Racconti del pianeta Terra
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Racconti del pianeta Terra

  1. 370 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Racconti del pianeta Terra

Informazioni su questo libro

Avvicinarci, immedesimarci: è questo il senso profondo dell'antologia che abbiamo tra le mani. Venti racconti perfetti, limpidi e coraggiosi, per tratteggiare nella sua complessità la narrazione - e il sentimento - della crisi ecologica. Oggi piú che mai ci serve un alfabeto nuovo con cui ripensare il mondo, e il modo scriteriato che abbiamo di abitarlo.Benvenuti nell'Antropocene: l'era geologica - la nostra - in cui l'uomo è diventato l'agente di trasformazione decisivo del pianeta. L'uomo al centro di tutto, che sta distruggendo tutto. Siamo già in ritardo: dobbiamo intervenire e dobbiamo farlo subito, lo sappiamo, ma per cambiare abbiamo bisogno di comprendere; e per comprendere, fin da bambini, ci servono le parole. Al centro dei venti racconti scelti da Niccolò Scaffai, il futuro che si apre e il passato profondo della Terra si intrecciano e si specchiano. Scrittrici e scrittori prodigiosi illuminano il nostro sguardo una volta per tutte, aiutandoci a ragionare sul rapporto che intratteniamo con le altre specie, sul nostro impatto ambientale, sul fantasma dell'emergenza in arrivo. Se Leopardi nelle Operette morali aveva anticipato il tema dell'estinzione, qui si arriva ai territori della distopia esplorati da Amis, Ballard e Le Guin, attraversando il tempo e lo spazio del pianeta Terra. E poi Jack London rovescia nell'allegoria le scoperte scientifiche della sua epoca, Rigoni Stern sussurra con saggezza dei ghiri e degli abeti, Ortese e Safran Foer denunciano la relazione dispari tra animali e uomini, mentre Volodine li colloca finalmente sullo stesso piano, ma spingendosi a un passo dal buio. E ancora, Sebald passeggia per la costa inglese e ci rapisce con la sua curiosità, Coetzee ci trascina in un mercato africano dove vengono macellate le capre, Sjöberg dalla sua isola al largo di Stoccolma ci parla di ecosistemi fragili, mosche e piante carnivore.
Con le riflessioni ecologiste di Ghosh, Zadie Smith, Franzen, e con uno scritto di Margaret Atwood tradotto per la prima volta in italiano, ci ritroviamo infine a guardare il problema dritto negli occhi, attrezzati dell'unica arma che ci rimane per affrontarlo: la consapevolezza.
Il pianeta Terra crediamo che ci appartenga, eppurestiamo qui a guardarlo bruciare da vicino.Intorno a noi accadono cose enormi, sempre piúvelocemente, ma le teniamo relegate in un angolobuio della nostra attenzione.Se vogliamo capire i tempi che verranno e quelliche già viviamo, se vogliamo sentirli davvero, ci servono parole piú intime, visioni, immaginazione.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2022
Print ISBN
9788806249953
eBook ISBN
9788858439333

Gli animali ci riguardano

Empatia e straniamento
Primo Levi

Verso occidente

– Lascia stare la cinepresa: guarda, guarda coi tuoi occhi, e cerca di contarli!
Anna depose l’apparecchio e affondò lo sguardo nella valle: era una valle pietrosa e stretta che comunicava coll’entroterra solo attraverso un intacco quadrato e finiva in mare con un’ampia spiaggia melmosa. Finalmente, dopo settimane di appostamenti e di inseguimenti, erano riusciti: l’esercito dei lemming, onda dopo onda, si affacciava al valico e scendeva a precipizio per il pendio, sollevando una nuvola bruna di polvere: dove la pendenza si attenuava, le ondate grigioazzurre si fondevano nuovamente in una fiumana compatta, che muoveva ordinatamente verso il mare.
