C’era una volta, in un Paese lontano lontano, una commerciante che era stata così fortunata in tutti i suoi affari da diventare enormemente ricca. Ma poiché ella aveva sei figlie e sei figli, si rese conto che il suo denaro non era più sufficiente per soddisfare tutti i loro capricci, come era sempre riuscita a fare.
Un giorno si abbatté su di loro la più inattesa delle sciagure. Nella loro casa scoppiò un incendio che la distrusse dalle fondamenta, con tutto lo splendido mobilio, i libri, i quadri, gli ori, gli argenti e gli oggetti preziosi che conteneva. E questo fu solo l’inizio delle loro disgrazie. La donna, che fino ad allora aveva prosperato in ogni impresa, perse all’improvviso tutte le navi che aveva in mare a causa dei pirati, dei naufragi o del fuoco. Infine apprese che i suoi intendenti in Paesi lontani, in cui riponeva piena fiducia, si erano dimostrati infedeli. E così, dalla florida ricchezza cadde nella più cupa miseria.
Non le era rimasta che una casetta in una landa desolata ad almeno cento leghe dalla città in cui viveva; e lì fu costretta a rifugiarsi con le sue figlie e i suoi figli, che all’idea di condurre una vita tanto diversa piombarono nella disperazione. Certo, i figli maschi all’inizio sperarono che i loro amici, che erano stati così numerosi negli anni della prosperità, avrebbero insistito per ospitarli a casa loro, ora che non avevano più un tetto. Ma scoprirono ben presto di essere rimasti soli, e che i compagni di un tempo attribuivano la sventura che li aveva colpiti alle loro stesse stravaganze, e non mostravano la minima intenzione di soccorrerli in alcun modo. Così non rimase loro altra scelta che andarsene in quella capanna che sorgeva nel folto di una selva oscura e sembrava il posto più inospitale sulla faccia della terra. Poiché erano troppo poveri per avere dei domestici, i ragazzi dovettero lavorare duramente e le figlie, da parte loro, coltivavano i campi per guadagnarsi da vivere. Vestiti poveramente, e costretti a condurre una vita umile, i ragazzi rimpiangevano continuamente gli agi e gli spassi della loro vita precedente; solo il più giovane si sforzava di essere lieto e coraggioso. Era stato triste come gli altri quando la sventura aveva colpito sua madre, ma, riacquistata subito la sua naturale letizia, si era ingegnato per trarre il meglio da quella situazione, per rallegrare la madre e le sorelle per quanto poteva, e per cercare di convincere i suoi fratelli a unirsi a lui in danze e canti. Ma essi non volevano saperne, e poiché egli non si doleva tanto quanto loro, dichiararono che era degno di quella vita miserabile.
Era invece di gran lunga più leggiadro e assennato, anzi, era così grazioso che tutti lo chiamavano Bello. Dopo due anni, quando ormai tutta la famiglia stava cominciando ad abituarsi a quella nuova vita, accadde qualcosa che disturbò la loro tranquillità: alla madre giunse la notizia che una delle sue navi, che credeva fosse andata perduta, era tornata in porto intatta, con un ricco carico. Tutte le figlie e i figli pensarono che la loro povertà fosse giunta al termine e volevano tornare subito in città, ma la madre, che era più prudente, li pregò di attendere un poco e, benché fosse la stagione del raccolto e non si potesse fare a meno delle sue braccia, decise di andare per prima a verificare. Solo il figlio più giovane dubitava che sarebbero presto tornati ricchi come prima, o almeno abbastanza ricchi per vivere agiatamente in città, dove trovare nuove allegre compagnie e nuovi spassi. Le sorelle e i fratelli tempestarono la madre di richieste di giacche e gioielli il cui acquisto sarebbe costato una fortuna. Solo Bello, certo dell’inutilità di quegli orpelli, non domandò nulla. La madre notò il suo silenzio e chiese: «E tu, Bello, cosa vuoi che ti porti?».
«Il mio unico desiderio è che torniate a casa sana e salva» rispose.
Questa risposta contrariò i suoi fratelli, che pensarono egli volesse rimproverarli per aver domandato regali tanto costosi. Tuttavia la madre ne gioì, ma poiché pensava che alla sua età egli doveva certamente gradire un bel dono, gli ordinò di scegliere qualcosa.
«Ebbene» egli disse, «poiché insistete, vi prego di portarmi una rosa. Non ne vedo da quando siamo arrivati qui, e mi piacciono così tanto».
