Si incamminò per il solito percorso che da Gray’s Inn Square conduceva al Palazzo di Giustizia, facendo del suo meglio per non pensare. In una mano reggeva la cartella e nell’altra l’ombrello aperto. La luce era di un verde cupo; l’aria di città, fresca sulle guance. Uscí dal cancello principale evitando, con un brusco cenno del capo, ogni possibile chiacchiera con John, il cordiale portiere del palazzo. Sperava soprattutto di non avere l’aria della donna in crisi. Per tenere i pensieri occupati altrove si esercitava mentalmente a un brano musicale che aveva mandato a memoria. Sul frastuono dell’ora di punta quel che sentiva era l’ideale mancato di sé, la pianista che non sarebbe mai piú stata, alle prese con un’esecuzione impeccabile della seconda partita di Bach.
C’era stata pioggia quasi tutti i giorni dall’inizio della bella stagione, gli alberi sembravano gonfi d’acqua, le chiome estese, i marciapiedi lustri e lisci, le auto su High Holborn, pulite come nelle vetrine di una concessionaria. L’ultima volta che ci aveva fatto caso anche il Tamigi, ingrossato dall’alta marea e tinto di un marrone piú scuro del solito, sembrava premere ostile contro i pilastri dei ponti, pronto a prendersi le strade. Ma la gente andava avanti lo stesso, lamentandosi, fradicia e determinata. I flussi di corrente a getto erano stati interrotti, sospinti a sud da fattori non controllabili che avevano bloccato il balsamo estivo dell’anticiclone delle Azzorre, risucchiando aria gelida dal Nord. Conseguenza del cambiamento climatico causato dall’uomo, dello scioglimento dei ghiacci marini che interferiva con le masse d’aria alta, o forse dell’imprevedibile attività di macchie solari che non erano colpa di nessuno, o ancora della naturale variabilità climatica, degli antichi ritmi, del destino del pianeta. Oppure di queste cose, o di uno dei possibili abbinamenti a caso. Ma a che pro tante spiegazioni e teorie a quell’ora di primo mattino? Fiona, come tutto il resto di Londra, aveva un lavoro da cominciare.
Quando attraversò la strada per imboccare Chancery Lane, la pioggia si fece piú fitta, sospinta di traverso da folate improvvise di vento freddo. Era anche piú buio, grosse gocce gelate le schizzavano le gambe; la folla passava frettolosa, assorta, muta. Il traffico scorreva su High Holborn chiassoso e imperterrito, puntando sull’asfalto la luce dei fari accesi, mentre Fiona tornava a mettersi in ascolto del grandioso adagio d’apertura in stile italiano, promessa ante litteram del jazz, nella lentezza densa degli accordi. Ma non c’era scampo, il brano la riportava dritta a Jack, perché era per il suo compleanno ad aprile dell’anno prima che l’aveva imparato a memoria. La piazza immersa nel crepuscolo, loro due appena rientrati dal lavoro, le lampade da tavolo accese, un bicchiere di champagne in mano, il suo, appoggiato al pianoforte mentre lei eseguiva il pezzo studiato con pazienza nelle settimane precedenti. L’esclamazione di Jack riconoscendo il brano e l’entusiasmo e lo stupore affettuosamente esagerato per quell’impresa mnemonica, il lungo bacio alla fine, gli auguri che gli aveva sussurrato, la commozione negli occhi di lui, il tintinnio delle flûte di cristallo molato.
Ed ecco che si metteva in moto la spirale del vittimismo e Fiona era aggredita dal ricordo di una serie di regali ideati per Jack. L’elenco era morbosamente lungo: biglietti a sorpresa per l’opera, viaggi a Parigi, Dubrovnik, Vienna, Trieste, Keith Jarrett in concerto a Roma (con Jack all’oscuro di tutto; unica indicazione, quella di prepararsi una piccola valigia e di presentarsi all’aeroporto direttamente dall’ufficio), gli stivali da cowboy in cuoio goffrato, la fiaschetta da tasca con le iniziali e, in ossequio alla sua recente passione per la geologia, un martello da campo ottocentesco con custodia in pelle. Per salutare l’arrivo della sua seconda adolescenza, per i cinquant’anni, gli aveva comprato una tromba appartenuta a Guy Barker. Simili offerte rappresentavano appena una frazione della gioia che Fiona sapeva provocare in lui e, di quella, il sesso era appena una frazione a sua volta, e solo di recente una componente difettosa che Jack aveva elevato al rango di colossale ingiustizia.
