Il lanciatore di giavellotto
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Il lanciatore di giavellotto

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il lanciatore di giavellotto

Informazioni su questo libro

Norma Coramboni è una delle donne più belle e affascinanti della letteratura italiana del Novecento. Di lei sono tutti innamorati (tranne forse il marito): il suocero che sublima l'attrazione per la nuora con l'arte delle sue splendide ceramiche, il gerarca-amante e soprattutto il figlio Damìn, adolescente asfissiato da un grumo di desiderio e di dolore che i successi nello sport non riescono a sciogliere, anche perché il responsabile della sua squadra di atletica è proprio l'amante della madre. L'educazione erotica e sentimentale del ragazzo, con il suo finale drammatico e spiazzante, è messa in scena con la scrittura più visiva e cinematografica che Volponi abbia mai elaborato. Così un romanzo apparentemente tradizionale è in realtà un libro modernissimo, anticipatore del gusto contemporaneo. I due poli di maggior rilievo in questo romanzo sono il corpo e la storia: e ciò attenua lo spaesamento che può indurre nel lettore l'oscillazione di Volponi fra romanzi sperimentali e romanzi tradizionali. Il tema del corpo, infatti, in ogni testo volponiano resta sempre centrale e in costante tensione con i dati socioeconomici: il corpo di Albino Saluggia e i suoi «mali» nella fabbrica di Memoriale, il corpo-macchina del contadino Anteo Crocioni e le sue congetture utopiche in La macchina mondiale, il corpo schizoide di Gerolamo Aspri e le sue ansie di distruzione atomica in Corporale. Anche nel Lanciatore, il corpo e la storia entrano in dialogo e in conflitto: la disastrosa esperienza sentimentale di Damìn, il lavoro di artigiano ceramista del nonno, quello già precocemente votato ai consumi di massa del padre e la prima acculturazione mediatica del fascismo, interagiscono reciprocamente tra loro, come in un campo di forze. Dalla prefazione di Emanuele Zinato

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
Print ISBN
9788806218935
eBook ISBN
9788858417539

xv.

Marsiglia. La lettera materna. La tortora.
I baci. La paura

Il 4 novembre, giorno di festa e di vacanza, Damín ricevette proprio prima di andare all’adunata una cartolina di Occhialini, da Marsiglia. Il francobollo e il timbro di partenza erano francesi, chiari e ben messi. L’illustrazione era quella di un grande porto pieno di navi, con in fondo a destra, sul molo, le insegne, le vetrine e i tavoli di un caffè. Dietro c’era scritto: «un ricordo cordiale (poco imperiale) da Marsiglia e molti saluti e auguri di ogni bene, il calzolaio Amilcare Occhialini». Il timbro della cartolina riportava la data del 28 ottobre, scelta apposta come parte del messaggio.
La sera nell’enciclopedia Damín trovò che Marsiglia era un grande porto del Mediterraneo, una città romana, allargata anche nei tempi piú recenti dal genio e dal lavoro di italiani; porto preferito e centro commerciale dell’Africa e del Medio Oriente, privilegiato per gli scambi proibiti di armi droga sesso, frequentato da criminali clandestini di ogni tipo, usato per gli imbarchi verso la legione straniera e le colonie penali della Martinica e dei Caraibi, dominato da bande feroci in lotta perpetua tra loro, covo di negrieri, sovversivi e fuoriusciti, con bande di zingari e di malviventi insediati nelle lagune e nei canneti delle coste vicine, a sud e a sud-ovest.
Occhialini aveva dunque scelto bene la città adatta; dove era possibile compiere il male ogni giorno e ogni giorno attaccare la vita altrui con le parole come con il trincetto.
Il nonno vide la cartolina e la commentò benevolmente:
– Occhialini, Amilcare... ecco un brav’uomo coraggioso e retto... e anche istruito e sempre al servizio della libertà. In Francia... è finito in Francia; è giusto. Sono contento che ti scriva, che si ricordi di te e che ti mandi i suoi saluti. Peccato che tu non possa rispondergli perché lui non ci avrà certo messo il suo indirizzo. Ma conservala questa cartolina... per simpatia e per ricordo. Non si sa mai; può capitare che una volta...
