraternite furono concordi, al di là delle diverse denominazioni e dei patriottismi di corpo: nella gara a fissare le loro origini in un episodio fondativo di remota datazione. Era la forma normale di pensiero in una cultura che dall’antichità ricavava la misura della nobiltà. Cosí le date proposte dalla tradizione delle confraternite tendono a risalire il piú lontano possibile. C’erano tradizioni orali, c’era spesso un processo evolutivo che da iniziative caritatevoli piú generiche e indefinite aveva portato solo col tempo a una specializzazione intorno ai luoghi e alle vittime della giustizia: le prigioni e i patiboli. Quando nel secolo XV si cominciò a tenere un conteggio di tipo annalistico delle esecuzioni gli elenchi si inoltrarono nel passato fino a toccare l’anno Mille. Ma già allora il presente funzionava come una lente di ingrandimento proiettando il prestigio raggiunto dall’istituzione in un momento fondativo solenne. Di fatto, chi si è dedicato a esplorare le prime tracce documentarie lasciate dall’opera di semplici devoti – statuti, elenchi di confratelli, lasciti pii, vite di santi – è approdato alle soglie della metà del Trecento.
Ma la domanda che qui ci interessa è: perché proprio allora si cominciò a guardare alla sorte dei condannati al patibolo come un problema speciale?
Bisogna fissare lo sguardo sull’epoca di crisi delle città italiane dominata dai conflitti delle parti e culminata nella grande moria della Peste nera del 1348. In questi anni si infittiscono i segni di un disagio sociale diffuso, di laceranti conflitti politici, ma anche di un arresto dello sviluppo economico generale: lo studio dei corpi ritrovati nelle sepolture del tempo ha mostrato segni di denutrizione e di carenze organiche ben prima che sulla popolazione si abbattesse il flagello della peste. Le donazioni per cause pie si ridussero drasticamente3. La predicazione e i movimenti religiosi dell’epoca riflettono le inquietudini e gli orizzonti cupi delle città italiane nell’epoca della «cattività babilonese» della Chiesa segnata dal trasferimento ad Avignone della sede papale. Nelle città italiane del tempo le prigioni si riempivano di debitori insolventi, l’ossessione della minaccia dei ladri e dei predoni incombeva sui traffici dei mercanti e sulla vita quotidiana. Tensioni fra la ricchezza delle chiese e del clero e la scandalosa presenza di poveri trovarono esito in ribellioni e contestazioni ereticali. Fu su questo sfondo che la predicazione degli ordini mendicanti propose il messaggio devoto dell’imitazione di Cristo come uomo sofferente e povero. Ma ci furono allora anche altre ragioni che portarono a esaltare la funzione dei rituali della giustizia: ragioni di potere. Chi pronunziava la condanna era un’autorità che agiva in nome di Dio. E proprio in quel secolo XIV, come abbiamo visto, si era aperta una battaglia senza quartiere fra il papato e il re di Francia su chi dovesse esercitare il potere sacrale del sovrano-sacerdote e incarnare l’immagine vivente della Giustizia. Nel secolo precedente i decreti del Concilio Lateranense IV di Innocenzo III avevano posto le basi della teocrazia papale e costruito un sistema in cui l’unica alternativa era quella tra l’obbedienza e la ribellione. Fu allora imposto l’obbligo del giuramento di obbedienza non solo ai membri del corpo ecclesiastico ma a tutti i funzionari e titolari di pubblici poteri. Colui che non obbediva era l’eretico, il colpevole del delitto di lesa maestà. Ma se l’autorità del papa era come la luce del sole che illuminava tutti gli altri corpi celesti, anche quella dei sovrani temporali ambiva allo stesso titolo. Mentre entrava in crisi l’autorità imperiale (il «sacrum imperium», come l’aveva definito il Barbarossa) erano le grandi monarchie europee a prenderne il posto. Portando a compimento la rivoluzione avviata nel secolo precedente Bonifacio VIII propose all’inizio del Trecento l’immagine della Chiesa come corpo mistico e quella del papa come rappresentante di Dio in terra. A questo Filippo IV detto il Bello ribatté attribuendo alla monarchia poteri sacrali e facendo della sua Francia la «patria santa», la «sposa mistica» del re4. Di conseguenza tutti i rituali relativi alla manifestazione del potere come attuazione della giustizia in terra ricevettero un’attenzione nuova e si rivestirono di un carattere sacro. Intorno alla giustizia, insieme all’opera dei giuristi che rimettevano in circolazione modelli dell’antica Roma, si concentrarono allora le risorse della religione dei semplici cristiani e di quella dei loro predicatori e profeti.
