Il sistema politico italiano
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Il sistema politico italiano

Origini, evoluzione e struttura

  1. 224 pagine
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Il sistema politico italiano

Origini, evoluzione e struttura

Informazioni su questo libro

Il processo di democratizzazione in Italia è avvenuto con gravi ritardi rispetto a quanto accaduto in altri paesi del mondo occidentale e ha dato luogo a un sistema fragile e squilibrato. Il sistema politico italiano si configura come un complesso istituzionale scarsamente differenziato dagli altri sottosistemi della società, in particolare da un sistema economico a sua volta incapace di strutturarsi secondo le leggi del capitalismo moderno. E ciò ha finito con l'alimentare quella forma di democrazia consociativa tipica del nostro paese. Dall'affermazione del trasformismo all'epoca dello Stato unitario e alla stasi istituzionale che contraddistingue l'attuale fase politica, il libro ricostruisce l'evoluzione di uno Stato senza progetto, ancora oggi incapace di liberarsi degli errori del passato.

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IV.
La Repubblica dei partiti

1. Il terzo sistema politico: rappresentanza a scapito della governabilità (1946-1992)

Rispetto al sistema politico dell’era liberale e a quello del fascismo, il sistema che si forma nei primi anni del secondo dopoguerra presenta importanti caratteri d’innovazione e di continuità. I primi riguardano ovviamente l’assetto istituzionale repubblicano e democratico, così come il sistema dei partiti. Dato il crollo dello Stato monarchico-fascista, la strutturazione del nuovo sistema politico vede protagonisti i partiti usciti dall’esperienza della clandestinità, della resistenza e della liberazione dal regime. Ma, se per un verso è vero che inizialmente il sistema dei partiti è, per così dire, un presupposto (consegnato dalla storia precedente) delle vicende repubblicane, per un altro verso è altrettanto vero che il modo in cui il sistema politico si è andato evolvendo sino quasi alla metà degli anni Novanta è in buona parte dipeso anche dalle proprietà dell’assetto costituzionale. Il contesto delle regole istituzionali, sullo sfondo delle tradizionali fratture sociali, ha «retroagito» sui partiti spingendoli ad assumere sia una precisa forma sistemica che una correlata dinamica. Una forma i cui mutamenti interni – spinti dall’imponente processo di sviluppo socio-economico degli anni Cinquanta-Sessanta, ma allo stesso tempo filtrati e accomodati dai partiti in modo inadeguato e contrassegnato anche da momenti politicamente drammatici come il terrorismo – non sono stati tali da consentire una sua naturale evoluzione verso modelli di democrazia simili a quelli di altri Stati europei, sia di tipo maggioritario sia di tipo consensuale.

