Cevengur
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Cevengur

  1. 536 pagine
  2. Italian
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Informazioni su questo libro

Leggi un estratto *** Una città dimenticata da Dio nel cuore della steppa, abitata da uomini inselvatichiti dalla miseria. Ma anche in questo luogo è passata la rivoluzione e ha lasciato sogni e sentimenti sulla nuova società da costruire. Il romanzo di Platonov è la cronaca emozionante, ora tragica, ora comica, di questo momento magico, quando gli ultimi del mondo sembrano diventare i protagonisti della Storia. Gli esiti della rifondazione utopica sono paradossali, bislacchi, votati al disastro, che puntualmente arriverà, ma i personaggi restano nella memoria del lettore con tutto il loro carico di umanità. Uno dei più grandi capolavori della letteratura russa del Novecento, scritto nella seconda metà degli anni Venti ma pubblicato in Russia solo nel 1988, in una nuova edizione integrale accuratamente tradotta. *** Frutto di inquietudini moderniste, Cevengur di Andrej Platonov rientra a pieno titolo in quel filone della letteratura russa nel quale la fede incondizionata nelle teorie non godeva di largo credito. A quelle visioni del mondo preconfezionate, sostenute con forza dall 'intelligencija radicale, scrittori come Turgenev, Dostoevskij e Tolstoj opposero, con pervicacia al limite dell'ostinazione, autentici capolavori. I più grandi romanzi dell'Ottocento russo sono, come è stato detto, «romanzi di idee nella misura in cui sono romanzi che lottano contro la supremazia delle idee»: si cimentano con la materia della realtà, con le scelte quotidiane del singolo, con l'imprevedibilità della vita e preferiscono instillare dubbi piuttosto che diffondere credo. Se in Cevengur il tessuto polifonico, la costruzione argomentativa, l'esposizione delle teorie coeve con una lucidità che già da sola ne smaschera la disumanità, rinviano ai grandi romanzi di Dostoevskij, come non ascrivere a Tolstoj, il «profeta della carne», l'assillo tutto platonoviano per la caducità del corpo umano e per le passioni carnali? Dalla prefazione di Ornella Discacciati

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
Print ISBN
9788806218645
eBook ISBN
9788858418079

Čevengur

Le vecchie cittadine di provincia hanno margini fatiscenti. Lí vanno a vivere gli esseri umani, direttamente dalle campagne. E lí comparve un uomo: il volto attento ed esausto fino allo sconforto di chi sa riparare e attrezzare ogni cosa, ma non sa attrezzarsi nella vita. Nessun oggetto, dalla padella alla sveglia, era sfuggito nel corso della sua esistenza alle mani di quell’uomo. Non si rifiutava neppure di risolare scarpe, fondere pallini per la caccia al lupo e stampare false onorificenze da vendere alle fiere paesane di una volta. Per sé, invece, non si era mai costruito nulla – né una famiglia, né una casa. D’estate viveva all’addiaccio, sistemava gli strumenti dentro un sacco, e il sacco lo usava come guanciale, piú per proteggere gli strumenti che per stare comodo. Si riparava dai primi raggi del sole con foglie di bardana che si metteva sugli occhi fin dalla sera. D’inverno, invece, campava con il residuo dei guadagni estivi e, per pagare l’alloggio al custode della chiesa, batteva le ore notturne. Nulla lo interessava in modo particolare – né gli esseri umani né la natura – tranne i manufatti. Per questo trattava le persone e i campi con noncurante tenerezza, senza ledere i loro interessi. Di tanto in tanto, nelle sere invernali, costruiva cose inutili: torri di fil di ferro, navi di lamiera, dirigibili di carta incollata e cosí via, per puro piacere personale. Spesso, anzi, trascurava un lavoro occasionale, ad esempio la cerchiatura di un mastello, per costruire un orologio di legno, pensando che dovesse funzionare senza carica, grazie alla rotazione terrestre.
Al custode della chiesa quei lavoretti gratuiti non piacevano.
– Da vecchio andrai a mendicare, Zachar Palyč! Quel mastello è fermo lí da giorni e tu, chissà perché, batti la terra con un pezzo di legno!
Zachar Pavlovič taceva: la parola umana era per lui come il fruscio per gli abitanti del bosco. Non lo sentono. Il custode fumava e guardava tranquillo avanti a sé; a causa delle messe frequenti in Dio non credeva, ma sapeva per certo che da Zachar Pavlovič non sarebbe venuto nulla di buono: gli esseri umani sono al mondo da un pezzo e hanno già inventato tutto. Zachar Pavlovič, però, sosteneva il contrario: gli uomini sono ben lungi dall’aver inventato tutto, visto che la materia presente in natura continua a vivere non contaminata da mani umane.
