Il paese delle meraviglie.
Quando ricorda ciò che mangiava a Pofi, il paese in provincia di Frosinone dove viveva da bambino, Giovanni racconta di rare occasioni in cui c’era la pasta bianca con fagioli e cotiche. L’alimentazione quotidiana era a base di pane, al massimo insalata e qualche patata. A Collalto, una frazione di Colle Val d’Elsa dove Giovanni viene ospitato per otto mesi, c’è invece un trionfo di cibo: la pastasciutta non manca mai ed è sempre con il sugo, seguita da salsiccia, spezzatino, oppure colombo a pezzettini. Di pane ce n’è in quantità, accompagnato da formaggio, soprattutto ricotta. E poi c’è la briciolata ossia il siero che rimane dal formaggio e che si mette sul pane. Per non parlare dell’esperienza indimenticabile di quando viene ammazzato il maiale e si mangia il salame. Da Pofi a Collalto «era dal giorno alla notte», anche per quanto riguarda gli abiti: nel paese di origine Giovanni porta calzoni corti, scarpe senza calze, una maglietta; a Collalto gli danno i suoi primi calzoni alla zuava di velluto, il giacchetto e soprattutto le scarpe. Gliele regala un calzolaio, è il suo modo di dare un contributo per i bambini accolti nel paese: «un calzolaio di Collalto, Bianciardi Persio, […] anche loro non è che navigavano nell’oro… erano un po’ in difficoltà anche loro…. Il primo paio di scarpe nuove, con le bollette [i chiodi] sotto, me le regalò questo signore». Mentre racconta, Giovanni s’illumina di un sorriso pieno di nostalgia bella e persino di una sorta di stupore retroattivo, ed esclama: «Ah! Come si stava bene!», oppure «Ah! Madonna!», e poi ride di piacere: «Una favola! Una favola a lieto fine!»1.
Giuliana De Francesco, che sarebbe diventata un pezzo dell’«aristocrazia del comunismo romano»2 e avrebbe scritto, poco prima di morire, un libro intenso e drammatico, Un quarto di donna3, è in stazione ad accogliere il treno che si ferma a Roma e che porta i bambini da Napoli a Modena, insieme ad altre donne e uomini dell’Udi, Anpi e Comitato assistenza postbellica. Racconta quell’esperienza in un articolo pubblicato sui diversi giornali locali delle federazioni comuniste. «Ciascuno di noi, in un’età piú o meno lontana, ha spinto la propria fantasia ad immaginare un qualsiasi “paese delle meraviglie”, ugualmente ricco di giochi e di luci, di piccole gioie inafferrabili e vaghe»4. Inizia cosí il resoconto di Giuliana, secondo la quale forse è stato proprio quello il pensiero dei bambini che sono partiti quella mattina alla ricerca di qualcosa che nelle loro città e paesi non hanno mai avuto. «A Napoli, – scrive Viviani, raccontando un viaggio successivo, – i bambini lo sapevano che venivano a passare un buon inverno, ne parlavano da giorni e giorni – io ci vado – pensava ciascuno, e già immaginava il paese delle meraviglie»5. Nei pensieri infantili è il paese della Cuccagna, il paese di Bengodi, esattamente come lo descrive Boccaccio nel Decameron:
Maso rispose che le piú si trovavano in Berlinzone, terra de’ baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce e avevavisi un’oca a denaio e un papero giunta; e eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giú, e chi piú ne pigliava piú se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciola d’acqua6.
È il luogo in cui si realizzano i sogni, è il regno dell’abbondanza, dell’impensato e dell’impensabile: «E la casa era tutta bella calda… […] Arrivare dentro lí in quella casa, piena di luce, tutto cosí… scherzi… e continuavo a dire che ero andata in paradiso… ero andata in paradiso», racconta Dina7.