Entro pochi minuti la spiaggia fu invasa: nella luce calda del tramonto si distinguevano i singoli roditori che avanzavano nel fango, affondandovi fino al ventre; procedevano con fatica ma senza esitare, entravano in acqua e proseguivano a nuoto. Si vedevano le teste emergere per un centinaio di metri dalla battigia, qualche testa isolata si distingueva ancora a duecento metri, dove le onde del fiordo si rompevano: oltre, piú niente. Nel cielo, un altro esercito saettava inquieto: una flottiglia di rapaci, molti falchi, qualche poiana, e poi sparvieri, nibbi, ed altri che i due naturalisti non seppero identificare. Volteggiavano stridendo ed azzuffandosi fra loro: ogni tanto uno si abbatteva come un sasso, frenava con un brusco mulinare delle ali, prendeva terra attirato da un obiettivo invisibile, ed intorno a lui la fiumana dei lemming si divaricava come intorno a un isolotto.
– Ecco, – disse Walter, – adesso l’abbiamo anche visto. Adesso è diverso: non abbiamo piú giustificazioni. È una cosa che esiste, che esiste in natura, che esiste da sempre, e perciò deve avere una causa, e perciò questa causa deve essere trovata.
– Una sfida, vero? – disse Anna, in tono quasi materno: ma Walter si sentiva già in battaglia, e non rispose. – Andiamo, – disse; prese il sacco di rete e volò giú per il pendio, fin dove i lemming piú frettolosi gli passavano fra le gambe senza mostrare timore. Ne acchiappò quattro, poi gli venne in mente che forse quelli che procedevano a mezza costa non rappresentavano un campione medio: potevano essere i piú forti, o i piú giovani, o i piú risoluti. Ne liberò tre, poi avanzò in mezzo al brulichio grigio e ne catturò altri cinque in vari punti della valle. Risalí fino alla tenda coi sei animaletti, che squittivano debolmente ma non si mordevano fra loro.
– Poverini! – disse Anna. – Ma già, tanto sarebbero morti ugualmente –. Walter stava già chiamando con la radio l’elicottero della Guardia Forestale. – Verranno domattina, – disse: – adesso possiamo cenare –. Anna sollevò uno sguardo interrogativo; Walter disse: – No, diamine, non ancora. Anzi, dài qualcosa da mangiare anche a loro: ma non molto, per non alterarne le condizioni.
Ne parlarono a lungo, tre giorni dopo, col professor Osiasson, ma senza concludere molto. Rientrarono in albergo.
– Che cosa aspettavi da lui, finalmente? Che criticasse la teoria che lui stesso ha messa in piedi?
– No, – disse Walter, – ma almeno che desse mente alle mie obiezioni. È facile ripetere le stesse cose per un’intera carriera e con la coscienza in ordine: basta rifiutare i fatti nuovi.
– Sei cosí sicuro dei fatti nuovi?
– Sono sicuro oggi, e lo sarò anche piú domani. Lo hai visto tu stessa: i sei che abbiamo catturato, al termine della marcia, erano ottimamente nutriti: 28 per cento di grasso, piú della media dei lemming catturati sugli altipiani. Ma se non basta ritornerò…
– Ritorneremo.
– … ritorneremo, e ne prenderemo sessanta, o seicento, e allora vedremo quale Osiasson oserà ancora ripetere che chi li muove è la fame.
– O la sovrappopolazione…
– È una sciocchezza. Nessun animale può reagire all’affollamento con un affollamento peggiore. Quelli che abbiamo visti venivano da tutte le pieghe dell’altipiano: ebbene, non si sfuggivano, anzi si cercavano, tribú con tribú, individuo con individuo. Hanno marciato per due mesi, sempre verso occidente, e ogni giorno erano piú fitti.
– Allora?
– Allora… vedi, non so ancora, non te lo posso ancora formulare con esattezza, il mio pensiero, ma io… io credo che vogliano proprio morire.
– Perché un essere vivente dovrebbe voler morire?
– E perché dovrebbe voler vivere? Perché dovrebbe sempre voler vivere?
– Perché… ecco, non lo so, ma tutti vogliamo vivere. Siamo vivi perché vogliamo vivere. È una proprietà della sostanza vivente; io voglio vivere, non ho dubbi. La vita è meglio della morte: mi sembra un assioma.
– Non ne hai mai avuti, di dubbi? Sii sincera!
– No, mai –. Anna meditò, poi aggiunse: – Quasi mai.
