I.
Inconfessabili attrazioni:
voci da Venezia
In passato, come oggi, la forza che più intensamente è riuscita ad attrarre o dividere persone appartenenti a fazioni, religioni, lingue e culture diverse è stata l’amore.
La seduzione inestinguibile esercitata sui lettori dalle vicende dei giovani amanti Romeo e Giulietta, tragicamente osteggiati dalle rispettive famiglie divise da secoli di faide, è legata al fascino che fin dall’antichità ha esercitato l’archetipo dell’amore contrastato ma tenace, in spregio delle convenzioni e delle differenze; fino alla morte. William Shakespeare, ambientando la sua tragedia nella Verona medievale, la rese una vicenda tipicamente italiana. Il dramma amoroso si svolge infatti nel cuore della società comunale: in quell’Italia del Centro e del Nord che aveva visto le casate nobiliari di origine feudale lasciare i castelli aviti e trasferirsi nelle città, abitando nuovi e sfarzosi palazzi da cui gestivano interessi politici e immensi possedimenti fondiari rimasti fuori dalle mura urbane.
La storia di quell’amore contrastato fu del resto originariamente scritta proprio da letterati italiani che, ancora nel Rinascimento, assistevano a sanguinosi scontri di potere e dilanianti lotte intestine fra dinastie, consorterie e fazioni. Ne parlarono la novella di Masuccio Salernitano sugli sfortunati amanti senesi Mariotto e Ganozza e, più tardi, l’Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti del veneto Luigi da Porto: colui che (scrivendo negli anni trenta del Cinquecento) per primo trasportò l’azione a Verona. L’ambientazione non era scelta a caso: nel Medioevo la città sull’Adige aveva visto faide e crudeli vendette assieme all’ascesa di Ezzelino da Romano e poi della potente dinastia degli Scaligeri, signori inflessibili ma anche protettori di Dante e di raffinati intellettuali ebrei e musulmani. Una Comunità ebraica organizzata vi era presente almeno dal XII secolo, esprimendo personalità di prestigio come il filosofo e astronomo Abraham Ibn Ezra, il rabbino Eleazar da Verona e il celebre poeta e biblista Immanuel da Roma, quel «Manoello Giudeo» amico di Cino da Pistoia e presente nel primo Trecento – mentre vi soggiornava Dante – alla corte di Cangrande della Scala. Conquistata dalle truppe veneziane nel 1405, la città e il suo territorio in epoca moderna divennero baluardo strategico per il mantenimento del potere della Serenissima sulla Terraferma e nell’intera penisola italiana1.
Shakespeare scrisse la Tragedie of Romeo and Juliet quando non era nemmeno trentenne, nella prima metà degli anni novanta del Cinquecento. L’ambientazione rimase italiana e veneta, come per altri celeberrimi drammi del bardo tra cui quel Mercante di Venezia che, negli stessi anni, portò in scena un’altra figura per molti aspetti archetipica: quella del prestatore ebreo Shylock. Quale scenario più della Serenissima poteva far volare la fantasia del pubblico inglese verso un mondo esotico e turbolento, raffinato e libero, in cui immaginare collocate storie di amori contrastati, mercanti e marinai, ebrei e traffici commerciali, potere e spregio delle convenzioni?
Nell’Europa dell’epoca la posizione geografica, la struttura politica, la fisionomia sociale di Venezia e del suo Stato erano pressoché uniche. Frontiera fra Oriente e Occidente, Islam e cristianità, la città lagunare e i territori a essa sottoposti tra Mediterraneo e Alpi brulicavano di mercati di lana, cotone, seta, zucchero, grano, pellami, vini, denaro e soprattutto spezie – i tre quarti di quelle consumate in Europa a inizio Cinquecento – che giungevano fin dall’Oceano Indiano. Inimitabili erano la maestosità e la galanteria sensuale della vita nei palazzi sul Canal Grande, l’inesauribile socialità delle corti nobiliari, dei salotti e dei circoli, l’arte raffinatissima e conturbante, l’acume intellettuale dei librai e degli stampatori, i folli Carnevali. L’effervescente atmosfera culturale favoriva la contaminazione intellettuale e l’attrazione reciproca di esponenti di fedi, lingue e ceti sociali differenti. Venezia fu, per esempio, la sola città in Occidente che in questi secoli, a partire dal 1621, ospitò con continuità una moschea, posta nel Fondaco dei Turchi per l’uso dei mercanti ottomani2.