Così la mercante partì e raggiunse la città il più rapidamente possibile, ma solo per scoprire che i suoi antichi soci, credendola morta, avevano diviso fra loro le merci trasportate dalla nave, e dopo sei mesi di affanni e di spese si ritrovò povera come all’inizio, essendo riuscita a recuperare solo quanto bastava per pagarsi il viaggio. E quel che è peggio, fu costretta a lasciare la città mentre infuriava una tempesta, sicché quando mancavano solo poche leghe a casa sua era quasi sfinita dal freddo e dalla fatica. Benché sapesse che ci sarebbero volute ore per attraversare la foresta, era così ansiosa di concludere il suo viaggio che decise di proseguire, ma fu sorpresa dalla notte, e la neve alta e il ghiaccio insidioso impedirono al suo cavallo di procedere oltre. Non si vedeva nemmeno una casa e l’unico rifugio che poté trovare fu il tronco cavo di un grande albero, e lì si accucciò per tutta la notte, che le sembrò la più lunga della sua vita. Gli ululati dei lupi la tennero sveglia a dispetto della stanchezza, e anche quando finalmente sorse il giorno le cose per lei non migliorarono, poiché la neve era caduta coprendo ogni sentiero ed ella non sapeva quale strada prendere.
Alla fine riuscì in qualche modo a rimettersi in marcia, e sebbene all’inizio il terreno fosse così aspro e sdrucciolevole da farla cadere più volte, ben presto si fece più agevole e la condusse su una strada alberata che terminava davanti a uno splendido castello. Alla mercante parve molto strano che sul viale non fosse caduto nemmeno un fiocco di neve, anzi, che esso fosse costeggiato in tutta la lunghezza da alberi d’arancio coperti di fiori e di frutti. Quando entrò nel primo cortile del castello vide davanti a lei uno scalone in pietra d’agata e lo salì. Attraversò numerosi saloni sontuosamente ammobiliati. Rinfrancata da quel piacevole tepore, si accorse di avere fame, ma in tutto quel vasto e splendido palazzo pareva non ci fosse nessuno cui potesse chiedere qualcosa da mangiare. Ovunque regnava un profondo silenzio e, alla fine, stanca di vagare per saloni e gallerie vuoti, si fermò in una stanza più piccola delle altre, dove vide un invitante sofà presso un bel fuoco acceso. Pensando che fosse stato preparato per un ospite che stava per giungere, si sedette in attesa del suo arrivo e ben presto cadde in un dolce sonno.
Quando, dopo molte ore, si svegliò con una gran fame, era ancora sola; ma vide vicino a lei una piccola tavola su cui era imbandita una buona cena, e poiché non mangiava nulla da ventiquattr’ore, fece onore al pasto, sperando di poter presto ringraziare il suo premuroso ospite, chiunque fosse. Ma non apparve nessuno, e anche dopo un altro lungo sonno, dal quale si risvegliò completamente ristorata, non si palesò segno di vita, anche se sul tavolino a fianco del divano era apparecchiata una bella colazione a base di torte appetitose e frutta. Essendo di natura timorosa, il silenzio a quel punto iniziò a spaventarla e decise di esplorare di nuovo tutte le stanze, ma fu inutile: non si vedeva neppure un domestico, non c’era anima viva in tutto il palazzo. Cominciò a riflettere sul da farsi, e si divertì a fingere che ogni tesoro che vedeva fosse di sua proprietà e a immaginare di dividerlo tra i suoi figli. Quindi scese in giardino e, malgrado fosse inverno dappertutto, lì splendeva il sole, gli uccelli cantavano e i fiori sbocciavano, e l’aria era dolce e profumata. La mercante, estasiata davanti a qualunque cosa vedesse e sentisse, si disse:
«Tutto questo dev’essere stato preparato per me. Ora andrò a prendere i miei figli per condividere con loro queste delizie».
Anche se al suo arrivo al castello era stanca e infreddolita, aveva messo il suo cavallo nella stalla e gli aveva dato da mangiare. Ora voleva rimettergli la sella per riprendere la strada di casa, e discese per il sentiero che conduceva alla stalla. Questo era orlato da rosai su entrambi i lati e la mercante pensò che non aveva mai visto fiori più belli dal profumo più squisito. Si ricordò della promessa fatta a Bello e si fermò, ma aveva appena colto una rosa da portargli quando uno strano rumore dietro le sue spalle la fece sobbalzare. Si voltò e vide un’orribile Bestia che pareva in preda alla collera e disse, con voce tremenda:
«Chi ti ha dato il permesso di cogliere le mie rose? Non ti è bastato soggiornare nel mio palazzo e godere delle gentilezze di cui ti ho colmato? Così mi mostri la tua gratitudine, rubando i miei fiori! Ma la tua insolenza non resterà impunita». La mercante, terrorizzata da quelle parole adirate, lasciò cadere la rosa fatale e cadde in ginocchio, gridando: «Perdonatemi, nobile signora, vi sono veramente grata per la vostra ospitalità, così magnifica che non potevo immaginare che vi avrei offesa prendendo una cosa minuscola come questa rosa». Ma il discorso non diminuì la furia della Bestia.