Dolore e un crescente accumulo di precisi rancori, mentre la rabbia vera di Fiona si spalancava sul futuro. Una cinquantanovenne abbandonata agli albori della vecchiaia, mentre imparava appena a muovere i primi passi. Si costrinse a tornare col pensiero al brano di Bach svoltando da Chancery Lane nel vicolo che portava alla Lincoln’s Inn e al suo intrico di meraviglie architettoniche. Oltre il tamburellio della pioggia sull’ombrello, udiva l’andante allegro, ritmato, una vera rarità per Bach, un’aria di splendida spensieratezza eseguita sopra un basso errante, e mentre superava la Great Hall i suoi piedi si adeguarono alla celestiale levità di quella melodia. Note che si sforzavano di giungere a un senso inequivocabile, ma che di fatto non significavano nulla. Pura bellezza, cristallina. O amore, nella sua forma piú ampia e vaga, amore per ogni creatura, indiscriminato. Per i figli, forse. Johann Sebastian ne aveva avuti venti, da due successivi matrimoni. Non permise mai al suo lavoro di ostacolare i doveri della tenerezza e della cura, educando e componendo per chi gli sopravvisse. Figli. Il pensiero inevitabile irruppe mentre Fiona procedeva mentalmente verso l’ardua fuga che, per amore del marito, era riuscita a dominare a piena velocità senza confondersi e senza dimenticare di tenere ben distinte le voci.
Sí, la sua maternità mancata era di per sé una fuga, un diversivo – il pensiero ricorrente al quale adesso cercava di resistere –, un’evasione dalla verità del suo destino. La sua incapacità di diventare donna, secondo l’accezione che al termine attribuiva sua madre. A traghettarla fino a quella condizione era stato un lento contrappunto eseguito in coppia con Jack nell’arco di un ventennio attraversato da dissonanze che andavano e venivano, ma immancabilmente riaffioravano nei momenti di allarme, per non dire di terrore, mano a mano che gli anni fertili si accumulavano nel passato fino a concludersi, mentre lei era quasi troppo indaffarata per accorgersene.
Una storia che si raccontava meglio in fretta. Dopo la laurea, ulteriori esami, l’abilitazione all’esercizio della professione, il praticantato, la fortunata convocazione presso studi legali prestigiosi, qualche successo iniziale nella difesa di alcune cause disperate: quanto era sembrato logico, in tutto ciò, rimandare l’arrivo di un bambino a dopo i trent’anni. E quando i trenta arrivarono, ecco presentarsi altri casi complicati e interessanti, altri successi. Jack esitava a sua volta, sostenendo la scelta di aspettare ancora un anno o due. E si passò ai trentacinque, quando lui insegnava a Pittsburgh e Fiona sfacchinava quattordici ore al giorno appassionandosi sempre di piú al diritto di famiglia mentre la possibilità di crearsene una propria si allontanava, nonostante le visite dei nipoti. Negli anni successivi cominciarono a girare le prime voci su una sua eventuale nomina precoce in magistratura con conseguenti incarichi a seguire le sedi distaccate. In effetti la convocazione non arrivò, almeno non subito. Passati i quaranta, sorsero le prime ansie riguardo alle gravidanze attempate e al connesso rischio di autismo. E di lí a poco iniziarono le scorribande di altri giovani ospiti a Gray’s Inn Square, pronipoti chiassosi ed esigenti che le ricordavano come sarebbe stato difficile inserire un bebè nella loro routine. Poi qualche mesto pensiero di adozione, qualche indagine poco convinta e, nel precipizio degli anni successivi, il tormento del dubbio occasionale, i fermi propositi notturni di affido smentiti nella fretta di correre al lavoro, l’indomani. E quando alla fine, un mattino alle nove e mezza, al Palazzo di Giustizia fu invitata dal presidente dell’Alta Corte ad alzare la mano destra e a prestare giuramento di fedeltà alla corona dinanzi a duecento colleghi imparruccati e, fiera con la toga indosso, pronunciò un bel discorso arguto, Fiona seppe che i giochi erano fatti, e che lei apparteneva alla legge come certe donne del passato si erano votate spose di Cristo.
Attraversò New Square e giunse nei pressi della libreria Wildy. Nel frattempo la musica si era andata spegnendo nella sua testa, sostituita da un altro vecchio assillo: il senso di colpa. Era una donna acida ed egoista, arida e ambiziosa. Ripiegata sul conseguimento dei propri obiettivi, pronta a fingere con se stessa che la carriera non fosse per lei un semplice strumento di gratificazione personale e disposta a negare l’esistenza ipotetica a un paio di creature amabili e piene di talento. Se i suoi figli fossero venuti al mondo, sarebbe stato atroce considerare l’eventualità contraria. E cosí, ecco il suo castigo: dover affrontare l’attuale disastro da sola, senza il saggio conforto di figli ormai adulti, che l’avrebbero chiamata premurosi, mollando tutto per accorrere a urgenti summit familiari al tavolo di cucina, cercando di far ragionare quell’idiota del padre, riportandolo a casa. Ma lo avrebbe poi ripreso? Avrebbero dovuto far ragionare anche lei. Già, i suoi figli quasi venuti al mondo, la figlia dalla voce roca di professione curatrice museale forse, e il figlio maschio brillante e squinternato, dotato in troppi campi, incapace di concludere gli studi universitari, ma pianista di gran lunga migliore di lei. Entrambi sempre affettuosi, stupendi ai pranzi di Natale, nei castelli delle vacanze estive, spassosi con i piccoli di famiglia.
