Storia moderna e contemporanea. IV. Il Novecento
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Storia moderna e contemporanea. IV. Il Novecento

  1. 560 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Storia moderna e contemporanea. IV. Il Novecento

Informazioni su questo libro

Suicidio dell'Europa, la quale provoca lo sterminio di decine di milioni di uomini e perde il suo primato, risultando drasticamente ridimensionata. Tutta l'umanità viene sospinta nella sua epoca piú tragica, di follie totalitarie, di sviluppo organizzativo e tecnologico della distruzione di massa. Ma l'umanità acquisisce una capacità di dominio della natura inconcepibile per le generazioni precedenti; al prezzo di un'inesorabile diminuzione della propria varietà culturale. Il suicidio dell'Europa ha prodotto il paradossale trionfo dei suoi modelli economici e sociali, politici, culturali.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
Print ISBN
9788806155117
eBook ISBN
9788858418185
Argomento
Historia

Capitolo decimo

La caduta del comunismo

A metà degli anni Sessanta, i regimi comunisti si trovarono al loro punto piú alto di credibilità. Erano gli anni del «disgelo» chrusceviano, che proponeva una competizione pacifica con l’Occidente; l’epoca del primato spaziale; dell’espansione nel Terzo Mondo: a Cuba, nel Vietnam e in Medio Oriente. Nei vent’anni successivi, quei regimi si dimostrarono invece incapaci di avvicinarsi agli scopi che intendevano perseguire. Si parlava di «socialismo reale»: vale a dire di quello che c’era, molto lontano, sempre piú lontano dall’obiettivo del comunismo, cioè di una società che avrebbe dovuto essere priva di sfruttamento e di conflitti sociali.
Il comunismo si divise fra due modelli: sovietico e cinese, in conflitto fra di loro; perse prestigio internazionale, e non riuscí a trarre alcun vantaggio dalle posizioni di forza acquisite. Dimostrò di non sapersi evolvere in senso democratico e di non poter competere con l’Occidente nella qualità della vita offerta ai propri cittadini.
Subí anche nuovi e vigorosi attacchi. Diversi paesi islamici cominciarono a guardare ad un altro modello di rivoluzione, fondamentalista religiosa, agli antipodi di quello marxista. La Chiesa cattolica scelse per papa un vescovo polacco, politicamente e religiosamente cresciuto nell’opposizione al potere sovietico, che seppe contrapporre al comunismo un nuovo vigore del messaggio cristiano. Infine, in violento contrasto con lo statalismo comunista, il sistema capitalista si allontanò progressivamente dal modello socialdemocratico e tornò ad un liberismo estremamente aggressivo, che ne accentuò i difetti di ineguaglianza, ma anche i pregi di vitalità.
Progressivamente il comunismo si sgretolò, si svuotò dall’interno, mantenendo un aspetto imponente, che mascherava invece una crisi irreversibile, molto piú profonda di quanto gli osservatori, anche i piú ostili, fossero riusciti ad avvertire. La vera «tigre di carta» si dimostrava l’imperialismo sovietico, anziché quello americano, come lo avevano definito i cinesi.
Alla fine degli anni Ottanta l’Unione Sovietica si disgregò completamente. Esplose dentro se stessa, e per descrivere questa novità fu coniato il termine di «implosione». Era la prima volta nella storia che un cosí grande e potente impero si distruggeva da solo in tempo di pace. Il mondo, che era stato dominato per cinquant’anni dalle due superpotenze, perse improvvisamente la frontiera della guerra fredda, con conseguenze in alcuni casi drammatiche nelle aree periferiche e nei conflitti locali.
1. Senza libertà.
Dopo la seconda Guerra mondiale, le libertà democratiche si erano allargate alla maggioranza dei paesi occidentali e al Giappone, ma non a quelli comunisti, benché questi si autodefinissero «democrazie popolari» e anzi tenessero molto al loro modo di intendere la democrazia. Nei paesi capitalisti questa parola aveva perso il significato rivoluzionario ottocentesco di estensione egualitaria della cittadinanza, ed aveva del tutto inglobato il campo semantico della libertà. Aveva in definitiva un paio di significati correnti; non assolutamente coincidenti, ma complementari: uno privato e uno pubblico. Ogni cittadino – in teoria anche il piú povero – era tutelato dalla legge nell’espressione delle sue opinioni e scelte, e nella partecipazione politica. Inoltre i poteri dello Stato si controllavano a vicenda, sottomettendosi alla sovranità di tutto il popolo, espressa in libere elezioni.