– Hai detto quasi.
– Sí, lo sai bene. Dopo che è nata Mary. È durato poco, pochi mesi, ma è stato molto brutto: mi sembrava che non ne sarei uscita mai, che sarei rimasta cosí per sempre.
– E cosa pensavi in quei mesi? Come vedevi il mondo?
– Non ricordo piú. Ho fatto di tutto per dimenticarlo.
– Dimenticare che cosa?
– Quel buco. Quel vuoto. Quel sentirsi… inutili, con tutto inutile intorno, annegati in un mare di inutilità. Soli anche in mezzo a una folla: murati vivi in mezzo a tutti murati vivi. Ma smetti, per favore, lasciami stare. Tieniti sulle questioni generali.
– Vediamo… senti, proviamo cosí. La regola è questa, che ognuno di noi uomini, ma anche gli animali, e… sí, anche le piante, tutto ciò che è vivo, lotta per vivere e non sa perché. Il perché sta scritto in ogni cellula, ma in un linguaggio che non sappiamo leggere con la mente: lo leggiamo però con tutto il nostro essere, e obbediamo al messaggio con tutto il nostro comportamento. Ma il messaggio può essere piú o meno imperativo: sopravvivono le specie in cui il messaggio è inciso profondo e chiaro, le altre si estinguono, si sono estinte. Ma anche quelle in cui il messaggio è chiaro possono avere delle lacune. Possono nascere individui senza amore per la vita; altri lo possono perdere, per poco o molto tempo, magari per tutta la vita che gli resta; e finalmente… ecco, forse ci sono: lo possono perdere anche gruppi di individui, epoche, nazioni, famiglie. Sono cose che si sono viste: la storia umana ne è piena.
– Bene. C’è una parvenza d’ordine, adesso: ti ci stai avvicinando. Ma adesso devi spiegarmi, anzi, devi spiegarti, come questo amore può sparire in un gruppo.
– Ci penserò dopo. Adesso volevo ancora dirti che fra chi possiede l’amore di vita e chi lo ha smarrito non esiste un linguaggio comune. Lo stesso evento viene descritto dai due in due modi che non hanno niente in comune: l’uno ne ricava gioia e l’altro tormento, ognuno ne trae conferma per la propria visione del mondo.
– Non possono aver ragione tutti e due.
– No. In generale, tu lo sai, e bisogna avere il coraggio di dirlo, hanno ragione quegli altri.
– I lemming?
– Diciamo pure cosí: chiamiamoli lemming.
– E noi?
– Noi abbiamo torto, e lo sappiamo, ma troviamo piú gradevole tenere gli occhi chiusi. La vita non ha uno scopo; il dolore prevale sempre sulla gioia; siamo tutti dei condannati a morte, a cui il giorno dell’esecuzione non è stato rivelato; siamo condannati ad assistere alla fine dei nostri piú cari; le contropartite ci sono, ma sono scarse. Sappiamo tutto questo, eppure qualcosa ci protegge e ci sorregge e ci allontana dal naufragio. Che cosa è questa protezione? Forse solo l’abitudine: l’abitudine a vivere, che si contrae nascendo.
– Secondo me, la protezione non è la stessa per tutti. C’è chi trova difesa nella religione, chi nell’altruismo, chi nell’ottusità, chi nel vizio, chi riesce a distrarsi senza interruzioni.
– Tutto vero, – disse Walter: – potrei aggiungere che la difesa piú comune, ed anche la meno ignobile, è quella che sfrutta la nostra essenziale ignoranza del domani. E vedi, anche qui c’è simmetria, questa incertezza è quella stessa che rende la vita insopportabile ai… ai lemming. Per tutti gli altri, la volontà di vita è qualcosa di profondo e confuso, qualcosa in noi e insieme accanto a noi, separato dalla coscienza, quasi come un organo che di norma funziona in silenzio, in disciplina, ed allora è ignorato: ma può ammalarsi o atrofizzarsi, essere ferito o amputato. Allora si continua a vivere, ma male, con fatica, con dolore, come chi abbia perduto lo stomaco o un polmone.