Damín prese questa raccomandazione di traverso anche se gli veniva dalla persona che amava di piú al mondo: la profezia che vi era contenuta suonava ancora peggio dell’ingiusta, ingenua clemenza dei commenti; poteva essere piú cattiva della stessa cartolina di Occhialini. Cosa avrebbe davvero potuto fare lui per diventare adulto e una volta che tale fosse diventato, solo e lontano da Fossombrone? Tutto, meno che cercare di imitare e di ritrovare Occhialini. Lui avrebbe dovuto muoversi da solo e soltanto secondo le proprie scelte; lui sarebbe sempre stato in bilico sulla bocca nera del proprio vaso, a tirar su tempo e fiato, duri insieme, entrambi fatti d’argilla, da schiarire e da dividere.
Anche i poeti delle letture scolastiche non gli promettevano scampo; e nemmeno gli chiedevano di fare da solo. Anche il fascio sembrava organizzare e comandarlo a tutte le sue adunate proprio per non lasciarlo solo. Ma anche il fascio era fatto per i piú scaltri e leggeri, per gli ipocriti, per gli inventori di frottole, per gli sfacciati sempre sorridenti e pronti e sempre servizievoli. E lui non avrebbe nemmeno avuto davanti l’America, le grandi praterie, il continente di ghiaccio di Jack London. L’«Avventuroso» era quel che era... un giornalino disegnato, un trucco. Poteva davvero pensare di incontrare una volta Luana? Lui che non era riuscito a rivolgere la parola e a fermare per la strada la gelataia? Nemmeno la piú pallida sbiadita e povera delle ragazze di Fossombrone, la figlia dell’ortolano dei frati. Tuttavia lui avrebbe dovuto lasciare sua madre, la donna piú bella e infelice, piú colpevole e piú puttana del mondo. Nemmeno al cinema mai un figlio aveva dovuto sopportare tanto e arrivare dove era arrivato lui, cosí infinitamente lontano... eppure sempre sull’orlo del proprio orcio, freddo o rovente secondo le leggi del resto del mondo, tutte influenti sul suo sangue intero... troppo intero, troppo, troppo in tutto.
E lasciare anche Lavinia, Vitina, la piú tenera, la piú sbadata, la piú innocente e indifesa delle sorelle. Vitina aveva già le cosce e dei peli ricciuti nell’inguine e sotto le ascelle; ma era ancora bianca e liscia come una tortora sopra il fiume quando scende ad ali strette, o una tortora di gesso sopra il camino che si impolvera e si indora ogni giorno... e che non bisogna toccare, per la paura di farla cadere, in mille pezzi... e di lasciare ditate nella polvere, sul suo colore.
Marsiglia non era certo una città da tortore, né da vasai. Roma sarebbe stata certamente piú adatta, piena di monumenti antichi e di buchi scavati nel tufo. Ma anche Roma sembrava abitabile solo per la metà, tutta piena di fascisti e di nobiloni e rimbombante in modo impossibile dei discorsi del duce. Sarebbe stato difficile traversare la grande piazza asfaltata nella quale confluivano tutte le strade consolari da tutte le direzioni del mondo.
Poco piú tardi a letto, in cima alla scala, nella stanzetta sottotetto, stretta ma aperta a tutte le correnti sui travi e alle risonanze di infiniti colpi, riuscí a pensare che lui sarebbe andato via da Fossombrone ancora prima di dover partire militare; con un diploma, verso il nord dell’Europa, in Olanda, in Norvegia. Oppure in Grecia, a scavare monumenti, a scoprire le vecchie città, o acontistés, grande lanciatore di dardi e di sguardi, ancora piú sottili e veloci del fedele giavellotto, «o acontistés, triste giovane che accontenta se stesso...»