Nei paesi comunisti invece la parola «democrazia» significava una cosa completamente diversa: governo dei lavoratori attraverso il partito, che pretendeva di interpretarne gli interessi; però senza alcun controllo. Quindi la democrazia dei paesi comunisti non comprendeva la libertà. Ovvero – per usare il vocabolario politico dell’Occidente – non era pluralista, ossia non prevedeva il confronto competitivo di differenti punti di vista, ognuno dei quali parziale; bensí totalitaria, in quanto riconduceva ogni individualità al funzionamento di un meccanismo politico guidato senza controlli da un partito unico.
Il pluralismo dei sistemi politici occidentali è stato garantito principalmente dallo svolgimento regolare di elezioni, la cui trasparenza era assicurata dalla competizione fra i vari partiti, in generale senza esclusioni. Cosí facendo, le «forze politiche» si riconoscevano a vicenda e, accettando le regole del gioco politico, gli conferivano quella legittimità che la democrazia trae soltanto dalla partecipazione popolare. La «liberal-democrazia» dell’Occidente è infatti un insieme di regole condivise, che garantiscono la supremazia della legge e l’equilibrio dei poteri, e inoltre assicurano i diritti di ognuno a partecipare, liberamente e in equa competizione con gli altri, alla determinazione degli equilibri politici.
Un grado abbastanza elevato di democrazia cosí intesa era stato assicurato dalle società capitaliste a circa un quinto dell’umanità: una quota tuttavia che non tendeva a crescere; semmai a calare, visto che nei paesi sottosviluppati, la cui popolazione era una quota sempre piú grande dell’umanità, non veniva promossa nessuna maturazione democratica delle istituzioni politiche. E in ogni caso si potevano denunciare pesanti interferenze dei centri di potere economicamente forti, tendenti a falsare la trasparenza della competizione. In effetti la legittimità democratica era in un certo senso un lusso, poiché era fondata sul crescente benessere, e quindi su un buon livello di sicurezza, di cui godeva ormai nei principali paesi capitalisti la maggioranza della popolazione.
Una parte consistente della quota privilegiata dell’umanità aveva acquisito progressivamente maggiori mezzi e tranquillità; poteva votare ed esprimersi politicamente, e di conseguenza era sempre piú convinta del sistema di cui godeva. È vero che alla periferia dei paesi occidentali – nel Mediterraneo come in America Latina – continuarono a sopravvivere o a riprodursi dittature che a vario titolo rievocavano il fascismo, alcune delle quali particolarmente sanguinarie. È altrettanto vero che nel Terzo Mondo il sistema democratico non faceva alcun significativo passo avanti, e che anzi nella maggioranza dei casi era contrastato proprio dalla pesante interferenza dei governi occidentali e dagli interessi delle grandi compagnie multinazionali. È vero anche che perfino nel cuore del mondo capitalista, e particolarmente negli USA, fenomeni di ghettizzazione e di oppressione sociale escludevano di fatto dal godimento dei vantaggi della partecipazione democratica una parte non indifferente della popolazione. Ma nel complesso il sistema politico occidentale, limitatamente ai paesi sviluppati, poteva vantarsi di un grado abbastanza elevato di rispetto della legalità democratica.
Il totalitarismo del blocco comunista aveva imboccato invece una strada opposta. Dopo la vittoria nella seconda Guerra mondiale il comunismo non era piú un sistema politico assediato «in un paese solo», ma anzi si era espanso ad un terzo dell’umanità e tendeva ad allargarsi ancora; e addirittura gli americani erano arrivati a temere a metà degli anni Sessanta che come pezzi di domino i paesi poveri cadessero uno dopo l’altro. Eppure il comunismo continuava a percepire se stesso come assediato dall’imperialismo americano e cosí giustificava il mantenimento di un regime poliziesco molto oppressivo.
Il meccanismo concentrazionario sovietico restava in piedi, anche se l’intensità delle «purghe» degli anni Trenta non era stata piú uguagliata. La destalinizzazione del ’56 non smantellò del tutto il sistema del gulag, benché comunque avesse liberato milioni di prigionieri; e non introdusse la libertà. Chruščëv, che aveva avviato un’apertura liberale al XX Congresso del PCUS, subito contraddetta dall’invasione dell’Ungheria e poco dopo dal Muro di Berlino, fu allontanato dal potere nel 1964 (tuttavia non fucilato). Capo dell’URSS diventò per quasi un ventennio Leonid Brežnev (1906-82), inizialmente affiancato da una direzione collegiale; e se qualche timida apertura era stata fatta nell’epoca chrusceviana, con Brežnev tornò la repressione di qualunque espressione di dissenso. Nessuna forma di opposizione venne permessa, nessuna libertà di pensiero, di ricerca, di espressione. Il partito controllava lo Stato; e all’interno del partito vigeva il principio leninista del «centralismo democratico», che di democratico non aveva nulla, perché le nomine a tutti gli organismi avvenivano sempre per cooptazione e sulla base dell’assoluta conformità al gruppo dirigente.
