Il colore della Repubblica
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Il colore della Repubblica

«Figli della guerra» e razzismo nell'Italia postfascista

Silvana Patriarca, Duccio Sacchi

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  1. 240 pagine
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Il colore della Repubblica

«Figli della guerra» e razzismo nell'Italia postfascista

Silvana Patriarca, Duccio Sacchi

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I «figli della guerra» sono i bambini nati da relazioni tra soldati non bianchi e donne italiane alla fine della seconda guerra mondiale. Varie istituzioni, ma anche la gente comune, esibirono fin da subito persistenti vedute e atteggiamenti razzisti nei confronti di questi bambini. I «mulattini», come venivano chiamati in quel periodo, sono l'esempio lampante di come l'Italia democratica si sia sempre percepita bianca, differenziandosi senza dichiararlo apertamente, da chi aveva la pelle di un altro colore. Silvana Patriarca, in questo libro importante, racconta la vicenda di questi bambini, sottolineando l'eredità di fascismo e colonialismo.

Ancora oggi è presente in Italia una concezione dell'italianità che non viene in genere discussa pubblicamente: l'idea che gli italiani siano europei e bianchi. Benché la popolazione sia il risultato di costanti mescolamenti etnici avvenuti nel corso dei secoli e che continuano tuttora, il popolo italiano è stato storicamente costruito come bianco, anche se di una bianchezza un po' meno bianca di quella che è considerata la norma europea. Per gettar luce su tale immagine di sé, questo libro ricostruisce quelli che furono, nella repubblica fondata dopo la caduta del fascismo, gli atteggiamenti prevalenti verso la «razza» e il colore della pelle. Questa ricostruzione pone al centro le esperienze e le rappresentazioni di quel gruppo di bambini nati nell'immediato dopoguerra dagli incontri tra soldati alleati non bianchi e donne italiane, quei bambini che gli afroamericani chiamavano «brown babies» e che in Italia erano comunemente indicati come «mulattini», un termine con una forte connotazione razziale di tipo biologico. La storia dei «figli della guerra» comincia nella scia immediata degli anni drammatici influenzati dal regime fascista e dal colonialismo. Lo studio delle esperienze dei «brown babies» permette di osservare in che misura furono razzializzati e come la percezione sociale delle loro origini e del loro colore condizionò le loro esistenze. Ciò è fondamentale per gettar luce sul «colore della Repubblica», un aspetto della storia dell'Italia repubblicana che richiede maggiore attenzione da parte degli storici.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858436653
Capitolo primo

«Indesiderabili»