Procedette nella galleria oltre Wildy’s, indifferente ai manuali di diritto esposti in vetrina, traversò Carey Street ed entrò al Palazzo di Giustizia dall’ingresso sul retro. Un paio di lunghi corridoi voltati a botte, una rampa di scale, qualche aula, giú di nuovo, un cortile, e infine la sosta ai piedi di una scala per scuotere la pioggia dall’ombrello. L’aria le ricordava sempre i tempi della scuola, l’odore e la sensazione della pietra fredda e umida, il lieve brivido di eccitamento e di angoscia. Imboccò le scale rinunciando all’ascensore e, a passi pesanti sulla guida rossa, svoltò a destra verso l’ampio pianerottolo sul quale affacciavano gli uffici di parecchi giudici dell’Alta Corte: una specie di calendario dell’avvento, le capitava di pensare. In ciascuna di quelle vaste sale piene di libri i suoi colleghi quotidianamente si perdevano inseguendo i loro casi, i processi, in un dedalo di cavilli e disaccordi contro i quali soltanto un certo atteggiamento ironico e scherzoso poteva offrire un po’ di riparo. Molti dei magistrati di sua conoscenza coltivavano un sofisticato senso dell’umorismo, ma quella mattina non c’era nessuno desideroso di scambiare battute, per fortuna. Doveva essere arrivata per prima. Non c’è niente come una burrasca in casa per tirarti giú dal letto presto.
Fiona indugiò sulla soglia. Nigel Pauling, impeccabile e sempre titubante, stava chino sulla sua scrivania e le sistemava le carte. Seguí il consueto rituale del lunedí in cui ciascuno si informava sulla qualità del fine settimana dell’altro. Quello di lei era stato «tranquillo» e, mentre pronunciava la parola, Fiona consegnò la motivazione corretta della sentenza Bernstein.
Impegni della giornata. A proposito del caso marocchino, iscritto a ruolo per le dieci, si era avuta conferma che, nonostante l’impegno assunto dal padre in tribunale, la piccola era stata sottratta alla giurisdizione della corte e condotta a Rabat e al momento non si sapeva dove fosse, perché l’uomo non si era piú fatto vivo, lasciando nello sconcerto il suo stesso legale. La madre, sebbene bisognosa di sostegno psichiatrico, sarebbe stata presente in aula. L’intenzione era di ricorrere alla Convenzione dell’Aia, essendo il Marocco, fortunatamente, l’unico stato islamico ad averne sottoscritto gli accordi. Tutto questo fu esposto in precipitoso tono di scuse da un Pauling che intanto si passava una mano tra i capelli, agitato come se fosse il fratello del padre rapitore. Da una parte quella povera donna esangue, esile ricercatrice universitaria, tremebonda in aula, esperta in saghe del Bhutan e religiosamente votata alla cura della sua unica bambina. E dall’altra il padre, anche lui devoto in un suo modo distorto, e deciso a sottrarre la figlia ai mali dell’Occidente infedele. I documenti attendevano Fiona sulla scrivania.
Il resto del lavoro della giornata le era già chiaro in mente. Mentre prendeva posto al suo tavolo si informò sul caso del Testimone di Geova. I genitori intendevano presentare d’urgenza domanda di patrocinio gratuito e nel pomeriggio avrebbero ottenuto l’autorizzazione. Il ragazzo, le disse il cancelliere, soffriva di una rara forma di leucemia.
– Diamogli un nome per favore –. La frase le uscí brusca, in un tono che prese alla sprovvista perfino lei.
Incalzato da Fiona, Pauling reagiva di solito mostrando maggiore scioltezza e assumendo un tocco quasi sarcastico. Al momento, le forní piú informazioni di quelle richieste.
– Senz’altro, signor Giudice. Adam. Adam Henry, figlio unico. I genitori sono Kevin e Naomi. Il signor Henry è titolare di una piccola impresa. Drenaggi agricoli, movimenti terra e simili. Un virtuoso dell’escavatore, a quanto pare.