Su tutta la società vigilava la polizia politica. Meno frequentemente ormai gli oppositori venivano internati nei campi siberiani, aspramente denunciati in Occidente. Piú spesso erano dichiarati pazzi e ricoverati in manicomio, o anche soltanto allontanati dal loro contesto sociale. In generale il sistema repressivo progressivamente si ammorbidiva: i dissidenti piú importanti erano ora confinati in città di provincia, come avvenne per il fisico Andrej Sacharov, dove erano ridotti al minimo i loro contatti con l’esterno. Oppure venivano espulsi, privati della cittadinanza sovietica, ed erano accolti in Occidente, dove però la durezza della società capitalista, la supremazia assoluta del denaro spesso li disgustavano, come nel caso dello scrittore Aleksandr Solženicyn. Anche gli altri paesi socialisti, «satelliti» dell’URSS, avevano le loro polizie segrete, come la Stasi (Staats Sicherheit) in Germania Est, la Securitate in Romania; e i loro apparati, a volte anche piú efficienti nella repressione di quello moscovita, erano modellati e rigidamente controllati dall’Unione Sovietica. La Germania e la Romania erano i due paesi che se la passavano peggio in fatto di mancanza di libertà. Erano anche i due sconfitti nella seconda Guerra mondiale, quelli che erano stati fascisti e nemici dell’URSS.
Il meccanismo totalitario di coinvolgimento di ciascuno nel funzionamento di un ingranaggio propagandistico, mobilitatore e repressivo si era attenuato, e prevaleva ormai l’aspetto del puro e semplice controllo, come in qualunque regime autoritario. Del resto lo stesso era avvenuto nei nuovi paesi fascisti, piú deboli e piú feroci, come il Cile o l’Argentina, o anche in quelli sopravvissuti, come la Spagna e il Portogallo. La macchina coinvolgente del consenso popolare non era piú attivata né dai regimi comunisti europei né da quelli fascisti, come se il totalitarismo tradizionale – di Mussolini, Hitler e Stalin – avesse fatto il suo tempo e si tornasse ora alle piú tradizionali tecniche del controllo poliziesco, piú o meno violento. Non si chiedeva piú alla società di partecipare entusiasticamente. Le manifestazioni, le parate, le feste, lo sport di massa, la propaganda martellante: tutto questo si era attenuato; e rispetto agli anni terribili dello stalinismo la repressione si era ammorbidita.
In ogni caso la libertà non c’era. Neppure nelle sue forme piú semplici: quella di viaggiare, quella di scegliere il proprio destino: gli studi, il lavoro, la residenza. Nelle strutture di base dei partiti comunisti al potere, o delle altre organizzazioni di massa non c’era piú da decenni alcuna forma di discussione politica. I dissidenti erano solo piccole minoranze di intellettuali, che la polizia politica non temeva piú. Erano emarginati, espulsi dalle «unioni degli scrittori», ogni tanto arrestati, eventualmente internati o espulsi. Qualche contatto con i giornalisti occidentali era di solito possibile. Qualche manifesto politico di opposizione poteva circolare, essere firmato, recapitato alla stampa estera. I regimi comunisti europei non erano piú tragici come ai tempi di Stalin. La gente non scompariva piú senza lasciare traccia, ma nessuna vera evoluzione in senso liberale si poteva constatare. Anche se naturalmente i diversi paesi presentavano qualche differenza fra di loro: la Polonia e l’Ungheria erano meno repressive della Germania Est o della Romania.
Nei paesi arrivati piú di recente al comunismo, che in Occidente erano stati visti nel Sessantotto come alternative al comunismo burocratico dell’URSS, la Cina e Cuba, la libertà era ancora piú gravemente esclusa. Anzi in questi paesi rimanevano attive forme di culto della personalità del capo e di coinvolgimento propagandistico di stampo totalitario, ormai abbandonate in Europa. Perfino in Iugoslavia, che pure nel ’48 si era separata a caro prezzo dalla tutela sovietica, il controllo poliziesco rimaneva assolutamente intatto. A Belgrado si discuteva di un altro socialismo fondato sul federalismo produttivo. A Pechino si sperimentava l’egualitarismo e l’autogoverno delle «comuni» e all’Avana si parlava delle prospettive insurrezionali e libertarie del Terzo Mondo. Ma in tutte e tre le capitali, ancor piú che in URSS, le carceri si riempivano di dissidenti; la stampa, le università e i sindacati dovevano obbedire, il sistema del partito unico appariva intangibile e le libere elezioni erano escluse.
