L'incredibile viaggio delle piante
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L'incredibile viaggio delle piante

Stefano Mancuso

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  1. 144 pagine
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L'incredibile viaggio delle piante

Stefano Mancuso

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Come le piante navigano intorno al mondo, come portano la vita su isole sterili, come sono state in grado di crescere in luoghi inaccessibili e inospitali, come riescono a viaggiare attraverso il tempo, come convincono gli animali a farsi trasportare ovunque. Sono solo alcune delle incredibili cose raccontate nelle storie che troverete in questo libro. Storie di pionieri, fuggitivi, reduci, combattenti, eremiti, signori del tempo.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858135099

01
Pionieri,
reduci e combattenti

specie tipo Salice piangente dominio Eukaryota regno Plantae
divisione Magnoliophyta classe Magnoliopsida ordine Salicales
famiglia Salicaceae genere Salix specie Salix babilonica
origine Cina diffusione Mondiale
prima apparizione in Europa xvii secolo
A me la parola “pioniere” evoca l’epopea del West e gli avventurosi scenari dell’Ovest americano. Credo sia così per molti. Qualcuno pronuncia la parola pioniere ed è come se un interruttore si accendesse nella mia memoria, richiamando le facce di Gregory Peck, John Wayne, James Stewart, Eli Wallach, Richard Widmark, Lee Van Cleef, Henry Fonda, Debbie Reynolds e ovviamente Karl Malden, con il naso grosso e sfasciato, dell’incredibile cast di La conquista del West. Per me, pioniere vuol dire racconti di Salgari e film western, nient’altro. Ad altri, non molti, ricorderà la specialità dell’esercito che fin dall’antichità si è occupata di aprire le strade e preparare il passaggio per le truppe, ma soltanto pochissimi, forse nessuno, associeranno la parola pioniere alle piante.
È una grossa ingiustizia. Le piante dovrebbero essere la prima cosa che viene in mente quando si parla di pionieri, non le star hollywoodiane dei film western o il genio militare. Con buona pace degli eroi della nostra giovinezza, nessun altro gruppo di organismi è paragonabile alle piante in termini di abilità colonizzatrici. Ancora di più se nel termine pioniere includiamo l’accezione di organismi in grado di preparare la strada alla successiva colonizzazione di altri esseri viventi: in questo senso le piante dovrebbero essere considerate gli organismi pionieri per eccellenza. Non esiste ambiente terrestre in cui i vegetali (intesi ora nel senso più ampio di organismi capaci di operare la fotosintesi) non siano in grado di attecchire, portando la vita. Dai ghiacci delle regioni polari ai più infuocati deserti, dagli oceani alle vette più alte, i vegetali hanno conquistato tutto, e continuano a farlo ogniqualvolta ce ne sia l’occasione.
Sono sicuro che a molti di noi è capitato di osservare – mi auguro con meraviglia – la capacità che le piante hanno di ricoprire in breve tempo ogni tipo di terreno, conquistando nuovi territori o, più spesso, riconquistandoli alla natura, lente ma inarrestabili. Anni fa, non lontano dal mio laboratorio presso il polo scientifico dell’università di Firenze, un ex deposito dell’esercito fu bruscamente evacuato, nell’ambito di una delle ricorrenti riorganizzazioni delle nostre forze armate, e da un giorno all’altro abbandonato a sé stesso. La vicinanza di questa area al mio laboratorio ed il fatto che per tanti anni l’avessi studiata e osservata con concupiscenza, pensando che sarebbe potuta diventare una magnifica struttura dove studiare e sperimentare metodi innovativi di agricoltura urbana, mi hanno permesso di seguire con attenzione e in dettaglio l’avanzata delle piante. Per una volta, con rammarico (a lungo ho continuato a sperare che alla fine avrei potuto davvero farne un laboratorio), ho potuto vedere la velocità, l’efficienza e in un certo senso le strategie che hanno riportato le piante a rivendicarne la proprietà. Due anni dopo l’abbandono, l’intera cinta muraria della caserma era ricoperta da oltre venti specie diverse: fra queste, capperi (Capparis spinosa), bocche di leone (Antirrhinum majus), molte parietarie (Parietaria judaica), alcune piccole felci (Asplenium ruta-muraria)1. Insomma, un piccolo orto botanico in esposizione verticale, con tante storie da raccontare.
Intanto, alla giunzione fra la base delle mura e la strada, fin dai primi mesi, una ricca vegetazione arborea si faceva poderosamente strada. Piante di ailanto (Ailanthus altissima) e paulonia (Paulownia tomentosa) – quest’ultime sicuramente provenienti dai semi di una paulonia piantata da me anni addietro e a cui sono molto affezionato, che domina l’intera area intorno al mio laboratorio – spuntarono per ogni dove, diventando in breve alberi poderosi e abbattendo porzioni significative della cinta perimetrale. Un fico (Ficus carica), germinato in una fessura nell’asfalto della strada, è ora un magnifico albero che copre con la sua superficie una garitta ricavata nello spessore delle mura. E poi è ovviamente arrivato il convolvolo (Convolvulus arvensis) a coprire un po’ tutto e la bardana maggiore (Arctium lappa), una autostoppista inarrestabile. Oggi, a quindici anni dall’abbandono del deposito militare, poche strutture resistono ancora all’assalto delle piante: un edificio di cemento armato, un piazzale apparentemente in grado di respingerne gli attacchi e, infine, un’enorme cisterna di metallo che, dopo essersi per anni tenacemente opposta alla conquista, ultimamente ha iniziato a mostrare le prime avvisaglie di una sua prossima resa. In poco tempo, le piante sono riuscite nell’intento di riconquistare un’area che sembrava impermeabile alla vita. Un successo notevole, ma nulla se lo si paragona alle grandi epopee di conquista di cui sono state protagoniste.