E cosí di seguito andò con il pensiero alla ricerca di immagini per provvedere alla serale masturbazione: cercò fra le olandesi e le norvegesi, ma poi fu toccato dalla visione del sesso nero delle donne del porto di Marsiglia, le protagoniste a braccia aperte di quella grandiosa malavita. Ma poi ripiegò sulle figure consuete delle sue scoperte, gioie infantili, colte, rubate dietro porte e recinti, tra le vie, lungo il fiume, in campagna tra le messi.
La mattina ripeté l’operazione provando ancora con Marsiglia e il suo porto, con le francesi e con le orientali, il loro piacere di fare all’amore con gli italiani; ma un’altra volta tornò su se stesso, in quel solito spazio, per l’occorrenza tutto concentrabile in un frutto della dimensione di una arancia, della sua scorza luminosa spaccata, rotta, grondante. Intanto spiava la voce del fiume che rivelava l’umore della nuova giornata: la disposizione amorosa di ogni cosa, dalle piante selvatiche agli orti, ai fiori di cappero dentro i muri, alle finestre, ai vetri delle case, ai fornelli, alle donne svestite, alla vestaglia della madre, quando ancora era intatta non toccata dalla peste di Marcacci: amorosa la mattina sulle fette del pane, sulla brocca del latte; quasi si smarriva nel rimpianto. Allora si trasferí piú avanti, d’un colpo risalí alla compagna Cerignola, alla madre del suo compagno che lui stesso guardava dal buco della serratura, alla professoressa di ginnastica supplente, sorpresa da tutta una classe mentre faceva l’amore con un ripetente dell’ultimo anno nella palestra sopra il materasso della lotta greco-romana o alle sorelle della stazione, tutte due fuggite con militari di passaggio, nemmeno aspiranti ufficiali e nemmeno sottufficiali, ma militari semplici, soldati meridionali, neri, della salmeria.
Pagato lo scotto, la giornata diventava come tutte le altre già passate, appena con qualche differenza sull’orlo dell’orcio... un film, un compito, un libro, un affiatamento piú lungo del solito con Vitina, la vicinanza della madre, lo spettacolo pietoso di tutte le sue ansie e di tutti i suoi scoperti raggiri dentro la rete della sua colpa.
La giornata poteva trascorrere secondo le strutture fisse di obblighi e incombenze, segnata dalle fasi alterne del dolore e della sopportazione. Per fortuna nell’inverno aumentarono i balli con Vitina e anche i giuochi comuni e gli scherzi, cui seguivano tante finte lotte sull’orlo del letto o dell’ottomana.
Poco prima di carnevale, la madre, presa da un’improvvisa impazienza mentre cuciva un costume per Lavinia abbandonò la sala e chiamò Damín nella propria stanza. Si sedette scomposta alla specchiera, slacciata, con il reggipetto fuori come una puttana... e con una coscia enorme e rotonda che sporgeva come un orcio, con lo stesso chiaro colore: poteva davvero sembrare proprio una mammana di soldati, di quelle che una volta, si diceva, alloggiavano dentro le arcate delle mura sul fiume, verso il cimitero, o quelle altre delle frazioni di campagna ostesse o conciatrici di pelli, con due o tre mariti e amanti violenti e ladri, maghe e curatrici d’ossa, tutte pronte a vendersi al primo uomo, pellegrino, squadra, esercito che passasse; con i soldati in fila alla porta, via uno sotto l’altro: capaci di accontentarne di seguito cinquanta, ottanta anche cento nel caso fosse stato possibile piantare il culo sul duro, fuori dal letto sfondato, sul pavimento o anche sulla pietra.
Ma sua madre non aveva un’ombra di coraggio per tutta la faccia, né un solo segno di sfrontatezza nemmeno in tutto quel viluppo del corpo, capelli, petto, bocca e piede. E non le sarebbe bastato poggiare il culo sul duro per trasformarsi... Una bellezza infelice, chiara e implacabile come un raggio all’alba, la prendeva e la dipanava come una matassa.
– Prendi, – gli disse lei, – prendi questa lettera e portala alla signora Giampaoli, bidella del circolo. Dille pure che è da parte mia... e dille anche di avere la cortesia di recapitarla in qualsiasi modo, anche palese, purché sicuro, a chi lei sa. Se non ti riconosce dille pure che è una lettera di tua madre, Norma Possanza, la Coramboni di Urbino, e ripetile ancora che è molto importante e anche urgente.