Stranieri e donne nel dopoguerra
Gli incontri tra soldati alleati e donne italiane che condussero alla nascita dei «figli della guerra» si svolsero in un contesto spesso segnato da tensioni e da ostilità verso gli stranieri che avevano radici non nuove ma che le distruzioni della guerra e la penuria da essa provocata non potevano che accentuare. Anche se l’accoglienza positiva che salutò l’arrivo degli Alleati in Italia è nota, come pure la generosità di molti comuni cittadini nei confronti dei prigionieri di guerra alleati durante il conflitto1, alla fine del conflitto divenne parimenti evidente l’ambivalenza dei sentimenti che gli italiani nutrivano per l’«alleato nemico»2, cosí come la preoccupazione ispirata dalla presenza di un grande numero di stranieri portati o dislocati in Italia dalla guerra. Mentre centinaia di migliaia di italiani erano stati fatti prigionieri dai tedeschi e deportati fuori dal Paese, gli eserciti alleati avevano dispiegato sulla penisola piú di un milione di effettivi, tra cui figuravano truppe provenienti da tutto l’impero britannico, una divisione segregata di afroamericani, unità arrivate dal Brasile e dalla Polonia, e le truppe coloniali nordafricane appartenenti al contingente della Francia libera. Sulla Linea gotica i «Buffalo soldiers» neri, i nippoamericani e soldati delle colonie britanniche combatterono a fianco dei partigiani3. Le truppe che contribuirono alla liberazione dell’Italia dai nazisti e dai fascisti italiani furono davvero un esercito multietnico e globale.
A due anni dalla fine delle operazioni militari che avevano devastato gran parte del Paese, in alcune aree della penisola erano ancora stanziati vari contingenti di truppe alleate, e si notava una rilevante presenza di stranieri di origine diversa. I mezzi d’informazione conservatori registravano, e al tempo stesso fomentavano, le preoccupazioni che agitavano soprattutto l’opinione pubblica del ceto medio in merito a questa presenza. Il 30 aprile 1947 la torinese «Stampa sera» titolava: In ogni “fattaccio” a Roma c’è sotto uno straniero. Una piaga del dopoguerra4. L’autore del pezzo, Vittorio Gorresio, sosteneva che i colpevoli erano per lo piú disertori degli eserciti alleati. Nel timore di una condanna, o non sapendo che cosa aspettarsi se fossero rimpatriati, molti continuavano a stare in Italia e alcuni per sopravvivere si davano al crimine. Gorresio si lamentava inoltre della confusione legislativa creata dalla sovrapposizione tra leggi fasciste e postfasciste e si dichiarava preoccupato che la nuova costituzione in via di discussione («tra le piú […] liberali» esistenti) introducesse il diritto di asilo, permettendo cosí probabilmente a tutti quegli stranieri attualmente nel Paese di restarci per sempre.
La paura della criminalità rifletteva non solo il frequente verificarsi di reati piú o meno gravi – ben attestati negli archivi di polizia di quegli anni ed evidenziati dalla stampa e da una certa letteratura sociologica dell’epoca5 – ma anche il desiderio di un ritorno all’«ordine» dopo gli anni della guerra e dell’occupazione straniera. Se a preoccupare il ceto medio, e non solo, era la criminalità, a preoccuparlo forse ancor di piú erano quei comportamenti che sfidavano le convenzioni sociali e oltrepassavano confini stabiliti, soprattutto quando a oltrepassarli erano donne e stranieri. Erano in particolare le donne che avevano relazioni con questi ultimi a godere di pessima stampa.
La guerra aveva arrecato gravi disagi alla popolazione femminile, ma aveva offerto a essa anche nuove opportunità e libertà, sia pure soltanto temporanee. Mentre il peso delle famiglie gravava spesso sulle spalle delle donne assommandosi alla scarsità di viveri e ai razionamenti, occupazioni e ruoli tradizionalmente riservati agli uomini erano diventati piú accessibili. Soprattutto le giovani avevano assunto ruoli nuovi e inediti, ad esempio imbracciando le armi, o in quanto arruolate nella Repubblica sociale o per unirsi alle bande partigiane. Molte di loro, inoltre, fraternizzarono con le truppe occupanti non solo per ottenere sostegno materiale in un periodo di enormi difficoltà, ma seguendo le loro passioni e anche un desiderio di cambiare vita, che quei soldati sembravano poter soddisfare. Si trattava di un comportamento comunque rischioso: se per le donne che avevano «tradito» il Paese «andando a letto con il nemico» la pena era severa, non molto migliore era il trattamento riservato a quelle che ebbero relazioni con soldati alleati6, specialmente se questi soldati erano neri. Le donne simboleggiavano la nazione ed era su di loro che ricadeva l’onere di preservarne l’onore7.
Non sorprenderà che a deplorare ogni genere di fraternizzazione fossero in primo luogo ex fascisti e nazionalisti. Dopo la fine della guerra la loro voce si faceva ancora sentire con forza nella stampa di destra. Ma anche cittadini senza affiliazioni politiche, o che magari avevano perfino partecipato alla Resistenza, erano ansiosi di riprendere il controllo e ripristinare una situazione «normale», in cui fossero del tutto riaffermati i confini di genere, e con essi i privilegi dei maschi locali8. Ce ne offre un esempio significativo l’espulsione e l’esclusione, appena terminato il conflitto, di donne da posti di lavoro ben pagati, che gli uomini ritenevano di loro «naturale» appannaggio e di cui pretesero la restituzione. In alcuni casi alle donne partigiane non fu consentito di partecipare alle sfilate per la vittoria per timore che fossero oggetto di condanna da parte di un’opinione pubblica bigotta, ma anche per un tradizionalismo politicamente trasversale9. Dopo la ventata di relativa libertà del periodo bellico, insomma, le donne affrontarono una dura reazione sociale, a prescindere dai nuovi diritti riconosciuti loro dalla costituzione democratica.
Quasi immediatamente la presenza dei soldati afroamericani e il loro incontro con le donne italiane diventarono materia cinematografica per racconti morali e commenti sociali con diversi messaggi politici. Essi apparivano in film alquanto diversi da Paisà, il capolavoro neorealista di Roberto Rossellini (1946), ad alcuni film meno noti del «neorealismo nero», come Tombolo paradiso nero di Giorgio Ferroni (1947) e Senza pietà di Alberto Lattuada (1948), i quali presentavano storie di delinquenza, prostituzione e redenzione ambientate nella città di Livorno all’indomani della guerra10. Tutti questi film condividevano la stessa rappresentazione stereotipata del soldato nero: un uomo fisicamente imponente, spesso ubriaco, a volte sessualmente smodato, e quindi in ogni caso una minaccia potenziale, soprattutto per le donne. Ciò era visibile anche quando il regista era animato dalle migliori intenzioni, come nel caso del film di Lattuada, che cercava di trasmettere un messaggio di tolleranza razziale e un’immagine positiva del soldato afroamericano11.
Ma il testo narrativo che ha forse piú contribuito a influenzare il modo in cui molti italiani percepirono quel periodo fu La pelle di Curzio Malaparte (1949). Espressione di un profondo cinismo nei confronti dei «liberatori» americani (e di riflesso degli antifascisti), il romanzo piú famoso e popolare – oltre che controverso12 – dell’occupazione ruotava attorno alla retorica del degrado morale, che finiva per obliterare le complesse e diverse esperienze delle donne e degli uomini che vissero in quegli anni difficili. Pieno di situazioni grottesche e surreali, oltre che di rappresentazioni razziste dei soldati non bianchi nella Napoli occupata dagli alleati, il libro di Malaparte non è scritto in un registro naturalistico e tuttavia veniva citato allora (e viene citato ancora oggi) come se fornisse la chiave interpretativa dell’occupazione alleata. Ma le esperienze della gente comune e specialmente delle donne avevano ben poco a che vedere con le retoriche di quel periodo, sviluppandosi in un contesto non solo di tensioni e conflitti ma anche di nuovi contatti e possibilità.