1.1. Compromesso democratico e «consociativismo coperto»

L’assetto istituzionale uscito dall’Assemblea costituente del 1946 e associato a una legge elettorale proporzionale iniziò ben presto a generare effetti che, se per un verso erano contenuti in nuce nell’accordo sulla Costituzione, per altro erano invece imprevisti, in particolare sullo Stato, sul suo funzionamento e sul sistema dei partiti (Ghisalberti, 1974; Maranini, 1967; Galli, 1974; Linz, 1974). Si rea­lizza così un compromesso democratico che è il prodotto di quel particolarissimo clima politico venutosi a creare con il crollo del regime fascista nel contesto internazionale della «Guerra Fredda», e che vedeva, unico caso nello schieramento occidentale, un forte blocco socialcomunista nella condizione di poter salire al potere di governo. Il vincolo internazionale che collocava l’Italia nel campo dell’Occidente, democratico e capitalista, contro l’Oriente, comunista e statalista, era un dato permanente che sarebbe durato sino al 1989, con la caduta del Muro di Berlino e l’implosione del regime sovietico. E generava quella conventio ad excludendum che impediva al PCI di andare al governo finché sarebbe rimasto comunista, cosa che a sua volta strutturava il sistema dei partiti nel senso di impedire un’alternanza di governo. Resta tuttavia che tanto il PCI (che ben presto diventa di gran lunga il più forte partito di sinistra) quanto la DC erano due forze che, quasi del tutto estranee alla cultura politica liberale, avevano una concezione della democrazia fondata principalmente sull’idea di rappresentanza, con assai poca attenzione sull’altro polo su cui si regge ogni regime di questo tipo, quello della governabilità. Ciò risultò a nostro parere fatale perché l’impossibilità di pervenire – anche per le citate ragioni internazionali – a un assetto esplicitamente consociativo impedì che il sistema politico andasse nella direzione di un modello Westminster, di democrazia competitiva e dell’alternanza, contribuendo al tempo stesso alla sua degenerazione «partitocratica». Si affermò perciò una «doppiezza» che associava a uno scontro tutto ideologico una prassi di codecisione mascherata e spartitoria (al centro e in periferia), che col tempo prese la forma di una vera e propria cultura politico-istituzionale: il «consociativismo coperto».
Tale concezione della democrazia è chiaramente rinvenibile nella parte della Costituzione che disegna i poteri dello Stato, particolarmente per quanto riguarda la forma di governo parlamentare, il bicameralismo perfetto e la natura proporzionale pura della legge elettorale, che ne rappresentavano il logico corollario. Qui è sufficiente rammentarne i tratti essenziali in quanto ne discuteremo approfonditamente quando affronteremo la congiuntura critica che va dal 1946 al 1953 (anno in cui fu tentata l’introduzione di una legge elettorale maggioritaria). Va però ricordato che poco dopo la Costituente venne rotta l’unità del governo di tutte le forze che avevano reso possibile la caduta del regime fascista e che questa rottura strutturò il sistema dei partiti in tre blocchi contrapposti, che nella sostanza resterà invariato sino al 1992: quello centrista di governo (imperniato sulla DC e i piccoli partiti di tradizione liberal-repubblicana), quello di sinistra (PCI-PSI) e quello, sostanzialmente emarginato, di estrema destra (MSI, oltre a vari partiti monarchici e la lista dell’Uomo qualunque, poi venuti meno). Nella sostanza questo assetto rimase invariato, nonostante l’assorbimento prima dei socialdemocratici (nel 1947, dopo la scissione di Palazzo Barberini) e poi del PSI (dal 1958, fino alla nascita nel 1963 del «centro-sinistra organico») nell’area di governo. Semmai con il centro-sinistra il sistema si strutturava con più evidenza con un centro governativo inamovibile e due ali estreme, rendendo più esplicita la frattura politica del paese, ma chiarendo pure la netta chiusura del centro all’estrema destra, considerata fuori «dall’arco costituzionale», cioè dall’insieme dei partiti protagonisti della stesura della Costituzione, comunisti compresi. Una discriminante «democratica» che metteva in risalto la «diversità» dei comunisti italiani, ma non impediva al centro di continuare a presentarsi come una barriera al comunismo sulle questioni socio-economiche.
Tale «diversità» discendeva certo dal fatto che i comunisti (con la «svolta» di Salerno del 1944) avevano accettato la via democratica, ma anche dal fatto che avevano un largo consenso popolare, che negli anni sarebbe cresciuto a scapito dei socialisti, nel frattempo approdati a posizioni riformiste, avvicinandosi all’area di governo cui appunto aderirono definitivamente con i governi di centro-sinistra. Restava peraltro una loro «diversità» su un altro fronte, che risultava decisivo: quello del loro orientamento verso una società socialista che, insieme alla conventio ad excludendum per ragioni internazionali, bloccava il sistema dei partiti. La decisione finale dell’Assemblea costituente di preferire la forma di governo parlamentare a quella presidenziale e di introdurre un bicameralismo perfetto rispecchiava questa situazione ben al di là della situazione contingente. Non si trattava solamente di una soluzione che «garantiva» il blocco di centro da una eventuale presa del potere da parte dei comunisti e questi ultimi dall’affermazione di un governo autoritario o «antioperaio». Ma di una forma del compromesso democratico, e di un’idea di democrazia, che vedeva nel Parlamento lo «specchio» (tramite la legge proporzionale) della volontà popolare in esso rappresentata, assegnandogli la piena centralità nel processo di formazione del governo. Non mancarono allora voci che sottolineavano l’importanza per una democrazia sana della governabilità, e che puntavano vuoi all’introduzione di una forma di governo presidenziale vuoi a un rafforzamento dei poteri del Parlamento, anche se non furono ascoltate. Il bicameralismo perfetto non si limitava a rendere faticoso e lento il processo legislativo, creava maggioranze al Senato spesso risicate, per le differenze esistenti rispetto sia all’elettorato attivo e passivo, sia al metodo di attribuzione dei seggi1, contribuendo all’instabilità di governo.