La città lagunare fu anche la prima della penisola a istituire, nel 1516, un ghetto. Unico precedente continentale era in quel momento la Judengasse di Francoforte creata nel 1462, un esperimento consistente in una sola strada collocata fuori dalle mura della città medievale. Per complessità e articolazione territoriale, il claustro ebraico veneziano fu dunque il primo al mondo. Area di emarginazione e di segregazione degli ebrei, riservata a essi soltanto, obbligatoria per legge e prevista come permanente, fu delimitata da una muraglia fisica in cui si aprivano degli ingressi sorvegliati nelle ore diurne e bloccati in quelle notturne3. Lo storico Michele Luzzati ha parlato di «paradosso del ghetto» per descrivere la nascita a Venezia (e la successiva diffusione in tante altre città italiane dei secoli successivi) del modello di un vero e proprio quartiere ebraico separato. Confinando gli ebrei in un’unica area separata e, intanto, per la prima volta autorizzandone la presenza formale e stabile nella Serenissima, il ghetto era un’area che discriminava – la sua istituzione fu decisa dalla maggioranza –, ma al contempo difendeva chi la abitava, garantendone la presenza ininterrotta fino alla fine dell’antico regime, convenzionalmente fissata nella Rivoluzione francese (1789), e oltre.
Concentrando gli individui, il ghetto – ogni ghetto – crea significati. Fa nascere nuove culture, riforma istituzioni politiche, circuiti economici e pratiche sociali, riorganizza la vita di ogni giorno: al suo interno, al suo esterno, a cavallo fra di essi.
1. Romeo e Giulietta in ghetto
Proprio negli anni in cui il giovane Shakespeare iniziava a comporre i suoi drammi, e la storia di Romeo e Giulietta assurgeva a popolarità europea, all’interno del claustro ebraico di Venezia si svolse la vicenda d’amore fra il giovane marinaio Giorgio detto il Moretto, cristiano, e l’ebrea Rachel. I documenti degli archivi veneziani che tramandano la loro storia – vissuta alla luce del giorno, sotto gli occhi di tutti – possono essere un buon punto di partenza per addentrarci nella vita quotidiana del ghetto veneziano, iniziando nel contempo a chiederci per quale ragione fossero stati chiusi i suoi cancelli.
Il medico ebreo David disse di aver visto Giorgio «che è christiano [...] prattica[re] spesso in ghetto, va su et giù tutto ’l dì et de la via. [...] Il vulgo in ghetto dice, che è inamorato, che fa l’amor con una hebrea»4. Altri, come l’ebreo Iacob figlio di David, abitante nel Ghetto «Vecchio» (non dunque quello «Nuovo» costruito nel 1516, ma un suo allargamento successivo) vedevano di quella relazione gli aspetti più materiali, ma non per questo ne sminuivano l’importanza: «Questo Iorgi prattica dì et notte per ghetto», dichiarò Iacob nell’aprile del 1589, «et si dice che fa l’amor con una giovane figliola de Isaac Sordo hebrea. [...] Lo so, perché detto Giorgi me l’ha detto delle volte assae et che fa l’amor con essa et che se la potesse menar via, la menarave». Il correligionario Benedetto, che viveva invece proprio nel Ghetto «Nuovo», aveva sentito dire che il giovane marinaio era davvero «inamorato» della figlia del cuoco Isaac. Cosa di cui lo stesso Giorgio non faceva mistero, avendo spiattellato davanti a molti – come aveva fatto anche con Sansone, il macellaio nel Ghetto «Vecchio» – che voleva «veder de menar via questa fia, quando non possa, per haverla, se vuol far hebreo, et questo l’ho inteso de bocca sua più volte»5.