«Sei molto brava a inventare scuse e lusinghe» tuonò, «ma questo non ti salverà dalla fine che meriti».
“Ahimè!” pensò la mercante, “se solo mio figlio Bello sapesse in quale pericolo mi ha messo con la sua rosa!”. E in preda alla disperazione cominciò a raccontare alla Bestia tutte le sue disavventure e la ragione del suo viaggio, senza trascurare di menzionare la richiesta di Bello.
«Un riscatto degno di una regina non sarebbe bastato a procurare ciò che mi avevano domandato gli altri miei figli» disse, «ma pensavo che almeno sarei riuscita a portare a Bello la sua rosa. Vi supplico di perdonarmi, ora che sapete che non intendevo fare alcun male».
La Bestia rifletté per un momento, poi disse, in tono meno irato:
«Ti perdonerò a una sola condizione, e cioè che tu mi dia uno dei tuoi figli».
«Ah!» esclamò la mercante. «Se fossi abbastanza crudele da pagare la mia vita con quella di uno dei miei figli, quale scusa potrei inventare per portarlo qui?»
«Non sarà necessaria alcuna scusa» rispose la Bestia. «Se viene, dovrà venire di buona voglia. Altrimenti non lo riceverò a nessuna condizione. Cerca di capire se qualcuno di loro è abbastanza coraggioso e ti ama abbastanza da venire a salvarti la vita. Sembri una donna d’onore, perciò mi fiderò e ti lascerò tornare a casa tua. Ti do un mese per capire se qualcuno dei tuoi figli vuole tornare con te e restare qui, affinché tu sia libera. Se tutti si rifiutano dovrai tornare da sola, dopo aver detto loro addio per sempre, perché sarai mia. E non pensare di poterti nascondere da me perché se non manterrai la tua parola io verrò a prenderti!» aggiunse cupamente la Bestia.
La mercante accettò la proposta, anche se pensava che nessuno dei suoi figli si sarebbe convinto a seguirla. Promise di tornare il giorno pattuito, quindi, smaniosa di sottrarsi alla presenza della Bestia, domandò il permesso di partire subito. Ma la Bestia le rispose che non poteva andarsene fino al giorno dopo.
«Troverai un cavallo pronto per te» le disse. «Ora vai a cenare, e aspetta i miei ordini.»
La povera mercante, più morta che viva, tornò nella sua stanza dove la cena più deliziosa era già servita sul tavolino, collocato davanti a un fuoco scoppiettante. Ma era troppo intimorita per mangiare e assaggiò soltanto poche pietanze, per paura che la Bestia andasse in collera se non obbediva ai suoi ordini. Quando ebbe finito udì un gran rumore nella stanza accanto, segno che la Bestia stava arrivando. Poiché nulla poteva fare per evitare la visita, non le restava che mostrarsi meno spaventata possibile, così, quando la Bestia apparve e domandò in maniera brusca se aveva gradito la cena, la mercante rispose umilmente di sì, grazie alla gentilezza della sua ospite. Quindi la Bestia la ammonì di ricordare il loro patto, e di preparare suo figlio per ciò che lo aspettava.
«Domattina non ti alzare» aggiunse, «finché non vedrai il sole e non sentirai il suono di una campana d’oro. Troverai la colazione apparecchiata qui per te, e la giumenta che monterai sarà pronta in cortile. Essa ti riporterà qui quando ritornerai con tuo figlio, tra un mese. Addio. Porta una rosa a Bello e ricorda la tua promessa!».
La mercante fu fin troppo felice quando la Bestia se ne andò e anche se non riuscì a dormire per la tristezza rimase coricata fino al sorgere del sole. Poi, dopo una frettolosa colazione, andò a cogliere la rosa per Bello e montò sulla cavalla, che galoppò così veloce che dopo un istante il palazzo era scomparso, e la donna era ancora immersa in cupi pensieri quando si fermò davanti alla porta della sua casupola.
Le sue figlie e i suoi figli, che erano stati molto in pena durante la sua assenza, le corsero incontro, ansiosi di conoscere il risultato del suo viaggio che, vedendola in sella a una splendida giumenta e avvolta in un ricco mantello, immaginavano fosse stato proficuo. Ella all’inizio nascose loro la verità, ma quando diede a Bello la rosa disse con tristezza:
«Ecco ciò che mi hai chiesto. Non sai quan...