2. Senza benessere.
Una delle ragioni, anche se non la principale, per le quali la libertà sembrava non potesse conciliarsi col comunismo, era che nessuno dei paesi del blocco sovietico si impegnava a sviluppare e differenziare i consumi privati. Non si permetteva cioè quella libertà minimale, che consiste nell’acquistare quei beni di cui si desidera fruire. E neppure si favoriva la soddisfazione diffusa che si fonda sul desiderio dei beni che si possono acquistare.
La grande riuscita del capitalismo nel secondo dopoguerra è stata determinata dal relativo arretramento della povertà nei paesi sviluppati, e dall’aver saputo permettere ad una porzione crescente, e ben presto maggioritaria, della società di accedere ad un largo ventaglio di consumi privati. Il parallelo insuccesso dei regimi comunisti consisteva nel non aver instaurato quel circuito fra desiderio diffuso di benessere, sviluppo dei consumi privati e consenso, che ha permesso in Occidente ad un paio di generazioni di affidare alle successive un miscuglio equilibrato di speranza e soddisfazione.
L’economia comunista, pianificata e rigidamente controllata dallo Stato, si era dimostrata piuttosto efficiente per creare le grandi infrastrutture industriali, ma si rivelava incompatibile con la flessibilità e la molteplicità dei consumi. Il modello di società era fondato sulla fornitura gratuita o quasi dei servizi essenziali. La sanità pubblica aveva raggiunto livelli comparabili con quelli dell’Occidente, con minori punte di eccellenza, ma con un discreto grado di copertura del territorio. Il sistema scolastico era spesso superiore a quello occidentale per l’istruzione primaria, che riuscí a sconfiggere molto rapidamente l’analfabetismo, e per l’educazione tecnico-scientifica. Gli ingegneri e gli scienziati sovietici erano in molti campi all’avanguardia, e soprattutto il livello medio di diffusione della cultura era superiore a quello degli USA. Ma la cultura umanistico-letteraria era naturalmente compromessa dall’assenza di libertà. Gli asili, le mense, i trasporti in comune, la casa, il riscaldamento, l’elettricità erano garantiti a tutti e praticamente gratuiti. Di conseguenza i drammi della povertà e dell’esclusione sociale che caratterizzavano le società capitaliste erano assenti.
Ma in una società capace di risolvere con gli investimenti pubblici le esigenze di base di tutti, non si riusciva a fornire il benessere privato: ossia quell’elemento in piú, che assicura l’adesione psicologica di massa ad un sistema sociale, e quindi il consenso politico. Cronicamente deficitaria, devastata dalla collettivizzazione forzata e dalle conseguenti deportazioni, penalizzata da un sistema di prezzi che favoriva il trasferimento di risorse alla città e all’industria, l’agricoltura sovietica non riusciva a rifornire normalmente i mercati urbani. I negozi erano di solito desolantemente vuoti, quasi come in tempo di guerra. Si compravano a prezzi controllati pochi prodotti di scarsa qualità, mentre fioriva il mercato nero, alimentato dai contadini che venivano in città a vendere a caro prezzo la loro produzione migliore. Erano proverbiali le code che si formavano davanti ai negozi, quando arrivava un rifornimento di un genere alimentare atteso da settimane, esaurito in poche ore e che per altre settimane non si sarebbe potuto piú acquistare.
Altrettanto leggendari erano gli sprechi e le inefficienze di un sistema economico non stimolato né premiato dalla concorrenza. Le aziende producevano secondo quanto stabilito dal piano, e dal punto di vista quantitativo gli obiettivi di solito erano raggiunti, e anche superati, con una crescita che nei primi due decenni del dopoguerra si mantenne superiore a quella delle economie capitaliste. Tanto che all’inizio degli anni Sessanta Chruščëv poté annunziare il progetto di superare il reddito pro capite americano. Ma in seguito quell’obiettivo si allontanò sempre di piú, e i limiti strutturali della società sovietica emersero in tutta la loro gravità.
