Il cattivo tedesco e il bravo italiano
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Il cattivo tedesco e il bravo italiano

La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale

  1. 308 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il cattivo tedesco e il bravo italiano

La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale

Informazioni su questo libro

'Il cattivo tedesco e il bravo italiano' è uno stereotipo da rivedere che ha consentito di evitare molti conti con la nostra cattiva coscienza. Corrado Augias, "la Repubblica"

L'umanità dei nostri connazionali – benché fascisti – e la bruta violenza degli scherani di Hitler: assoluzione da un lato, demonizzazione dall'altro. Un mito autogratificante che è servito a rimuovere i crimini dell'imperialismo fascista, la guerra di aggressione contro le 'potenze democratiche', la persecuzione antisemita, le violenze commesse ai danni di 'nazioni inermi' sottomesse all'Asse. Nello Ajello, "la Repubblica"

La mancata Norimberga italiana avrebbe alimentato e consolidato l'oblio collettivo. La Resistenza e la sua narrazione divennero invece il luogo del riscatto e del riconoscimento della diversità tra italiani e tedeschi. Focardi sintetizza un'intensa stagione di riflessioni su un tema ineludibile. Bruno Maida, "L'Indice"

Con grande finezza interpretativa Focardi restituisce spessore ai fatti confrontandosi con le diverse narrazioni – la storiografia, la letteratura, il cinema – raccolte intorno alla vicenda dell'Italia durante la seconda guerra mondiale. Giovanni De Luna, "Tuttolibri"

Filippo Focardi ricostruisce le spinte che hanno creato l'immagine dell'italiano 'buono', vittima della ferocia dei tedeschi: un impasto dal quale derivò quell'attitudine autoindulgente di cui gli italiani non si sono mai liberati. Giuseppe Berta, "l'Espresso"