Fece una pausa, poi con la lettera sempre in mano aggiunse, con vigore meno disperato: – È una lettera mia per una questione mia... personale. Tu Damín cerca di capire.
Damín portò subito la lettera alla bidella e per quanto emozionato fosse, commosso dall’accento e dalla disfatta della madre, cercò di dare un’occhiata a quei locali dentro i quali si intravvedevano le persone piú importanti di Fossombrone e anche dei paesi vicini. Il circolo aveva un andito stretto che s’apriva su una sala densa di fumo, soffocante anche di luci e di velluti. Era un luogo molto chiuso generalmente sentito come una testa segreta, esterna alla città, ma influente in tutto e per tutta la vita della città medesima e di tutti i suoi cittadini. La bidella Giampaoli non si sorprese per niente, né per il messaggio né per i tremori di quel ragazzo, e ripose subito la lettera in un cassetto del tavolino davanti allo spogliatoio-guardaroba. Sopra lo stesso tavolino Damín vide che c’era perfino un apparecchio telefonico.
– Di’ a tua madre che farò tutto il possibile per recapitare questa lettera. Non so quando, ma so che di sicuro ci riuscirò. Non posso però garantire una risposta.
Lo guardò come se volesse dire qualcosa anche a lui; ma rinunciò e lo congedò con un sorriso tirato alla svelta, sopra una convinzione o un pensiero che non volle esprimere.
Al carnevale seguiva sempre un periodo fosco, pieno di doveri scolastici come di contrattempi e di scadenze finanziarie per il nonno, che lo rattristavano al punto di impedirgli di lavorare. Il giro delle banche e degli studi dei notai e degli avvocati era l’incombenza piú ingrata che potesse toccargli, ma dalla quale non poteva esimersi per il dovere di maestro artigiano e anche per la scarsa fiducia che aveva nel figlio amministratore.
Dorino era sempre piú pieno di progetti, di complicazioni e di fisime come di sbadataggini. Sapeva solo vendere o meglio far finta di vendere con tante chiacchiere che alla fine stancavano e allontanavano persino i compratori piú motivati, quelli con l’orcio rotto e le pignatte insufficienti. E a tutti lui parlava dell’alluminio: dei vantaggi della praticità, dell’igiene dell’alluminio.
Al solito giro di fatture e di cambiali si aggiungevano le pratiche onerose e fitte imposte dai nuovi istituti fascisti sull’artigianato, sul commercio, sulla manodopera, sulle malattie e sugli infortuni come sulle festività e sulle fiere; perfino sulla luce e sullo spazio delle botteghe, e anche sulla denuncia stagionale delle scorte, dei dati della produzione, delle vendite, del fatturato.
È mai stato fatturato un orcio o una pignatta a una vecchia contadina che paga metà in soldi e metà con piantine di geranio o di basilico? Quando non acquista addirittura a credito, con la promessa di due dozzine di uova a Pasqua e di un paio di piccioni per il ferragosto, quando già sapete che chissà manco se arriverà a sfangare l’inverno e che è del tutto priva di un pollaio e cosí anche di torre colombaia?
I mercati erano sempre piú poveri, e ogni genere sempre piú caro, anche per l’effetto delle sanzioni economiche imposte all’Italia dalla Società delle nazioni.
Dall’impero non arrivava nulla, nessuna ricchezza e nessuna richiesta di posti di lavoro. Qualche uomo, specie tra i casanti dei paesi piú piccoli, pur di andar via a fare qualcosa e per non pesare piú sulla famiglia e sulla propria coscienza di padre sventurato quanto incapace, si era arruolato volontario in un’altra guerra, in Spagna; guerra tra spagnoli, lontana e crudele, ma ben pagata.