Ogni quattro anni l’annata cattiva mandava metà villaggio in miniera e in città, e l’altra metà nei boschi. Fin dai tempi antichi si sa che anche negli anni di siccità erba, verdure e grano crescono rigogliosi nelle radure boschive. La metà del villaggio rimasta a casa si buttava su quei prati per proteggere le verzure dalla fulminea razzia di pellegrini famelici. Ma quella volta la siccità si ripeté per due anni di seguito. Il villaggio chiuse a chiave le proprie case e si incamminò biforcandosi sulla strada maestra: un gruppo si diresse a Kiev a mendicare, l’altro a Lugansk, a cercare lavoro; ma qualcuno svoltò verso il bosco in direzione dei burroni ricoperti di vegetazione, si mise a mangiare erba cruda, argilla, corteccia, e inselvatichí. Erano quasi tutti adulti coloro che partirono: i bambini erano morti anzitempo o erano ormai dispersi da qualche parte a chiedere l’elemosina. I neonati, invece, a poco a poco li fecero morire le madri-nutrici, non dando loro da succhiare a sazietà.
C’era una vecchia di nome Ignat'evna che curava la fame dei piccoli con un decotto di funghi mischiati a un’erba dolce: i bambini si chetavano fiduciosi con una schiuma secca sulle labbra. La madre baciava il figlioletto sulla piccola fronte invecchiata e raggrinzita e gli sussurrava:
– Hai finito di soffrire, tesoro. Gloria a te, Signore!
Ignat'evna le era accanto:
– È spirato, sereno: sta lí disteso meglio di un vivo, ora ascolta i venti d’argento in paradiso…
La madre contemplava il figlioletto, certa di averne cosí alleviato il triste destino.
– Prenditi la mia gonna vecchia, Ignat'evna, non ho altro da darti. Grazie.
Ignat'evna stendeva la gonna alla luce e le diceva:
– E tu piangi pure un pochino, Mitrevna: è giusto cosí. Però la gonna è logora, aggiungici almeno un fazzoletto o regalami il ferro da stiro…
Zachar Pavlovič restò solo nel villaggio, quella solitudine gli piaceva. Ma viveva perlopiú nel bosco, in una capanna di fango, insieme a un contadino senza terra né famiglia e nutrendosi di una salutare brodaglia di erbe, già sperimentata dal contadino stesso.
Per dimenticare la fame Zachar Pavlovič lavorava senza sosta, e imparò a costruire col legno tutto ciò che un tempo faceva col metallo. Il contadino, invece, non aveva mai fatto nulla in tutta la sua vita, e a maggior ragione ora; fino a cinquant’anni si era solo guardato intorno chiedendosi perché e percome, in attesa che dall’agitazione generale venisse finalmente fuori qualcosa, pronto a darsi da fare non appena il mondo si fosse placato e chiarito; non era affatto ossessionato dalla vita e non aveva mai mosso un dito né per sposare una donna, né per il bene comune. Era nato stupito, e cosí aveva vissuto fino alla vecchiaia, due occhi cerulei su un volto giovanile. Quando Zachar Pavlovič intagliava una padella nel legno di quercia, il contadino si stupiva, perché comunque non ci si sarebbe potuto friggere nulla. Ma Zachar Pavlovič versava dell’acqua nella padella di legno e, a fuoco lento, la portava a ebollizione. Il contadino restava di stucco:
– Che portento! Amici, non si finisce mai di imparare…
I misteri dell’universo lo demoralizzavano: nessuno gli aveva mai spiegato la semplicità dei fenomeni oppure era lui a essere davvero duro di comprendonio. In effetti, quando Zachar Pavlovič provò a raccontargli perché il vento soffia e non sta fermo, il contadino si stupí ancor di piú e non ci capí niente, sebbene percepisse distintamente da dove spirava.
– Possibile? Ma tu dimmi! Allora è provocato dal sole cocente? Questa è carina!…
Zachar Pavlovič gli spiegò che non c’era nulla di carino, si trattava semplicemente della calura.
– Calura?! – si stupí il contadino. – Caspita che strega!
Lo stupore del contadino passava da un oggetto all’altro senza mai trasformarsi in consapevolezza. Non era la ragione a tenerlo in vita, ma un sentimento di fiducioso rispetto.
Durante l’estate Zachar Pavlovič rifece in legno tutti i manufatti che conosceva. La capanna e il terreno adiacente erano ingombri dei frutti della sua perizia: un assortimento completo di attrezzi agricoli, macchine, arnesi, strumenti da lavoro e suppellettili – tutti interamente di legno. Per quanto strano, non una cosa era a immagine della natura: ad esempio un cavallo o una zucca o altro ancora.