1.2. Il primato della rappresentatività sulla governabilità

Questa idea che privilegiava la rappresentatività a scapito della governabilità era radicata nella sinistra, ma era molto presente anche nella DC, nella cultura politica cattolica, come risulterà più chiaro con il «compromesso storico» e i vari tentativi (specie con Moro) di una parte della DC di avvicinare all’area di governo il PCI nel corso degli anni Settanta e anche in seguito. Naturalmente il perno di questa concezione era il proporzionalismo, che produceva governi di coalizione senza alternanza, ma è altrettanto vero che, in questa situazione di sistema dei partiti bloccato, il bicameralismo perfetto consentiva una sorta di consociativismo nascosto e imperfetto proprio in Parlamento (imperfetto perché non si esercitava nell’assunzione di responsabilità di governo e in via programmatica)2. È un tale sistema istituzionale che consente al PCI di esercitare una sorta di potere di veto sulla maggioranza e quindi di contrattare o di impedire in Parlamento certe misure, facendosi anche forza della sua capacità di mobilitare nel paese importanti e diffusi movimenti di protesta. Il PCI, insomma, particolarmente a partire dai moti studenteschi e operai del ’68, è, senza apparire, con mezzo piede nel governo ma con l’altro mezzo fuori3.
In conclusione, il nostro giudizio è che la Costituzione repubblicana abbia creato sì una democrazia, ma una democrazia non come tale realmente partecipata in quanto priva di riferimenti comuni alla Nazione nelle due subculture politiche dominanti. Essa è inoltre non governante e non responsabilizzante (dei politici, ma pure dei cittadini). Democrazia nelle «garanzie» e negli equilibri istituzionali fra i poteri dello Stato, ma senza quella governabilità tipica delle democrazie sia consociative sia maggioritarie, e quel carattere quasi sacrale che, in molti paesi occidentali (come, per esempio in Francia e negli USA), viene attribuito, dal popolo e dalla politica, alle istituzioni repubblicane4. Un regime democratico principalmente incentrato sulla rappresentanza (del tutto proporzionale, in base alla legge elettorale), ma in un modo che trascurava la governabilità responsabile, con l’aggravante che la conventio ad excludendum verso le ali estreme produceva la mancanza sia dell’alternanza di governo tipica del modello Westminster (il «pluralismo polarizzato» genera un «centro» contraddittorio e premia le ali estreme che non possono andare al governo) sia della compartecipazione esplicita delle minoranze al governo tipica delle democrazie consociative. Sul piano sociale, ciò ha comportato la riproposizione delle classiche fratture socio-politiche (Stato/Chiesa, seppur in una versione inedita per la dominanza politica del partito cattolico; capitale/lavoro; centro/periferia e città/campagna declinata in termini territoriali di Nord/Sud). Questo ha prodotto nel tempo un particolare intreccio tra fratture, Stato e sistema dei partiti che l’idea di Repubblica dei partiti evidenzia solo in parte. Intreccio che è la vera «base materiale» del regime e che, a nostro parere, rende conto del perdurare della preminenza della rappresentanza sulla governabilità, che successivamente si riscontrerà anche nella cosiddetta Seconda Repubblica, pur in presenza di un sistema dei partiti tendenzialmente bipolare (almeno fino alle elezioni del 2013).
Questa forma può essere così sintetizzata. Il quadro politico-militare e di alleanze internazionali del dopoguerra era strutturato, come sappiamo, dalle contrapposizioni «Oriente/Occidente» e «socialismo di Stato/capitalismo». Questa seconda contrapposizione era per così dire la «sostanza» di quella geopolitica, ma allo stesso tempo era assai grossolana perché (come abbiamo ripetutamente sostenuto) la modernità non è in alcun modo riducibile al capitalismo. Sebbene in quel periodo storico questa riduzione semplificante fosse in auge e quindi politicamente assai rilevante, è importante tenere a mente questa osservazione su un piano più generale. La preminenza della rappresentatività ha infatti la sua radice culturale profonda nella dicotomia socialismo/capitalismo, per il modo in cui sia i cattolici che i comunisti italiani vennero elaborandola dal momento in cui si trovarono al centro della politica nazionale nel 1946, dovendo successivamente fare i conti con i profondi mutamenti sociali prodotti dallo sviluppo economico.
La nostra ipotesi è che il cattivo e confuso governo di tali mutamenti – indotto da un assetto istituzionale in assenza di alternanza –, accoppiato con il consociativismo occulto e imperfetto5 in Parlamento e nel sistema dei partiti, tanto al centro quanto in periferia, abbia agito in due direzioni apparentemente contraddittorie ma in realtà complementari. La prima direzione è stata nel senso di rafforzare la concezione della democrazia come rappresentanza e non come governabilità presente inizialmente nelle due subculture dominanti, poi generalizzatesi, e la cui base «materiale» era il consociativismo occulto con cui, nonostante le apparenti distinzioni tra governo e opposizione, si è data soddisfazione ai più diversi e contraddittori interessi organizzati presenti nel paese. La seconda direzione ha prodotto una cultura generalizzata che, sul piano manifesto, ha teso (e ancora oggi tende) fortemente allo scontro ideologico perché, nonostante i profondi cambiamenti sociali e di costume, ha privilegiato e privilegia ancora i riferimenti identitari in termini che rinviano, seppur in modo più sommesso, a qualcosa come i «fini ultimi» di un tempo. Non essendo stati sciolti certi pregiudizi di fondo delle due grandi subculture nei confronti della modernità, la cosa è comprensibile: poiché gli interessi vanno comunque soddisfatti (in nome, certo, della giustizia sociale) e però si pensa ancora in chiave di identità, ufficialmente nei discorsi pubblici tali distinzioni vanno comunque ribadite, sovente con attribuzioni morali più o meno esplicite. Si ripropone così lo schema di distinzioni apparentemente inconciliabili nel discorso politico a cui segue una pratica coperta, e per ciò stesso non programmatica e non controllata, di accordi che possono essere solo spartitori (come dimostra abbondantemente l’enorme debito pubblico). Uno schema proseguito nella Seconda Repubblica.

2. I fondamenti ideologici della partitocrazia e del consociativismo coperto

Per comprendere meglio questo aspetto decisivo della polit...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Uno Stato senza Nazione
  2. I. Quale cittadinanza?
  3. II. Un approccio evolutivo allo sviluppo politico
  4. III. La costruzione dello Stato-Nazione
  5. IV. La Repubblica dei partiti
  6. V. L’incompiuta «Seconda» Repubblica
  7. VI. Le sette cruciali congiunture critiche
  8. Conclusioni
  9. Riferimenti bibliografici