1. Gli «indesiderabili». Stranieri ed ex sudditi coloniali.

Nell’Italia del dopoguerra il termine «straniero» si applicava a molte categorie di persone. In primo luogo comprendeva tutti i cittadini non italiani allora presenti nel Paese, il cui numero era cresciuto enormemente durante il periodo dell’occupazione – senza contare i tedeschi, alla fine della guerra era passato per la penisola piú di un milione di soldati alleati13 – e si mantenne elevato anche dopo la fine delle operazioni. Oltre ai soldati alleati e ai prigionieri di guerra tedeschi, molti dei quali concentrati nei principali punti di raccolta delle forze alleate in Italia (Bari, Napoli, Roma e Livorno) vi erano sfollati e rifugiati, tra i quali gli ebrei sopravvissuti all’Olocausto che cercavano di emigrare in Palestina. Nel linguaggio comune, tuttavia, «straniero» era usato anche per indicare tutti coloro che non appartenevano alla comunità locale, compresi quindi altri italiani. Questa diffidenza verso ogni genere di straniero era (e probabilmente resta) una caratteristica marcata dell’Italia di paese e di provincia, una caratteristica che nel corso del Ventennio la dittatura fascista aveva ulteriormente rafforzato con le sue politiche di controllo dei movimenti della popolazione e delle migrazioni interne. Non è un caso che proprio sotto il fascismo l’iscrizione degli stranieri presso i municipi diventasse sistematica e obbligatoria. A partire dal 1931, inoltre, per entrare nel Paese gli stranieri dovevano ottenere un visto di ingresso14. Le leggi razziali del 1938, che proibivano i matrimoni tra «ariani» e «non ariani», stabilirono anche che gli italiani che volevano sposare un cittadino straniero dovessero ottenere l’autorizzazione del ministero degli Interni e vietavano inoltre a tutti i dipendenti pubblici di sposare persone di nazionalità non italiana15.
Per la dittatura la presenza di stranieri che circolassero privi di controllo nella penisola costituiva sempre una potenziale pericolo. Questo atteggiamento, unito alla difficile situazione economica degli anni Trenta, fece diminuire il numero dei residenti permanenti di origine straniera: all’inizio della guerra l’Italia aveva sul proprio suolo il numero piú basso di stranieri mai registrato. Ma anche gli spostamenti degli stessi italiani all’interno del Paese potevano essere visti come una minaccia, e nella sua politica ruralista il regime scoraggiò, com’è noto, l’emigrazione dalle campagne alle città16.
Dopo la fine della guerra, e per tutti gli anni Cinquanta, gran parte della legislazione fascista rimase in vigore, comprese le leg...

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