Ai genitori quel mondo che viene loro prospettato risulta altrettanto straordinario, soprattutto se misurato con l’esperienza quotidiana di miseria e fame. Negli anni Sessanta, un immigrato di Monreale che parla con Goffredo Fofi della sua città, a un certo punto si domanda: «dicono che è bella, ma per me non è vero: può essere mai che è bello un paese dove si fa la fame?»8. Perché la fame costituisce la spina dorsale di uno scheletro a un tempo simbolico e concreto. Simbolico poiché attorno a sé aggruma con straordinaria forza comunicativa ed esemplificativa il senso di insoddisfazione, di precarietà e di incertezza che caratterizza una quotidianità in cui tali condizioni sono rimaste sostanzialmente immutate rispetto ai lunghi anni della guerra. «L’assenza di determinati cibi (carne, latte, uova, formaggio, pane di grano, vino) può essere vissuta, anche al di là del loro reale valore nutritivo, come dato d’inferiorità ed emarginazione»9. Mangiare o non mangiare è, infatti, un atto sí individuale ma anche sociale. Per molti, mangiare o non mangiare non è solo questione di nutrimento, è anche una dicotomia che riflette quanto e se si è riusciti ad avere accesso a un nuovo benessere e migliorare la propria condizione esistenziale e lo status sociale. Ma la fame è anche un fatto straordinariamente concreto. Avere fame significa convivere con il pensiero costante della ricerca del cibo, trascorrere lunghissime giornate nella speranza che qualcosa accada o che qualcuno intervenga o aiuti, osservare le trasformazioni di un corpo che si fa sempre piú emaciato, di un viso sempre piú scavato, di movimenti sempre piú stanchi e lenti. Inoltre, la fame è anche la piú evidente rappresentazione della sconfitta genitoriale: non riuscire a dare da mangiare ai propri figli ed essere costretti ad abbandonarli, se non addirittura dantescamente nutrirsene («Poscia, piú che ’l dolor poté ’l digiuno», a voler interpretare cosí la storia del conte Ugolino): qualunque sia il finale, è in ogni caso un esito drammatico e verrebbe da dire inevitabile della miseria piú nera. Erica, la protagonista di un racconto di Vittorini, «cominciò a capire che aveva i genitori poveri proprio come si diceva in certe fiabe. E cominciò ad osservare padre e madre con sospetto, cominciò a temere che diventassero cattivi. Dalle fiabe sapeva che i genitori poveri diventano cattivi, portano i figli nel bosco e ve li abbandonano». Vengono in mente le parole di Plutarco sui figli:
E se i poveri non ne allevano, ciò accade solo perché hanno paura che essi, tirati su peggio di quanto richieda un’esistenza decorosa, crescano servili, ignoranti e privi di ogni qualità. Credendo, infatti, che la povertà sia il male peggiore, non sopportano di trasferirla ai propri figli, come fosse una malattia penosa e grave10.
Nello stesso tempo, però, Erica «sognava uva, un’uva di un dolce colore, giallo appannato dal freddo, e non uva da mangiare ma da abitare. Si trattava di boschi biondi con uccelli invisibili che cantavano, e con globi di polpa dove si entrava e si diventava felici»11. Il cibo o la fame, insomma, sono rappresentazioni dell’esistenza che viviamo o che sogniamo.
Nel raccontare la loro esperienza dei Treni della felicità, molti bambini, piú o meno consapevolmente, indicano nell’incontro con il cibo la vera cesura tra il mondo antico e quello nuovo, tra la povertà e il paese delle meraviglie. Avviene già durante il viaggio, cadenzato, lo abbiamo visto, da tappe in cui panini, dolci e minestre sono il primo segno di accoglienza, una sorta di introduzione al benessere. Le donne che hanno visto le baracche, gli occhi affamati dei bambini e quelli dei genitori segnati da una speranza sempre piú fragile sanno che è necessario innanzitutto rispondere a un bisogno primario e indifferibile. È un modo per garantire un primo e necessario nutrimento, e allo stesso tempo è un tentativo di ottenere la fiducia di quell’infanzia che potrà anche rivelarsi talvolta sbruffona e insolente, ma è soprattutto spaventata e confusa. Il viaggio è un luogo di transizione, in cui lo stupore per le novità, l’incontro con un mondo sconosciuto, per non parlare del lungo tempo trascorso sul treno e della stanchezza che invade i bambini, non lasciano molto spazio a riflessioni sulla propria condizione e il proprio futuro. Non a caso, le impressioni piú forti i bambini le registrano quando arrivano nelle stazioni, nell’incontro con «nuovi» padri e madri, e soprattutto nell’ingresso nelle case, che poi vuol dire nelle famiglie e, conseguentemente, in un mondo davvero nuovo. A volte l’impressione è cosí forte da far dimenticare le preoccupazioni e la sofferenza provati fino a poco prima. Maria, figlia e sorella di militanti comunisti che la inviano al Nord come simbolo di una partecipazione che deve cominciare dalla base del partito, sale sul treno con la sorella Giulia. Arrivate a Ravenna vengono portate nella sezione del Pci e qui vengono divise. Nei giorni successivi, la sofferenza per la separazione si placherà grazie al fatto che le due bambine abiteranno vicine e potranno vedersi tutti i giorni, tuttavia è facile immaginare che il distacco abbia rappresentato per una sorella la perdita di un punto di riferimento, e per l’altra, la maggiore, un carico di senso di colpa per avere, per cosí dire, «abbandonato» la piú piccola, malgrado le raccomandazioni di rimanere sempre insieme che con ogni probabilità i genitori hanno ripetuto fino allo sfinimento. Poi però Maria entra in una casa che a lei appare bellissima, la tavola è imbandita e si sente «un odorino troppo buono». D’un tratto dimentica le lacrime della sorella. Il suo unico pensiero è mangiare e, malgrado la preoccupazione della signora che l’ha accolta, che pensa che tutto quel cibo le possa fare male, Maria continua a chiederne: «ne voglio ancora, ne voglio n’atu ppoco»12.
Un’altra Maria, cinque anni, anche lei di Napoli, non ricorda il nome del paese in cui l’hanno mandata, ha solo memoria di un luogo solitario, probabilmente una cascina: «C’avevano tutti gli attrezzi appesi e appena entrati c’erano i prosciutti, i salami, – ride, – io lí sono stata bene, sono rimasta molto affezionata a questo ricordo»13. Il fe...