NUOVI
MONDI
«Terra ca nun teni cu voli partiri e nenti cci duni pi falli turnari» è una delle più celebri strofe di Rosa Balistreri, che ha raccontato la Sicilia delle navi in partenza, dei porti dei migranti e dei mancati ritorni in Terra ca nun senti, nenia e anatema in un tempo, come molte dichiarazioni d’amore. La Sicilia del XIX, del XX e del XXI secolo, madre e matrigna, è la terra che spalanca la via del mare a una popolazione curiosa, figlia fedele a un’età della globalizzazione che spezza confini sempre più deboli, che sogna il riscatto, non lo attende e lo afferra persino dall’altra parte del mondo, forte della capacità poietica delle sue contraddizioni.
È la Sicilia dell’Osso e della Polpa, rigogliosa dei giardini di aranci e limoni, che su transatlantici trasporta nei circuiti dell’economia mondiale i profumi inimitabili dei propri prodotti; l’isola di imprenditori e innovatori, di avanguardisti e contaminatori, che sulle tradizioni locali innestano le novità della tecnologia più moderna. La terra del vino e del petrolio, della musica popolare e del jazz americano, dell’agricoltura e dell’alta tecnologia microelettronica, immortalata nel realismo cinematografico della seconda metà del Novecento e ricostruita nell’immaginifica Vigàta, frutto della fantasia di Andrea Camilleri e già patrimonio dell’umanità.
È la Sicilia sognata e raccontata, su pellicola o su carta. Quella cercata, amata e ricordata da intellettuali e artisti da tutto il mondo nei cafés della Belle époque, tra i ruderi antichi o nei salotti di donne colte e moderne, protagoniste di un universo femminile che rifiuta con orgoglio i confini tra pubblico e privato imposti dai clichés. È la terra di ragazze coraggiose, novelle Antigoni, capaci di strappare l’isola e il paese intero a leggi ingiuste e pratiche arcaiche e di rifiutare a gran voce codici e comportamenti mafiosi.
È la Sicilia della malarazza che si lamenta, ma stringe i denti, l’isola fragile e forte, travolta da catastrofi naturali e umane tragedie. Una terra prostrata, elevata ad esempio mondiale di coraggio e risolutezza per la sua voglia di alzarsi e lottare, una regione che sta a cuore al mondo e si sbarazza delle macerie dei terremoti grazie alla solidarietà internazionale, che produce la ‘piovra’ mafiosa e la esporta, trovando e condividendo però gli strumenti per combatterla.
È la Sicilia sempre accogliente, mentre intorno soffiano i più terribili venti di guerra. L’isola che scopre l’Italia nei cenci dei rifugiati dal fronte del Nord, il mondo nelle catene dei prigionieri stranieri e trova un alleato nel nemico che viene dalla Merica. Una terra che combatte per la pace, si riconosce nelle lotte internazionali per il disarmo e che nei conflitti del proprio passato riscopre l’importanza della diversità e dell’inclusione attraverso il buon governo.
È la Sicilia della grande bellezza, terra di artisti e mecenati che ama le contaminazioni e le rincorre in giro per il mondo, dando spazio espressivo a linguaggi sconosciuti e rielaborandoli con curiosità creativa. Ma è anche l’isola ingrata e ingorda, pronta a deturpare il suo volto, se il profitto lo chiede, che tollera abusi e presta le proprie ricchezze naturali alla corrosione di cemento e ciminiere. È la Sicilia avida di crescita e spazi, così lontana dallo stereotipo dell’isola chiusa e fatalista. È la terra mobile, che cambia e si trasforma rapida, cavalcando le onde della storia mondiale e della grande globalizzazione contemporanea.
1870
TERRA DI GIARDINI
Sulla spinta di una crescente domanda internazionale
e della rivoluzione dei consumi alimentari, le profumate
e saporite ‘sfere d’oro’ sono state le protagoniste
di una rete di relazioni che hanno collegato l’agricoltura arborea della Sicilia al grande circuito dell’economia mondiale e alle sue sfide globali.