L’amore fra Rachel e Giorgio era tanto incontenibile da sfidare le convenzioni sociali e la legge della Chiesa romana, applicata (fra l’altro) dal temibile tribunale dell’Inquisizione. Papa Paolo IV aveva emanato nel 1555 la durissima bolla Cum nimis absurdum che, oltre a ribadire le proibizioni medievali che miravano a ridurre al minimo i contatti fisici tra ebrei e cristiani, ne aveva aggiunte delle nuove. Era confermato l’obbligo per gli ebrei di indossare un segno distintivo: una berretta o un velo, un indumento, un cerchio o una stella di colore giallo. Era fatto divieto agli ebrei di assumere nutrici o domestici cristiani, di intrattenere con i non ebrei rapporti di amicizia o conversazione. Era vietato agli ebrei attribuirsi il titolo di messere, lavorare in pubblico la domenica o in altri giorni festivi per i cristiani, curare pazienti non ebrei, trattare merci che non fossero usate, tenere libri contabili in lingua o caratteri ebraici, applicare sui prestiti un tasso d’interesse superiore al 12%6.
Soprattutto, la Cum nimis absurdum aveva introdotto l’obbligo anche per gli ebrei residenti nello Stato della Chiesa di trasferirsi in ghetti da costruirsi sia nelle città sia nei centri minori. L’esperienza veneziana del ghetto del 1516 – pure nata su presupposti diversi rispetto a quelli romani, che miravano anzitutto alla conversione religiosa degli ebrei al cattolicesimo – aveva dunque costituito un importante precedente, che sarà imitato in quasi tutti gli Stati italiani tra Sei e Settecento. Fino alla Rivoluzione francese: quando l’arrivo delle truppe napoleoniche nella penisola italiana sancì, anche in tale aspetto fondamentale dell’organizzazione sociale e della struttura urbana di tanti grandi e piccoli centri abitati, la fine dell’antico regime. La Restaurazione implicò il ritorno per alcuni decenni degli ebrei d’Italia nei ghetti in diverse località. A Roma solo dopo la breccia di Porta Pia, nel 1870, si assisté alla caduta definitiva dei cancelli di quello che era rimasto l’ultimo ghetto d’Europa.
Il legame d’amore esibito senza vergogna da Giorgio e Rachel poteva dunque, alla fine del Cinquecento e nel cuore di un’avanzante Controriforma, avere conseguenze molto pericolose. Infatti, la sua esistenza fu segnalata all’Inquisizione di Venezia attraverso una velenosa lettera anonima datata 6 aprile 1589, che denunciava «la pesima via che tiene al continuo Iorgi dito Moreto solito mariner, contra il timor di li vostri ordini santi [... e] di la iusticia dil grande Idio», aggiungendo che il giovane «spreciando li santi ordeni di la santa madre Gesia continuamente mangia con li Ebrei et conversa con loro da ogni tempo dil ano», incontrando «una ebrea fiola de Isach dito il Sordo et perché suo padre di Esdra ebreo et li suoi parenti et altro l’ano represo, siano manaciati di darli [abbiamo minacciato di picchiarlo] et auto [ha avuto] a dir che la vol a tute forze si ’l credese a farsi ebreo»7.
Anche la famiglia di Rachel avversava la relazione: un ostacolo, questo, per sormontare il quale il giovane aveva addirittura pensato (e detto a diverse persone anche in ghetto, come riporta l’ebreo Benedetto) di convertirsi all’ebraismo per ottenere la sua amata «a tute forze». La contrarietà dei parenti della fanciulla a un rapporto amoroso con un cristiano – peraltro marinaio – era evidente allo stesso Gio...