Il problema maggiore era nel controllo di qualità della produzione, poiché in ogni caso l’acquirente non aveva scelta fra differenti fornitori; e quindi mancava lo stimolo a soddisfare il cliente, e la produzione veniva acquistata comunque. Col tempo si aprí un divario qualitativo incolmabile con i prodotti occidentali; tanto piú grave quanto piú si passava a soddisfare bisogni piú individuali. Se l’acquirente è l’esercito che deve disporre di armi competitive, lo stimolo al controllo di qualità è superiore che se si forniscono televisori a privati che non possono comprare prodotti concorrenti.
Dopo le immani distruzioni belliche e a seguito dello spostamento in città di una parte non indifferente della popolazione, si era creata in URSS una gravissima carenza di alloggi. L’assegnazione di un appartamento a piú famiglie costrette a dividerselo era assai frequente. Intorno al 1960 un enorme sforzo fu fatto per assegnarne uno, per quanto piccolo, ad ogni famiglia, per mettere fine alle coabitazioni forzate; ma ci vollero molti anni per raggiungere l’obiettivo. Nella sola Mosca nel 1961 si costruirono 3 700 000 mq di abitazioni: sette volte di piú che nel 1950. Ma le case cosí prodotte erano di pessima qualità. Ovviamente neppure in Occidente tutti avevano un alloggio decente, ma parecchi potevano mettere da parte i soldi per costruire la casa che volevano. All’orizzonte di molti si profilava cosí un simbolo di benessere nella libertà. In URSS si riceveva l’alloggio quasi gratis, ma piccolo, pessimo, forse condiviso, senza margini di scelta: un’immagine di frustrazione, di deprivazione insieme di benessere e di libertà.
La contabilità delle singole imprese non era dominata dalla preoccupazione del profitto, come in Occidente. I prezzi erano fissati dagli organismi pianificatori, nazionali o regionali, e i bilanci erano al riparo dai rischi del mercato. La disoccupazione, gravissima piaga dell’Occidente capitalista, non esisteva, perché l’assorbimento di manodopera era anch’esso pianificato dallo Stato e il posto di lavoro era assolutamente garantito. Se poi la produttività del lavoro era bassa, cioè se un lavoratore produceva troppo poca ricchezza in rapporto al salario che riceveva, questo veniva compensato al livello complessivo dei risultati economici nazionali che concorreva, poco o molto, a determinare. Del resto non esisteva un mercato del lavoro. Non si contrattavano i salari, non si sceglievano le professionalità. Le carriere scolastiche, fortemente selettive, sfornavano tanti tecnici, per i vari settori, quanti il piano prevedeva di assorbirne. Si veniva dunque formati dalla scuola per un determinato mestiere, e si andava avanti superando esami difficili. Se non si passavano le selezioni, si imboccavano destini professionali di minor prestigio.
Entrando nell’età adulta, si era assunti con uno standard di vita, che non era suscettibile né di migliorare né di peggiorare. In Occidente il trinomio libertà-benessere-sicurezza aveva consolidato la democrazia, anche se il terzo elemento, la sicurezza, era una conquista alquanto relativa e precaria. Nei paesi comunisti non esisteva la libertà; il benessere privato era molto limitato, e sostituito dal soddisfacimento dei bisogni essenziali. Esisteva al loro posto la sicurezza, una buona garanzia di uguaglianza di trattamenti sulle necessità fondamentali della vita. La competizione fra capitalismo e comunismo è stata anche quella fra libertà e sicurezza. Il modello di soddisfazione e quindi di consenso, veniva agganciato in Occidente alla possibilità di scegliere; nel blocco sovietico invece alla certezza che lo Stato avrebbe provveduto ad ogni occorrenza. Col tempo il primo modello si è dimostrato piú attraente o piú vitale del...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Storia moderna e contemporanea. IV. Il Novecento
  3. I. La Grande Guerra
  4. II. Rivoluzioni nazionali-democratiche e rivoluzione comunista
  5. III. I fascismi
  6. IV. Una partita a tre: democrazie, nazifascismo e comunismo
  7. V. La seconda Guerra mondiale e il genocidio degli ebrei
  8. VI. Una partita a due: il comunismo e l’Occidente
  9. VII. Il Terzo Mondo, la decolonizzazione e l’antimperialismo
  10. VIII. La «prima repubblica» italiana
  11. IX. La prosperità dell’Occidente
  12. X. La caduta del comunismo
  13. Appendice
  14. Bibliografia
  15. Elenco dei nomi
  16. Il libro
  17. L’autore
  18. Dello stesso autore
  19. Copyright