Gli agrumi sono originari dell’Asia, l’arancio dolce e amaro veniva coltivato nella Cina meridionale ben prima del 1000 a.C., mentre il cedro e il limone erano conosciuti nel VII secolo a.C. in Iraq, per poi passare in Grecia e diffondersi nel bacino del Mare nostrum nel I secolo d.C., quando gli ebrei ne avrebbero fatto largo commercio. In età romana arance e limoni come piante da ‘giardino’ ornavano le ville patrizie in Calabria e in Sicilia, come attestano i mosaici della villa del Casale di Piazza Armerina (Enna) del IV secolo d.C., finché l’invasione araba dell’isola ne ampliò la superficie coltivata attraverso nuove tecniche di irrigazione.
Nei viridiara dell’età moderna, tuttavia, gli agrumi venivano piantati promiscuamente con altri alberi da frutta e con gli ortaggi, e ben difficilmente sarebbero nati i più vasti e razionali limoneti ed aranceti senza lo stimolo della domanda internazionale di paesi economicamente più avanzati, con livelli alti di consumo e con gusti alimentari più raffinati. La principale spinta in tal senso può collocarsi pertanto all’inizio del XIX secolo, in coincidenza col blocco continentale e con l’occupazione inglese della Sicilia, anche in relazione all’approvvigionamento della Royal Navy e delle truppe britanniche stanziate nell’isola. Se ancora nel 1776 erano partite appena 38.500 casse di agrumi dal porto di Palermo per l’Inghilterra, nel 1839 le spedizioni raggiunsero ben 373.600 casse, in buona parte destinate negli Stati Uniti grazie alla conservabilità del frutto fresco anche per lontani viaggi transoceanici.
Dagli anni Trenta del XIX secolo gli agrumi, insieme al vino e allo zolfo, rappresentarono le voci più attive e dinamiche dell’export isolano, così come in età moderna lo erano stati il grano e la seta. La superfice coltivata, che a metà dell’Ottocento si stimava in 8.000 ettari, aumentò progressivamente ai 26.000 degli anni Ottanta, ai 35.000 del 1914 e ai 53.000 del 1929, mentre la produzione toccò i 2 milioni di quintali nel 1879-80, i 3 milioni alla fine del secolo e addirittura i 5 milioni in età giolittiana e fino alla vigilia della ‘grande crisi’. Arance e limoni, sistemati con cura in cassette di imballaggio finemente decorate, alimentarono un flusso crescente di esportazione, cosicché dal terzo posto del 1840 gli agrumi avevano conquistato il primato merceologico nella bilancia commerciale regionale, fino a rappresentare negli anni Venti del Novecento oltre la metà del valore dell’export siciliano. Del tutto marginale, infatti, è stato in questo ciclo secolare il ruolo del mercato nazionale, che dall’Unità al 1929 ha assorbito non più del 15-20% della produzione limonicola e del 25-30% di quella arancicola. A differenza del basso livello dei consumi della popolazione italiana, una più ricca e sostenuta domanda internazionale alimentò la penetrazione nei mercati dei paesi industrializzati. Non a caso, l’export agrumario dal 1872 al 1912 balzò da 723.000 a 3.655.000 quintali; in particolare, gli Stati Uniti raddoppiarono l’importazione da 364.000 a 764.000 quintali, l’Inghilterra triplicò da 176.000 a 514.000, la Russia sestuplicò da 50.000 a 320.000. Soprattutto con l’ingresso dell’Italia nella Triplice alleanza (1882) si spalancarono le porte del mercato mitteleuropeo: nello stesso arco temporale, la Germania passò da 7.000 quintali a 584.000, l’Austria-Ungheria e i paesi danubiani da 98.000 a 1.072.000, così come pure altri Stati europei (con l’esclusione della Francia) registrarono il considerevole incremento da 27.000 a 402.000 quintali.
Rispetto al topos tradizionale del latifondo come simbolo di arretratezza economica e sociale, i lussureggianti giardini costieri proiettano già nel corso dell’Ottocento l’immagine di una Sicilia felix, di un’agricoltura intensiva e condotta con criteri capitalistici come alternativa alla miseria contadina del feudo.