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I pionieri dell’isola di Surtsey

Intorno all’inizio del mese di novembre del 1963, un centinaio di chilometri a sud dell’Islanda e a 130 metri di profondità nell’Oceano Atlantico settentrionale, un’eruzione iniziò a liberare magma incandescente sul fondo marino. A quelle profondità, la densità e la pressione dovuta alla colonna d’acqua impediscono che le emissioni vulcaniche o una qualunque esplosione possano manifestarsi. Col passare dei giorni e con l’accumulo dei materiali che innalzarono il livello del fondo dell’oceano, le attività vulcaniche si resero più evidenti. Dal 6 all’8 di novembre la stazione di rilevamento sismico di Kirkjubæjarklaustur, in Islanda (dove altro, con quel nome), individuò una serie di deboli tremori provenienti da un epicentro ad una distanza di 140 km a sud-est di Reykjavík. Il 12 novembre gli abitanti della città costiera di Vík furono disturbati durante tutta la giornata da un forte odore di acido solfidrico. Il 13 novembre un peschereccio in cerca di aringhe, dotato di una buona strumentazione, misurò nei pressi del punto di eruzione sottomarina una temperatura del mare più alta di circa 2,4°C.
Alle 7:15 utc del 14 novembre 1963 i marinai della Ísleifur ii, in navigazione in quelle stesse acque, allertati dal cuoco che aveva avvistato una colonna di fumo proveniente da una zona imprecisata in mezzo al mare e avvicinatisi per prestare soccorso a quella che credevano fosse una nave in difficoltà, furono i primi testimoni oculari delle eruzioni esplosive2. Alle 11:00 dello stesso giorno la colonna di fumo e cenere aveva raggiunto diversi chilometri di altezza e tre bocche eruttive separate erano emerse dall’acqua. Nel pomeriggio le tre bocche si erano fuse in un’unica fessura eruttiva. Ancora pochi giorni e a 63.303 °N 20.605 °W una nuova isola, lunga più di 500 metri e con un’altezza di 45 metri, si era aggiunta alle altre dell’arcipelago delle Vestmannaeyjar3. All’isola venne dato il nome di Surtsey, da Surtr, il gigante del fuoco della mitologia scandinava, che un giorno ritornerà sulla terra per incendiarla con la sua spada di fiamma. Le eruzioni continuarono fino al 5 giugno del 1967. A quella data l’isola raggiunse la sua massima estensione, pari a circa 2,7 km2. Da allora, l’erosione marina ne ha costantemente diminuito la superficie, che nel 2012 era già ridotta a un po’ meno della metà (1,3 km2).
Il destino di Surtsey sembra segnato. L’erosione la consumerà gradatamente e nel giro di circa un secolo l’isola svanirà nelle acque da cui era nata. Una vita breve, ma sufficiente a far sì che rimanga per sempre nella storia della scienza. Grazie a questo raro laboratorio naturale, infatti, per la prima volta è stato possibile studiare, su una scala relativamente ridotta, e utilizzando le tecniche e gli strumenti della ricerca moderna, tutti gli elementi che da un substrato sterile ed inerte portano alla formazione di un ecosistema completo. Da quando la lava emerse dall’acqua e ci si rese conto che l’isola non sarebbe stata un fenomeno effimero come era già successo in altre occasioni4, la comunità scientifica iniziò ad attrezzarsi per potervi seguire l’attecchimento e lo sviluppo della vita. Nel 1965, quando ancora la fase eruttiva era in pieno svolgimento, Surtsey fu dichiarata riserva naturale per ragioni scientifiche e a nessuno, tranne che a pochissimi scienziati, fu reso possibile l’accesso. Cenere, pomice, sabbia e lava aspettavano di essere invase dalla vita.
Non ci volle molto tempo. Le piante arrivarono subito, già nella primavera successiva ...

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