In agosto il contadino si spostò all’ombra, si stese bocconi e disse:
– Zachar Pavlovič, sto morendo, ieri ho mangiato una lucertola… A te ho portato due funghi, ma io mi sono arrostito una lucertola. Fammi aria con una foglia di bardana, mi piace il vento.
Zachar Pavlovič obbedí, poi andò a prendere dell’acqua e la portò al moribondo.
– No, non morirai. È solo un’impressione.
– Morirò, quanto è vero Iddio, morirò, Zachar Palyč, – ebbe paura di mentire il contadino. – Le mie budella non trattengono piú nulla, c’è un verme enorme, vive dentro di me e mi ha bevuto tutto il sangue…
Il contadino si rigirò sulla schiena:
– Pensi che devo avere paura?
– No, – rispose con fermezza Zachar Pavlovič. – Io stesso morirei anche subito, ma sai, ci sono sempre tante cose da costruire…
Il contadino si rallegrò della compassione e verso sera morí senza paura. Quando morí Zachar Pavlovič stava facendo il bagno nel ruscello, cosí trovò il contadino già morto, soffocato dal suo stesso vomito verdognolo. Il vomito, compatto e secco, si era depositato come un impasto tutt’intorno alla bocca. Dentro si agitavano bianchi vermetti.
Di notte Zachar Pavlovič si svegliò e prestò ascolto alla pioggia; la seconda pioggia dal mese di aprile. «Il contadino si sarebbe meravigliato», pensò. Ma il contadino era solo, a inzupparsi nel buio fiume d’acqua che monotono scrosciava dal cielo, e in silenzio si gonfiava.
Attraverso la pioggia sonnolenta e senza vento qualcosa intonò un canto triste e indistinto, da molto distante, da un luogo dove probabilmente non pioveva ed era giorno. Zachar Pavlovič dimenticò subito il contadino, la pioggia e la fame, e si alzò. Era il fischio di una macchina lontana, una locomotiva viva, funzionante. Zachar Pavlovič uscí all’aperto e per un po’ se ne stette immobile nell’umore della pioggia tiepida che cantava di una vita pacifica e della vastità della terra antica. Scuri alberi sonnecchiavano a radici divaricate, avvolti dalla carezza della pioggia quieta; stavano cosí bene che si abbandonavano dolcemente spossati, agitando appena i rami anche senza vento.
Zachar Pavlovič non prestò attenzione alla gioia della natura; era turbato da quella locomotiva sconosciuta che ora taceva. Quando si rimise a dormire pensò: «Anche la pioggia è all’opera, mentre io dormo e mi nascondo, invano, nel bosco; il contadino è morto, morirò anch’io; in tutta la sua vita quello non ha prodotto un solo manufatto, continuava a osservare e ad adattarsi, si stupiva di tutto e vedeva un prodigio nei fenomeni piú semplici, non muoveva un dito, per non rovinare nulla; sapeva solo raccogliere i funghi, e forse neanche quello, cosí è morto senza aver arrecato alcun danno alla natura».
Il giorno seguente il sole splendeva e il bosco cantava con tutta la profondità della sua voce, lasciando passare il vento mattutino sotto il fogliame piú basso. Zachar Pavlovič non notò il mattino, quanto l’avvicendarsi dei turni di lavoro: la pioggia si era addormentata sul terreno ed era stata sostituita dal sole; a causa di quest’ultimo si levò, indaffarato, il vento, gli alberi si arruffarono, le erbe e i cespugli cominciarono a brontolare e la pioggia stessa, svegliata da un solleticante tepore, senz’essersi riposata, si levò di nuovo e raccolse il suo corpo in nuvole.