– Sí, – disse Anna, – questa è la difesa principale, quella naturale, che ci viene donata insieme con la vita perché la vita ci sia sopportabile. Ma ce ne sono altre, io credo: quelle che ho detto prima.
– Ecco, ci deve essere qualcosa in comune a tutte le difese. Se sapremo rispondere alla domanda che abbiamo lasciata in sospeso, cioè che cosa agisca entro un gruppo, sapremo anche che cosa accomuna le diverse difese. Si possono fare due supposizioni: una è che un «lemming» contagi tutti i suoi vicini; l’altra è che si tratti di una intossicazione o di una carenza.
Nulla è piú vivificante di un’ipotesi. Il Laboratorio della Guardia Forestale fu mobilitato in pochi giorni, e i risultati non tardarono, ma furono per molto tempo negativi. Il sangue dei lemming migranti era identico a quello dei lemming stazionari: cosí pure l’urina, la quantità e la composizione del grasso, tutto. Walter non pensava ad altro e non parlava d’altro. Ne parlava una sera con Bruno, davanti ai bicchieri pieni, ed ebbero l’idea insieme.
– Questo, ad esempio, serve, – disse Bruno. – È vecchia esperienza, esperienza comune.
– È un farmaco molto rudimentale. L’alcool non è innocuo, è di dosaggio difficile, e il suo effetto è molto breve.
– Ma ci si potrebbe lavorare sopra.
Il giorno dopo erano davanti al recinto dei lemming, nel parco dell’Istituto. Avevano dovuto rinforzare la rete dal lato verso il mare, ed approfondirla di due buoni metri sotto il livello del suolo, perché quelle bestiole non avevano pace: erano ormai un centinaio, e per tutto il giorno, e per metà della notte, si accalcavano contro la rete, calpestandosi, cercando di arrampicarsi e di respingersi vicendevolmente indietro; alcuni scavavano cunicoli che fatalmente si arrestavano contro la rete interrata, uscivano strisciando all’indietro, ricominciavano: gli altri tre lati del recinto erano deserti. Walter entrò, ne catturò quattro, legò loro un contrassegno alla zampina, e somministrò loro un grammo d’alcool con una sonda. I quattro, rimessi nel recinto, sostarono per qualche minuto col pelo ispido e le narici dilatate, poi si allontanarono e si misero tranquilli a brucare l’erica: tuttavia, dopo un’ora ad uno ad uno avevano ripreso il loro posto nella mischia degli individui risoluti a migrare verso ponente. Walter e Bruno furono d’accordo nel concludere che non era molto, ma era una traccia.
Dopo un mese, il reparto dei farmacologi era in piena attività. Il tema proposto era semplice e terrificante: individuare o sintetizzare l’ormone che inibisce il vuoto esistenziale. Anna era perplessa, e non lo nascose.
– Se lo troveremo, avremo fatto un bene o un male?
– Un bene per l’individuo, certamente. Un bene per la specie umana, è dubbio, ma è un dubbio sconfinato: si addice a qualsiasi medicamento, non solo a questo. Ogni farmaco, anzi, ogni intervento medico, rende adatto un inadatto: vorresti contestare tutti i farmaci e tutti i dottori? La specie umana ha scelto da secoli questa via, la via della sopravvivenza artificiale, e non mi sembra che ne sia uscita indebolita. L’umanità ha voltato le spalle alla natura, da un pezzo: è fatta di individui, e punta tutto sulla sopravvivenza individuale, sul prolungamento della vita e sulla vittoria contro la morte e il dolore.
– Ma ci sono altri modi di vincere il dolore, questo dolore: altre battaglie, che ognuno è tenuto a combattere coi propri mezzi, senza l’aiuto esterno. Chi le vince, si dimostra forte, e cosí facendo diventa forte, si arricchisce e si migliora.
– E chi non le vince? Chi cede, di schianto o a poco a poco? Cosa dirai tu, cosa dirò io, se ci troveremo anche noi a… camminare verso ponente? Saremo capaci di rallegrarci in nome della specie, e di quegli altri che trovano in sé la forza di invertire il cammino?