La dimensione-mondo dell’economia modificò così incessantemente l’habitat geografico e le vocazioni produttive del territorio. Pur condizionata dalla scarsità delle risorse idriche della regione e dalle ricorrenti epidemie del malsecco e della gommosi, dopo l’Unità la coltura agrumaria registrò una marcata dialettica zonale tra l’area del limone e quella dell’arancio. La prima si estendeva soprattutto sul versante tirrenico delle province di Palermo e Messina: a differenza degli aranceti che dovevano competere con la concorrenza spagnola, i limoneti godevano di un prolungato monopolio sui mercati europei, e tolleravano una cospicua produzione di frutti di scarto che alimentò l’industria del citrato di calcio e degli altri derivati agrumari. La seconda si espandeva prevalentemente nella direttrice sud-orientale, alla base del massiccio vulcanico dell’Etna e lungo il perimetro della Piana di Catania (Paternò, Biancavilla, Acireale) fino alle enclaves aretusee di Lentini, Francofonte, Scordia; diversamente dal limone, l’agrume rosso poté essere coltivato a una maggiore altitudine perché più resistente alle variazioni climatiche. A una siffatta specializzazione territoriale corrispose la crescente divaricazione tra settori marginali e ad alta redditività. Nelle zone limonicole più antiche della Conca d’Oro la frammentazione aziendale, l’irrazionalità delle utenze irrigue, l’intermediazione parassitaria delle cosche mafiose richiesero la competitività e la spinta alle innovazioni, laddove le varietà più recenti dell’arancio (tarocco, sanguinella) si addensarono sull’asse Paternò-Lentini che in età giolittiana diventò la struttura portante del capitalismo agrumicolo.
I ‘giardini’ siciliani smentivano la presunta dicotomia tra città e campagna: alla fine dell’Ottocento essi si qualificarono come tipico paesaggio suburbano, caratterizzato dall’agricoltura intensiva arborea delle fasce censite che fanno corona ai centri costieri. L’interscambio mercantile tra aree rurali e urbane si andò intensificando per la miriade di attività artigianali e commerciali che proliferavano a ridosso della coltura agrumaria: fabbriche di essenze di citrato, ditte per la costruzione di cassette d’imballaggio, stabilimenti di concimi chimici, agenzie di esportazione, magazzini presso i porti e le stazioni ferroviarie costituivano un vasto reticolo di servizi a ridosso di una campagna ormai ‘urbanizzata’ dalla estensione delle linee elettriche, dalle nuove infrastrutture viarie, dall’impiego di elettropompe e di antiparassitari. Nell’agrotown agrumaria vivevano i braccianti e gli operai specializzati nelle abilità dell’innesto, potatura, irrigazione, anche se al tempo del raccolto si mobilitavano correnti migratorie di manodopera dalle zone montuose e interne verso la marina.
Furono soprattutto Messina e Palermo le città portuali che concentrarono le attività di confezionamento e spedizione del frutto fresco, come pure la lavorazione della produzione limonicola di scarto per l’estrazione del citrato di calcio e (in età giolittiana) dell’acido citrico. La principale differenza tra il porto messinese e quello palermitano riguardò soprattutto la pluralità degli sbocchi esteri assicurati dal primo (Europa centro-settentrionale, Inghilterra e Russia), mentre la capitale dell’isola strinse nel tempo legami preferenziali col mercato nordamericano. Fino al disastroso terremoto del 1908 la città peloritana rappresentò la principale piazza commerciale agrumicola del Mediterraneo, fin quando tra le due guerre mondiali questo primato non le fu strappato dall’ascesa mercantile di Catania, dove si trasferirono le principali ditte di esportazione locali ed estere. Fino alla ‘grande crisi’ del 1929 il monopolio commerciale degli agrumi rimase appannaggio a Palermo della società statunitense Gardner e Rose, insieme ai banchieri-esportatori Jung (Guido Jung ricoprì la carica di ministro delle Finanze negli anni Trenta), laddove a Messina si affermarono gli inglesi Oates e Sanderson e il danese Carlo Sarauw, titolare della ditta Baller. Anche le maggiori fabbriche di citrato di calcio e d...