La mala setta
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La mala setta

Alle origini di mafia e camorra. 1859-1878

  1. 448 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La mala setta

Alle origini di mafia e camorra. 1859-1878

Informazioni su questo libro

Questo libro si propone di affrontare in modo nuovo la questione del crimine organizzato italiano nella seconda metà del XIX secolo, utilizzando la categoria di «classi pericolose». Questa impostazione è diversa dalla prospettiva, comunemente adottata, che punta viceversa a studiare il crimine organizzato ottocentesco ex post, per cosí dire, «dall'oggi», e cioè a partire dalle forme e dalle strutture che la criminalità organizzata si è data durante il secondo dopoguerra. Vi è al fondo di questa prospettiva un residuo di un pregiudizio di stampo romantico, l'idea per cui vi siano dei soggetti separati, «i criminali», intesi come un popolo a parte, portatore di inequivocabili stigmate comportamentali e attitudinali che li rendono sempre uguali a sé stessi malgrado il tempo trascorso. L'adozione del modello delle «classi pericolose» consente invece di muoversi in direzione opposta, basandosi sulla concezione del crimine condivisa nell'Ottocento. Tutto ciò ha conseguenze importanti. Piuttosto che considerare, ad esempio, l'analisi della mafia delle origini come una sorta di premessa utile a sceverare le radici lunghe di pratiche criminali che daranno poi luogo nel XX secolo a «Cosa nostra», esso invita invece a immergersi nella confusione dei discorsi e delle pratiche di quell'epoca. Inoltre, una prospettiva del genere obbliga a riunire ciò che è stato artificialmente separato, vale a dire l'indagine sulla camorra a quella sulla mafia. Vi è infine il bisogno di uscire da una certa concezione ristretta della storia del crimine come storia sociale intesa alla vecchia maniera, reintroducendovi le urgenze della politica e le forme dell'immaginario collettivo. Lo sviluppo del crimine organizzato nei primi due decenni dell'Italia unita, e in particolare la crescente popolarità di mafia e camorra considerate alla stregua di sette segrete, è strettamente legato alla lotta dello Stato contro gli eversori, repubblicani prima e socialisti internazionalisti poi. In questo dirompente e innovativo libro, Francesco Benigno illustra il rapporto tra il neonato Stato italiano e la criminalità organizzata, avvalendosi di fonti d'epoca poliziesche e giudiziarie oltre che delle fonti giornalistiche coeve. Il risultato dell'indagine mostra come attorno al nodo dell'ordine pubblico la società italiana si divida e si ricomponga lungo linee di frattura che oppongono - a Nord come a Sud - svariate opzioni ideali e politiche e differenti concezioni della pubblica sicurezza. Il libro mostra anche la genesi di pratiche poliziesche di manipolazione, infiltrazione e diversione comuni in epoca liberale e che, attraverso il fascismo, sono poi transitate nell'Italia repubblicana.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
Print ISBN
9788806224417
eBook ISBN
9788858420331
Argomento
Histoire