Passarono altri sei mesi, e per Anna e Walter furono mesi singolari. Risalirono il Rio delle Amazzoni con un battello di linea, poi con un battello piú piccolo il Rio Cinto, e infine in piroga un affluente senza nome: la guida che li accompagnava aveva loro promesso un viaggio di quattro giorni, ma solo al settimo superarono le rapide di Sacayo e giunsero in vista del villaggio. Distinsero di lontano i contrafforti cadenti della fortezza spagnola, e non commentarono, perché non ce n’era bisogno e non era nuovo per loro, un altro elemento del paesaggio: un fitto intrecciarsi nel cielo di voli di rapaci, che sembrava avere centro proprio sopra la fortezza.
Il villaggio di Arunde ospitava gli ultimi resti della tribú degli Arunde: ne avevano appreso l’esistenza casualmente, da un articolo comparso su una rivista di antropologia. Gli Arunde, un tempo estesi su di un territorio vasto quanto il Belgio, si erano ristretti entro confini sempre piú angusti perché il loro numero era in continuo declino. Questo non era effetto di malattie, né di guerre con le tribú confinanti, e neppure di alimentazione insufficiente, ma soltanto del tasso enorme di suicidi: non altro era stato il motivo per cui Walter si era deciso a chiedere il finanziamento per la spedizione.
Furono ricevuti dal decano del villaggio, che aveva solo trentanove anni e parlava correttamente lo spagnolo. Walter, che odiava i preamboli, entrò subito nel vivo dell’argomento: si attendeva dall’altro ritegno, pudore, forse sospetto o freddezza davanti alla curiosità impietosa di uno straniero, e si trovò invece davanti ad un uomo sereno, cosciente e maturo, come se a quel colloquio si fosse preparato per anni, forse per l’intera sua vita.
Il decano gli confermò che gli Arunde, da sempre, erano privi di convinzioni metafisiche: soli fra tutti i loro vicini, non avevano chiese né sacerdoti né stregoni, e non attendevano soccorso dal cielo né dalla terra né dai luoghi inferi. Non credevano in premi né in punizioni. La loro terra non era povera, disponevano di leggi giuste, di una amministrazione umana e spedita; non conoscevano la fame né la discordia, possedevano una cultura popolare ricca ed originale, e si rallegravano spesso in feste e banchetti. Interrogato da Walter sul costante declino numerico della popolazione, il decano rispose di essere consapevole della fondamentale differenza fra le loro credenze e quelle degli altri popoli, vicini e lontani, di cui era venuto a conoscenza.
Gli Arunde, disse, attribuivano poco valore alla sopravvivenza individuale, e nessuno a quella nazionale. Ognuno di loro veniva educato, fin dall’infanzia, a stimare la vita esclusivamente in termini di piacere e dolore, valutandosi nel computo, naturalmente, anche i piaceri e i dolori provocati nel prossimo dal comportamento di ognuno. Quando, a giudizio di ogni singolo, il bilancio tendeva a diventare stabilmente negativo, quando cioè il cittadino riteneva di patire e produrre piú dolori che gioie, veniva invitato ad un’aperta discussione davanti al concilio degli anziani, e se il suo giudizio trovava conferma, la conclusione veniva incoraggiata ed agevolata. Dopo il congedo, egli veniva condotto alla zona dei campi di ktan: il ktan è un cereale molto diffuso nel paese, ed il suo seme, vagliato e macinato, si impiega nella fabbricazione di una sorta di focacce. Se non è vagliato, lo accompagna il seme assai minuto di una graminacea infestante, che possiede azione stupefacente e tossica.
L’uomo viene affidato ai coltivatori di ktan: si nutre con focacce confezionate con seme non vagliato, ed in pochi giorni, o in poche settimane, a sua scelta, raggiunge una condizione di gradevole stupore, a cui fa seguito il riposo de...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. di Niccolò Scaffai
  4. Racconti del pianeta Terra
  5. Futuri anteriori. La scoperta delle origini
  6. Gli animali ci riguardano. Empatia e straniamento
  7. Il senso della fine. Apocalissi, estinzioni, distopie
  8. L’inaudito in primo piano. Letteratura e crisi climatica
  9. Nota bibliografica
  10. Crediti bibliografici
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Copyright