A casa Possanza aumentarono i conflitti tra il maestro artigiano e il figlio, sopra ogni problema e verità: sulla condizione e conduzione della fornace come sulla scelta dei prodotti e dei mercati. Dorino voleva ipotecare tutto, comprare un gran camion con rimorchio, chiedere un’altra licenza e avviare un commercio piú vasto di stoviglie e attrezzi domestici, anche in alluminio, smalto, ferro, vetro, acciaio, gomma. «Tutto per la casa moderna», era il suo motto.
Damiano era fedele alla fornace e al suo lavoro, convinto della bellezza e della utilità dei suoi vasi e cocci e della loro superiorità materiale e storica su qualsiasi altro oggetto del genere. Il nipote era per il nonno, ancora piú convinto e attaccato alla tradizione proprio per i suoi trasporti e richiami passionali, e anche perché molto piú severo nei confronti dell’antagonista Dorino che per lui era il padre. Ma Dorino ipotecò la casa e l’orto, aggiunse altri debiti e comprò nuovo l’ultimo camion diesel della Fiat, con rimorchio Bartoletti: tutti e due carrozzati come vagoni circo, con sopra gli sportelli della cabina scritto in rosso «Ditta Possanza – Fossombrone – di Damiano e Dorino» e in formato ancora piú grosso «Tutto per la casa».
– Meno il giudizio, – aveva commentato Damiano Possanza, mentre altri in città avevano anche loro arricchito lo slogan in vari modi e sempre con piú sottile malignità, per esempio: «anche i portafortuna... le corna, da appendere dietro la porta di casa».
Ma Dorino del tutto inconsapevole quanto orgoglioso partí per il primo viaggio e si spinse per una fiera che non conosceva addirittura a Forlí. Tornò dopo due giorni che aveva venduto molto, ma che molto gli si era anche rotto dentro i carrozzoni, e durante il viaggio e per i modi frettolosi in cui aveva caricato e scaricato la roba. Si riteneva comunque sicuro di poter avviare una rete commerciale da Rimini a Senigallia, lungo la marina e, sopra, da Pergola a Urbino. In un secondo tempo si sarebbe potuti arrivare ad Arezzo, a Città di Castello, a Gubbio e lungo l’Adriatica fino a Forlí e ad Ancona. Pensava già ad un secondo camion affidato al figlio che presto sarebbe stato grande, e già studiava alla sera da solo, al ritorno dalle sue fiere stanco e piuttosto alticcio, come intrecciare rapporti con gli industriali della provincia piú affermati, dei mattoni e del legno, del carbon coke e del ferro, come avvicinare i Solazzi di Fano o i Mancini e i Dolci di Pesaro.
– Le mie brocche sono arrivate perfino a Parigi... e ben portate e considerate, altro che Ancona e Forlí. L’alluminio sarà presto dappertutto nei mercati come nei negozi, mentre i nostri vasi e cocci, li potremo fare e vendere soltanto noi, – diceva Damiano. Ma per tutta l’estate il figlio Dorino rimase col camion lungo la costa portandosi qua e là per le fiere e i mercati, seguendo anche le nuove mode dei villeggianti.
Damín stava meglio a casa senza padre, anche se la sua assenza era stata frequente nel corso degli ultimi anni; ma adesso poteva misurarla e calcolarla per settimane e mesi interi, comprendervi dentro progetti e sentimenti.
La madre rimaneva sola in casa ogni pomeriggio fino a sera quando gli altri tre tornavano dalla fornace. Anche Vitina andava dal nonno, seppure tra l’argilla e i vasi si mettesse a leggere e a scrivere. Un pomeriggio cominciò a ordinare e numerare per tipo, formato e serie le varie decorazioni usate dai Possanza, fino agli ultimi rametti del fratello. Poi compilò una specie di catalogo, riservando a ogni esemplare di coccio un foglio sul quale si riproponeva di disegnare e colorare il relativo ornamento. Il segno piú antico, una pampina usata nel 1731 per le brocche da osteria di cinque litri, lo elesse a stemma principale dei Possanza e decise di ricamarlo, con i suoi colori verde turchino e marrone, su una tovaglia da mettere sulla tavola della stanza da pranzo. Damín temette che fosse tolto il vecchio velluto del deserto e dell’oasi che davvero era sempre stato uno dei compagni piú ricchi della sua vita; anche cattivo, anche crudele, ma indispensabile. Damín lavorava di slancio con un pensiero nuovo che lo rincuorava: per proseguire gli studi avrebbe dovuto lasciare Fossombrone e trasferirsi a Urbino o a Fano, oppure abbonarsi alla ferrovia avanti indietro dalle cinque della mattina alle cinque della sera con il treno del suo vecchio amico Jenner. Gli capitò inoltre che una lavorante, una donna addetta a impastare, una anziana di circa quarant’anni, lo aveva invitato a casa sua.