Conclusioni

L’immaginario della setta

New Orleans, 29 settembre 1878. Muore quel giorno, forse di febbre gialla, un emigrato siciliano nativo di Monreale, tale Francesco Alessi. Dietro quel nome, e al riparo dell’attività d’importatore di frutta, soprattutto agrumi siciliani, svolta nella città americana, si cela però un’altra identità, quella del ricercato Salvatore Marino, «conosciuto e famoso per numerosi e gravi reati». Le notizie sulla sua fine vengono da una strana propalazione, effettuata davanti al console italiano di Saragozza da un altro pregiudicato, tale Rosario La Mantia, anch’egli monrealese1. Costui dichiara di essersi deciso a espatriare perché non poteva piú soffrire la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza cui era sottoposto2. Recatosi a New Orleans con regolare passaporto, aveva cercato di trovare lavoro tramite compatrioti, e cosí sarebbe stato assunto nella ditta di Alessi. Questi, dopo vari mesi di diuturna collaborazione, gli avrebbe svelato la sua vera identità, rivelandogli di essere ancora a capo, seppur allontanatosi dalla Sicilia, di una vasta associazione segreta, forte nell’isola di circa quarantacinquemila affiliati. Al che, «appreso che il mio compagno d’industria fosse il famoso brigante e delinquente Marino, scrissi subito al questore di Palermo, informandolo della presenza del Marino in New Orleans», offrendosi di farlo arrestare. Nel frattempo però Marino si era ammalato e prima di morire avrebbe chiesto a La Mantia di cercare in una cassa certe lettere e di bruciarle; questi però, ingannando il moribondo, avrebbe fatto finta di ubbidirgli, incenerendo altre carte e preservando «in saccoccia» le lettere da dare alle fiamme. Una volta deceduto Marino, La Mantia, via Le Havre e Marsiglia, si sarebbe recato a Barcellona. Di certo egli appare poi a Saragozza, dove davanti al console italiano consegna due lettere e rilascia una completa deposizione. Venuto in Italia nel gennaio del 1879, egli confermerà le sue dichiarazioni, prima a Roma presso il ministero dell’Interno, e quindi, in estate, a Palermo, davanti al magistrato. A conclusione della vicenda, in attesa di essere chiamato a testimoniare in dibattimento, egli sarà nuovamente dotato di passaporto, e potrà quindi definitivamente espatriare.
La narrazione di La Mantia appare cosí poco credibile da aver fatto supporre che egli fosse in realtà una spia della questura3, un «agente segreto» inviato a New Orleans per acquisire materiali probatori sulla «setta degli stoppaglieri», sorvegliare Marino, e forse, eliminarlo. Il suo strano itinerario (da Marsiglia a Barcellona e poi a Saragozza) si spiegherebbe con il fatto che i due autori delle compromettenti lettere indirizzate a Marino (Salvatore di Paola e Giuseppe Meraviglia) si erano in dicembre recati a Marsiglia, forse proprio per intercettare La Mantia4. E, in effetti, le due lettere trafugate, datate 4 e 5 agosto 1877, corroborate dalle dichiarazioni de relato di La Mantia consentiranno agli inquirenti di sostenere l’accusa sia nel processo per associazione di malfattori imbastito contro gli «stoppaglieri», sia in quello avviato contro un sodalizio criminale palermitano operante nella zona di piazza Montalto, facente capo alla famiglia Amoroso e connesso al primo gruppo. Secondo La Mantia, infatti, Marino gli avrebbe confidato che, oltre ai succitati Di Paola e Meraviglia, i suoi luogotenenti in Sicilia erano il monrealese Francesco Spatola, e a Palermo i fratelli Salvatore e Michele Amoroso. L’associazione sarebbe stata responsabile di una serie di omicidi dei quali vi sono coperti riferimenti nelle lettere. Essi s’inscrivono nella già citata sorda lotta intrapresa dagli «stoppaglieri» contro un’altra, preesistente associazione criminosa monrealese, quella «dei giardinieri», ben radicata tra i componenti della locale Guardia nazionale. Marino, secondo La Mantia, chiamava i suoi avversari i cagnolazzi5. In dialetto siciliano cagnolazzo vale pressappoco per «cane pastore», metaforicamente qualcuno che agisce ubbidendo a un ordine. L’aggettivazione dispregiativa sta dunque a significare che i «giardinieri» erano accusati pubblicamente dagli avversari di «tenere padrone», con evidente riferimento alle autorità politiche. Va detto che anche una delle tante interpretazioni del significato dell’espressione stuppagghieri, «stoppaglieri», «tappi», rimanda alla natura manipolata dall’alto dell’associazione. In breve, con tutta probabilità, i due gruppi in lotta si rimproveravano reciprocamente di essere la stessa cosa, passivi strumenti delle forze di polizia6.
Marino, infine, si sarebbe vantato con La Mantia di essere riuscito a far sparire dal tribunale di Palermo le carte di uno dei processi che lo riguardavano, un dato su cui vi è riscontro7, e di avere influenzato le elezioni, facendo eleggere un deputato che poi però gli avrebbe voltato le spalle8. Di sicuro egli operava a Monreale come fondamentale trait d’union tra gli ambienti polizieschi e quelli della delinquenza cittadina9.
Monreale sembra dunque il luogo topico che riassume le acquisizioni venutesi accumulando in queste pagine sulle modalità di organizzazione del crimine in provincia di Palermo, quel fenomeno ormai noto, dalla metà degli anni Sessanta in poi, come maffia o mafia. È a Monreale, come si è visto, che si annodavano, dopo Aspromonte, le reti eversive dirette a suscitare in Sicilia, sotto la guida prima di Giovanni Corrao e poi di Giuseppe Badia, un moto rivoluzionario di ispirazione repubblicana. A Monreale aveva avuto infatti sede il primo Comitato insurrezionale, il gruppo promotore della rivolta di Palermo del 1866, mentre monrealese è il famigerato Salvatore Miceli, l’unico capo carismatico degli insorti. A Monreale era anche attivo, poi, il principale «sinedrio borbonico», il centro cospirativo reazionario facente capo al convento dei benedettini e alla vicina abbazia di San Martino delle Scale. Non per caso, perciò, sarà proprio una squadra di Monreale, giunta a Palermo all’alba munita di sciarpe e berretti rossi, a dare il via alla rivolta di settembre.
Come si è già notato il questore Pinna, sollevato dal servizio all’indomani della tragica settimana di scontri che – forse per eccesso di prevenzione – aveva contribuito a provocare, aveva trafugato dagli uffici della questura di Palermo p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La mala setta
  3. Introduzione. Le classi pericolose italiane
  4. Elenco delle abbreviazioni e delle sigle archivistiche
  5. La mala setta
  6. I. Spie, informatori, agenti segreti
  7. II. Patrioti e camorristi
  8. III. La misteriosa setta
  9. IV. Alta polizia
  10. V. Rivoluzionari e mafiosi
  11. VI. Fare ordine con il disordine
  12. VII. Rappresentazione, identificazione, repressione
  13. VIII. Prevenire o reprimere?
  14. Conclusioni. L’immaginario della setta
  15. Elenco dei nomi
  16. Il libro
  17. L’autore
  18. Copyright