Zachar Pavlovič infilò nel sacco tutti i manufatti di legno che riuscí a stipare e s’incamminò lungo un sentiero per il quale le donne andavano a funghi. Non guardò il contadino: i morti sono ripugnanti, anche se Zachar Pavlovič conosceva un uomo, un pescatore del lago Mutëvo, che, angosciato dalla curiosità, aveva interrogato molte persone sulla morte; quel pescatore amava piú di tutto il pesce, non come alimento bensí come creatura speciale, che probabilmente conosceva il mistero della morte. E mostrandogli gli occhi dei pesci morti diceva a Zachar Pavlovič: «Guarda, questa è saggezza! Il pesce sta fra la vita e la morte, perciò è muto e ha uno sguardo fisso; perfino il vitello pensa, ma il pesce no, il pesce sa già tutto». Contemplava il lago da anni, pensando sempre alla stessa cosa: alla morte, cosí seducente. Zachar Pavlovič cercava di dissuaderlo: «Non c’è nulla di speciale nella morte, solo qualcosa di angusto». Trascorso un anno il pescatore non resse, e si gettò nel lago dalla barca dopo essersi legato le gambe con una corda per non mettersi a nuotare suo malgrado. In cuor suo non credeva affatto alla morte, ma voleva soprattutto dare un’occhiata a cosa ci fosse di là: forse era molto piú interessante che vivere al villaggio o sulla riva del lago; vedeva la morte come una delle regioni sotto il cielo, solo situata sul fondo di acque fresche, e se ne sentí attratto. Alcuni contadini, ai quali il pescatore aveva rivelato la sua intenzione di vivere un po’ nella morte e poi tornare, avevano cercato di dissuaderlo, mentre altri convennero: «Ma sí, tentar non nuoce, Mitrij Ivanyč. Prova, poi ci racconti». Dmitrij Ivanyč provò: lo trascinarono fuori dal lago tre giorni dopo e lo seppellirono al villaggio, vicino al recinto del camposanto.
In quel momento Zachar Pavlovič vi stava passando davanti e cercava la tomba del pescatore nella selva di croci. Sulla tomba del pescatore la croce non c’era: non aveva addolorato nemmeno un cuore con la sua morte e non una bocca pregò per lui, perché non era morto di malattia, ma a causa della sua mente curiosa. Non aveva lasciato una moglie, perché era vedovo, il figlio era piccolo e viveva presso estranei. Zachar Pavlovič era andato al funerale tenendolo per mano – un ragazzino cosí affettuoso e sveglio che somigliava non si sa se alla madre o al padre; dov’era adesso quel ragazzino? Probabilmente, essendo orfano, era stato il primo a morire in quegli anni di carestia. Aveva seguito la bara del padre senza lamentarsi, tutto composto.
– Zio Zachar, mio padre si è sdraiato cosí di proposito?
– No, non di proposito, Saš, ma per via della sua stupidità, e cosí ti ha fatto un danno. Per un bel pezzo non pescherà piú.
– E perché le zie piangono?
– Fanno finta!
Quando posarono la bara vicino alla fossa, nessuno voleva dare l’addio al defunto. Zachar Pavlovič s’inginocchiò e toccò la guancia fresca e ispida del pescatore, dilavata sul fondo del lago. Poi si rivolse al bambino:
– Di’ addio a tuo padre, è morto per i secoli dei secoli. Guardalo bene, cosí te lo ricorderai.
Il bambino si curvò sul corpo, su quella vecchia camicia che avevano messo addosso a suo padre per il funerale – quand’era annegato ne indossava un’altra, che aveva un odore caro, di sudore vivo. Gli tastò le mani: sapevano di umidità di acque pescose; a un dito era infilato l’anello nuziale di stagno, in onore della madre dimenticata. Il bambino si voltò verso i presenti, tutti quegli estranei lo spaventarono e cominciò a piangere sommessamente, afferrando le pieghe della camicia paterna come per difendersi. Il suo era un dolore muto, privo della consapevolezza della vita futura e perciò inconsolabile; era cosí triste per il padre morto che il defunto avrebbe potuto esserne felice. Intorno alla tomba tutti si misero a piangere di pena per il bambino e per una sorta di precoce commiserazione per se stessi, perché a ognuno toccherà morire ed essere pianto allo stesso modo.
Il cordoglio non impediva a Zachar Pavlovič di pensare al futuro.
– Basta frignare, Nikiforovna! – disse a una contadina che piangeva singhiozzando mentre recitava frettolosa i lamenti rituali. – Tu non strepiti per il dolore, ma perché poi gli altri piangano un po’ per te quando sarà il tuo turno. E prenditi tu il bambino, tanto ne hai già sei: in qualche modo riuscirai a sfamarne un altro.
La Nikiforovna recuperò immediatamente il suo senno di donna e si asciugò torva: piangeva senza lacrime, con le sole rughe.
– Ci mancherebbe solo questa! Hai detto bene: in qualche modo ci riuscirò. Magari adesso è cosí, ma fallo crescere e comincerà a consumare calzoni e a mangiare come un lupo, un sacco senza fondo!
Il bambino lo prese un’altra contadina, Marfa Fetis...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Cevengur
  3. Il lungo viaggio degli ultimi nel ventre dell’utopia
  4. Note alla traduzione e ringraziamenti
  5. Nota bibliografica per il lettore italiano
  6. Čevengur
  7. Il libro
  8. L’autore
  9. Dello stesso autore
  10. Copyright