Due giorni dopo il primo invito gli aveva ripetuto francamente che l’avrebbe atteso a braccia aperte, un bel giovane come lui, gentile e forzuto; che il marito era ormai stanco e spesso lontano e che lei invece si ritrovava ancora una voglia e un corpo da ragazza, insieme con i capricci e l’esperienza di una donna libera «quasi di una cittadina». Questa precisazione colpí Damín con un riferimento alla madre. La donna, di nome Lena, era ancora piuttosto bella, perfino graziosa nella sua spavalderia di lavorante. Alla sera andava a lavarsi al getto della pompa grande e scopriva un collo dorato sotto i ricci neri a matassa intorno alla testa; e cosce ancora piú tenere sopra il ginocchio cotto dal sole e dalla terra. Aveva avuto un figlio, anni prima, ma le era morto infante tra le braccia soffocato dalle convulsioni. – Miseria, – proclamava; – miseria assassina, – ripeteva spesso anche per ridere. – Boia dei padroni, – gridava quando doveva sottoporsi ad uno sforzo piú grosso.
– Non ce l’ho con voi Possanza, che lavorate insieme con noi. Ce l’ho con i padroni veri, che nemmeno passano vicino a noi. E ce l’ho con i loro servitori... carabinieri polizia giudici avvocati. Non sopporto i discorsi dell...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il lanciatore di giavellotto
  3. Prefazione di Emanuele Zinato
  4. Nota bibliografica
  5. Il lanciatore di giavellotto
  6. I. L’orto familiare. I grandi schermi. Il possesso della madre
  7. II. Il pugnale d’argento. La scena e la realtà. L’amore delle donne
  8. III. La bottega del maestro. Luana, la vergine regina. Quand’è che una donna è puttana?
  9. IV. La scuola. Vermutte e vermuth. Sto cazzo
  10. V. La pittura di un ergastolano. Manaccia. Il giavellotto. Il sospetto
  11. VI. Il biglietto d’amore. Il sangue. L’inverno. L’allattamento
  12. VII. Nessuno. Una furtiva lacrima. Il passaggio delle oche. Un fardello d’infamità
  13. VIII. Gli stivali. La retorica. Passa su tutta l’Italia. La tintura
  14. IX. I campionati regionali. Il premio collettivo
  15. X. Il fascio nel casino. La lingua e il pelo. L’uomo di Troia. Il topo di fogna
  16. XI. La trappola. O acontistés. Il vocabolario
  17. XII. La madre e il padre del centurione. Le mosche. Diario africano. Il gavettino pieno di... Il labaro tricolore. A Roma
  18. XIII. Il 1936. L’impero e i suoi tesori. La compagna di Tarzan. La gelataia
  19. XIV. Il conquistatore. La spada del Ras. Bozambo
  20. XV. Marsiglia. La lettera materna. La tortora. I baci. La paura
  21. XVI. L’istituto statale d’arte per l’illustrazione del libro. La città materna. La confessione. Le statue
  22. XVII. Il disegno. Caminito
  23. XVIII. Ritratto di Lena. Il ventre peloso
  24. XIX. La battaglia del grano. La festa rurale. Navigare necesse est
  25. XX. Sotto quello del maschio assassino
  26. XXI. Il 1940. Il monumento di maiolica. Il nome di Damín. Un pozzo all’orizzonte
  27. Il libro
  28. L’autore
  29. Dello stesso autore
  30. Copyright