Fu allora che le misericordie sorte nelle città italiane cominciarono a occuparsi sempre piú da vicino dei problemi di chi finiva in carcere per debiti ma anche di chi dal carcere usciva per andare a morire sul patibolo. E fu soprattutto l’ondata dei movimenti pauperistici a portare in primo piano un popolo di laici animati dalla volontà di imitare il modello di un Cristo sofferente e povero e di cercarne la presenza nel mondo dei marginali e degli esclusi. La contestazione di una Chiesa ricca e potente e la volontà di leggere e interpretare personalmente il messaggio del Vangelo alimentarono tendenze ereticali. Ma intanto nascevano le nuove formazioni degli ordini mendicanti e dalla loro predicazione traevano stimolo le confraternite di laici devoti. La volontà di riformare la società con un ritorno alla pratica dei valori cristiani si incanalava in associazioni locali stimolate e collegate dalla rete dei nuovi ordini religiosi che ne curavano la direzione spirituale. Da lí nacque quello che rimase a lungo il tema dominante delle norme statutarie delle confraternite di laici: la pace, la solidarietà, la dedizione alla composizione dei conflitti partendo da un impegno personale nell’osservanza dei precetti cristiani e dalla scelta di speciali forme di mortificazione e di penitenza. Un ruolo speciale ebbero in questo le confraternite nate dal grande movimento penitenziale sorto nel 1260 dall’iniziativa di Ranieri Fasani, un laico nella città di Perugia: fu detto dei «disciplinati» perché, nudi o vestiti di sacco, si dedicavano in pubblico o nelle loro chiese al rito dell’autofustigazione. Nelle regole di queste associazioni la pace è un valore assoluto, da salvaguardare in ogni modo nei rapporti interni di quella che non a caso si definí «fraternita», ma anche da far trionfare all’esterno nella realtà cittadina. A questo mira la sorveglianza su se stessi, con la mortificazione dei sensi, la flagellazione del corpo, la frequenza dei sacramenti e in particolare della confessione. La microsocietà della confraternita deve obbedire a regole che tutelino la pace interna risolvendo i contrasti tra confratelli, correggendo chi sbaglia, espellendo gli incorreggibili. Ed è al fine di garantire anche agli altri concittadini la pace, quella candida figura che rappresenta il simbolo stesso del buon governo nell’affresco di Ambrogio Lorenzetti in Palazzo pubblico a Siena, che i confratelli si impegnano a pacificare i litiganti e a portare un aiuto fraterno a chi è povero, malato, incarcerato o condannato: l’esercizio attivo delle opere di misericordia è concepito come il mezzo per riportare pace e solidarietà nella società cittadina.
Di quella ispirazione originaria rimase a lungo l’eco anche nelle formulazioni degli statuti piú tardivi. «Se noi sapessemo quanto è la virtú de la pace e di quanta necessità la sia a noi…», invocano gli statuti della Compagnia di San Giovanni Battista della Morte di Modena: che propongono l’immagine di un universo dove «il padre celestiale ha ordinato li pianeti, il sole e la luna e le stelle e le altre cose belle che sono a noi visibile, che tute fusseno insieme abraciate e colligate cum ligame di pace»5. Quando si procedette alle riformanze degli statuti, lo si fece «per maggiore utilità dell’anime, et piú pace d’essa» (cioè della confraternita)6. La pratica delle opere di misericordia era nata dalla volontà di affrontare i problemi della vita urbana con la messa in pratica dell’insegnamento dei Vangeli: il povero, l’affamato, il malato, il carcerato dovevano essere considerati come figure di Cristo. Quello che si faceva per loro era come se fosse fatto a Cristo in persona.
Il carattere urbano di questi movimenti si avverte nell’esigenza di regolare con norme precise il rapporto coi morti. Fu cosí che nel catalogo evangelico delle opere di misericordia si aggiunse quella della sepoltura cristiana. Com’è stato osservato, l’allontanamento progressivo dalle forze naturali che si immaginavano attive nei luoghi extraurbani si tradusse in forme di emarginazione di gruppi sociali e nell’allentamento dei legami tra i vivi e i morti: le norme degli statuti cittadini dedicarono una crescente attenzione ai riti funebri mettendo limiti specialmente alle forme del compianto e alla presenza femminile7. Il Gesú dei Vangeli non aveva parlato del seppellire i morti e nemmeno del consolare i condannati. Ma fu proprio questo l’innesto originale della società medievale sul tronco delle opere di misericordia indicate dal testo evangelico. Ora, gli ultimi e piú spregiati fra tutti i morti erano proprio i giustiziati. Espulsi con violenza dalla città, fatti morire su di un patibolo che agli inizi era generalmente esterno alle mura, i loro corpi venivano abbandonati là, insieme ai lebbrosi e alle altre presenze minacciose di un mondo naturale non cristianizzato, mentre in città quelli dei defunti riposavano dentro le chiese o nei cimiteri dove si spargeva la terra benedetta riportata dalla Palestina sulle navi dei crociati – i camposanti.
Torniamo alla traccia che conduce a Bergamo e che da lí si diparte verso le altre città dell’Italia centrosettentrionale. È qui che incontriamo un predicatore popolare di grande efficacia.
Tale fu sicuramente il domenicano predicatore di penitenza Venturino de Apibus, piú noto col nome di Venturino da Bergamo. Entrato nell’ordine domenicano, fra Venturino divenne un predicatore di grande seguito grazie a un’oratoria visionaria che fustigava i vizi e invocava l’avvento di un nuovo ordine religioso e sociale dove non ci fosse piú posto per i delitti e dove fosse risolto una volta per tutte il problema della violenza. Nel contesto dei conflitti di un mondo urbano in rapida evoluzione sociale l’azione di fra Venturino fu caratterizzata dal grido di «penitenza, pace ...