Dopo venti minuti alla scrivania, Fiona tornò al pianerottolo e percorse il corridoio che conduceva al piccolo vano del distributore del caffè, sul cui vetro illuminato dall’interno l’immagine iperrealista di chicchi torrefatti nei toni del marrone e del crema emanava nella penombra circostante una luminosità vivida da manoscritto miniato. Cappuccino con doppia dose di caffè, forse perfino tripla. Meglio cominciare a berlo sul posto dove poteva immaginare indisturbata la scena disgustosa di Jack che piú o meno a quell’ora si alzava da un letto estraneo e si preparava per andare a lavorare, mentre la sagoma semiaddormentata accanto a lui, strapazzata a dovere fino alle prime ore del mattino, si rigirava tra le lenzuola madide mormorando il suo nome e reclamandolo ancora. In preda a un moto di furia, Fiona estrasse il cellulare e fece scorrere i numeri in rubrica fino a trovare quello del loro fabbro di fiducia in Gray’s Inn Road al quale forní l’identificativo personale a quattro cifre per poi chiedere una sostituzione della serratura. Certamente, signora, provvediamo subito. Avevano in ditta le specifiche di quella esistente. Le chiavi nuove dovevano pervenire in giornata esclusivamente allo Strand. Dopodiché, procedendo rapida con il bicchiere di plastica ancora in mano, per paura di cambiare idea Fiona chiamò il viceamministratore del complesso, un brav’uomo anche se un po’ burbero, per informarlo dell’arrivo del fabbro. Fatto; era una vipera, ed esserlo la faceva sentire meglio. Lasciarla doveva pur avere un suo prezzo, no? Eccolo, infatti, ritrovarsi esiliato, costretto a chiedere accesso alla propria vita precedente. Il lusso di due indirizzi se lo poteva scordare.
Già mentre ripercorreva il corridoio con il cappuccino in mano, rifletté sulla ridicola banalità di quel gesto, impedire al marito il legittimo ingresso in casa, un autentico cliché nei conflitti coniugali, di quelli contro i quali qualunque avvocato avrebbe messo in guardia il cliente – di solito la moglie – a meno di poter contare su una precisa ordinanza del tribunale. Un’intera carriera trascorsa al di sopra della mischia, a consigliare, giudicare, e a commentare con sufficienza, in privato, la perversa assurdità delle coppie in fase di divorzio, e adesso eccola trascinata sul fondo insieme a tutti gli altri, ad annaspare in quelle acque torbide.
I suoi pensieri furono bruscamente interrotti. Svoltando sull’ampio pianerottolo vide il giudice Sherwood Runcie incorniciato dalla porta del suo ufficio: l’aspettava sorridendo e sfregandosi le mani a mo’ di caricatura del cattivo in palcoscenico, con l’aria di avere qualcosa di speciale da offrirle. Sempre al corrente delle voci che giravano nelle aule dei tribunali, voci perlopiú fondate, Runcie godeva nel diffonderle. Era uno dei pochi colleghi, per non dire l’unico, che Fiona preferisse evitare, e non perché fosse un uomo antipatico. Al contrario, era un tipo amabile, uno che dedicava tutto il tempo libero a un’associazione benefica fondata anni prima in Etiopia. Ma per Fiona era impossibile non associarlo a un senso d’imbarazzo. Quattro anni prima Runcie aveva emesso su un caso di omicidio una sentenza tuttora inguardabile e difficile da passare sotto silenzio, come invece era dovere di Fiona fare. Il tutto in quel loro temerario microcosmo, un mondo chiuso come un villaggio, nel quale d’abitudine ciascuno perdonava agli altri gli errori commessi, perché a tutti capitava prima o poi la sentenza ribaltata ignominiosamente in Corte d’Appello: veniali imprevisti resi possibili da punti di diritto. Quella volta però si era di fronte a uno dei peggiori errori giudiziari dei tempi moderni. Ed era toccato a Sherwood! Che si era mostrato prima incredibilmente ingenuo nei confronti di un perito che ignorava il calcolo delle probabilità e poi, nella sorpresa mista a sconcerto di tutti, aveva condannato una madre innocente e distrutta dal dolore, accusandola dell’uccisione dei figli, solo per consegnarla alle angherie e alle offese delle compagne di carcere, alla demonizzazione da parte della stampa scandalistica, e al vedersi respinto l’appello. E infine, dopo il dovuto rilascio per assoluzione, alla tragedia dell’alcolismo che la condusse alla morte.
La logica perversa alla base di quella catastrofe riusciva ancora a tenere Fiona sveglia, la notte. Le possibilità che un neonato morisse per sindrome della morte improvvisa del lattante, si disse in aula, erano di una su novemila. Pertanto, secondo il perito dell’accusa, l’eventualità che il fen...