Domande frequenti

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Informazioni

VI. «Bravi italiani» e «cattivi tedeschi»

1. Umanità italiana contro brutalità tedesca

La tendenza a distinguere il comportamento del soldato in grigioverde da quello del «camerata» germanico e a contrapporre l’uno all’altro emerse soprattutto in relazione all’atteggiamento tenuto da parte italiana nei confronti delle popolazioni dei paesi che Mussolini aveva ordinato di aggredire, nel tentativo di allargare i confini dell’Impero e dare vita a quello che è stato definito «il nuovo ordine mediterraneo» del fascismo1. Anche in questo caso la stampa e la pubblicistica italiane preferirono tacere, minimizzare o ridimensionare la complicità avuta dalle truppe italiane in molte brutali azioni di guerra condotte a fianco dei tedeschi e l’uso in proprio, non sporadico, di metodi di oppressione e sfruttamento non dissimili da quelli barbari ed esecrabili addebitati all’«odioso teutone». Soprattutto nell’entroterra balcanico, in Jugoslavia e in Grecia (occupate grazie al decisivo concorso tedesco nell’aprile 1941), forze di polizia e unità militari italiane – sia del regio esercito sia delle camicie nere – si erano rese protagoniste di sanguinose azioni repressive contro i locali movimenti di resistenza paragonabili per tipologia a quelle condotte dalla Germania nazista: ricorso sistematico alla tortura contro gli oppositori, rappresaglie con saccheggi e incendi di villaggi, prelevamento e soppressione di ostaggi, deportazioni in massa di popolazione civile, bombardamenti di centri abitati con l’uccisione anche di donne e bambini2. Pur non macchiandosi dei crimini terribili commessi in quei territori dall’alleato germanico contro gli ebrei e i rom, le autorità civili e militari italiane avevano predisposto un sistema di ordini per la lotta contro i partigiani analogo a quello sperimentato dai tedeschi, che equiparava gli insorti a «franchi tiratori» da passare immediatamente per le armi e postulava misure draconiane contro i loro «fiancheggiatori», dando ‘carta bianca’, ovvero assicurazione di impunità, ai comandanti dei reparti impegnati nelle azioni di «controguerriglia»3. Tali azioni, nel protettorato del Montenegro come nella Slovenia annessa, nelle zone occupate dello Stato indipendente croato come nella Grecia continentale (qui in particolare dall’autunno del 1942 al settembre 1943), si configurarono quali atti di una vera e propria «guerra ai civili» per la ‘bonifica’ del territorio, in cui il confine fra combattenti e non combattenti tendeva a scomparire e le popolazioni venivano investite in pieno dalla violenza repressiva. Dunque, una politica del terrore pianificata dai comandi la quale, se certo non eguagliò il livello distruttivo raggiunto nei Balcani dalla Wehrmacht4, risultò però assimilabile alla lotta senza quartiere contro la Resistenza italiana che avrebbero successivamente condotto gli uomini di Kesselring nell’Italia occupata5.
Nonostante, dunque, il coinvolgimento di numerosi reparti militari in una «guerra sporca» macchiata da crimini deplorevoli6, della condotta del soldato italiano si tese a tracciare nel discorso pubblico una rappresentazione edulcorata, che poneva in evidenza la grande capacità di solidarietà umana e l’aiuto generoso dimostrati nei confronti dei popoli dei territori conquistati; meriti che vennero costantemente contrapposti al comportamento crudele e predatorio dei reparti germanici. All’immagine del «cattivo tedesco», guerriero fanatico e capace di ogni nefandezza, fu contrapposta quella del cosiddetto «bravo italiano»: malamente equipaggiato, catapultato contro il proprio volere in una guerra sciagurata, il soldato italiano aveva solidarizzato con le popolazioni dei paesi invasi, le aveva aiutate contro la fame e la miseria dividendo quel poco che aveva e, soprattutto, le aveva protette dai soprusi e dalle violenze dei commilitoni germanici salvando così molte vite, come era il caso di migliaia di ebrei strappati dalle grinfie degli sterminatori tedeschi. La raffigurazione del «bravo italiano» poneva in evidenza alcuni aspetti incontestabili e meritori del comportamento tenuto nei territori occupati, primo fra tutti l’aiuto e la protezione prestati in varie occasioni agli ebrei o il salvataggio in Croazia di intere comunità di serbi braccati dagli ustascia di Pavelić assetati di «pulizia etnica». Tale raffigurazione finì tuttavia per oscurare del tutto l’altra faccia della realtà, rilevante e incresciosa, rappresentata dai militari italiani «invasori» e «oppressori», dimostratisi in più occasioni complici ed emuli dei «feroci» alleati tedeschi7.
La diversità di comportamento fra i due «camerati dell’Asse» era stata sottolineata già dalla stampa clandestina antifascista nei mesi immediatamente successivi all’8 settembre. «I figli del popolo in grigioverde – aveva scritto ad esempio «La Riscossa Italiana» nell’ottobre 1943 – non hanno combattuto con accanimento in nessun fronte e non hanno compiuto contro le popolazioni inermi quegli atti di ferocia che hanno infamato le orde hitleriane e i pochi battaglioni M»8. «Dove conquistarono – faceva eco «L’Azione», organo del Movimento cristiano sociale –, [essi] portarono a contrasto con il tedesco gentilezza e mitezza; e in Grecia e in Croazia sfamarono gli affamati, e salvarono la vita degli ebrei, e si schierarono sempre a difesa dei perseguitati, quale ne fosse la razza e la religione»9. A queste voci provenienti dal fronte della resistenza «interna» non aveva mancato di unirsi quella, assai autorevole, di una delle figure di maggior prestigio intellettuale dell’emigrazione antifascista italiana, lo storico Gaetano Salvemini. Nel volume scritto insieme a Giorgio La Piana, What to Do with Italy?, pubblicato negli Stati Uniti nel 1943 e apparso successivamente in Italia nel 1945, Salvemini aveva infatti affermato di essersi rallegrato per aver appreso «in notizie di origine greca o jugoslava [...] che il soldato italiano, di solito, non si comportava così crudelmente come il soldato nazista» ma anzi cercava, quando possibile, di «alleviare la miseria della popolazione»10. Lo storico antifascista mostrava di non stupirsene: «L’Italiano – egli osservava – uccide con facilità quando è accecato dal furore, ma comunemente non è capace di fredda e calcolata brutalità», né di quel compiacimento per le sofferenze altrui, di quella Schadenfreude, che contraddistingueva invece i tedeschi. Salvemini ammetteva che anche in Italia, «come in tutti i paesi», vi fossero dei «criminali». Ma questi, a suo giudizio, si identificavano tout court con i «capi fascisti», con coloro che in passato avevano costituito «lo scheletro del partito» di Mussolini e che erano poi passati a comandare il governo fascista e le forze di occupazione in Grecia, Albania, Russia e Jugoslavia. Ciò che più contava per Salvemini era la constatazione, a suo dire emersa inequivocabilmente dai fatti, che i «capi» degeneri e criminali non erano riusciti a trascinare con sé gli italiani, non erano riusciti in nessun modo «a trasformare l’italiano comune in un crudele demonio»11.
Le osservazioni di Salvemini, così come quelle tratte dalla stampa clandestina antifascista, anticipavano elementi di giudizio poi largamente condivisi. Tanto la stampa e la pubblicistica antifasciste quanto la produzione di taglio memorialistico degli ambienti militari e diplomatici schieratisi con Badoglio si mostrarono concordi, ad esempio, nel porre l’accento sulla differenza di natura quasi antropologica fra il «tedesco-automa», abituato a eseguire gli ordini «con brutalità meccanica», e l’italiano sempre ispirato viceversa nelle sue azioni da un «innato senso di umanità» che lo portava a fraternizzare con i popoli con cui veniva in contatto, compresi quelli aggrediti militarmente. Tale differenza fu ulteriormente sottolineata attraverso la contrapposizione fra la figura del «tedesco barbaro e incivile», capace di ogni sfrenatezza, e quella dell’italiano figlio invece della superiore cultura latina e cattolica, capace di misura e di misericordia verso il prossimo. Questa duplice distinzione fra italiani e tedeschi si innestava su un ricco retroterra culturale, imperniato sulla contrapposizione fra latinità e germanesimo in auge negli anni venti e nella prima metà degli anni trenta, la quale aveva attinto copiosamente i suoi contenuti dall’armamentario propagandistico antitedesco elaborato in occasione della prima guerra mondiale12. Né va trascurato il fatto che sulla superiorità della «civiltà» italiana rispetto a quella germanica avevano insistito ambienti di punta del fascismo, come quelli legati a Giuseppe Bottai, con l’intenzione di lanciare a Berlino una sfida per l’egemonia ispirata dalla pretesa di compensare sul piano culturale il netto scarto esistente fra i due partner dell’Asse in termini economici e militari13. La medesima distinzione evocata da Salvemini era emersa infine nella propaganda alleata, in primo luogo statunitense e fu, non a caso, ribadita alla fine della guerra dal giornalista americano Herbert Matthews in uno dei volumi più influenti allora pubblicati sul fascismo e l’Italia in guerra. Per Matthews, «la differenza fra i tedeschi e gli italiani nei Balcani, e specialmente in Jugoslavia ed in Grecia» era stata «rivelatrice».
L’italiano – egli scriveva – è un essere umano prima di essere un fascista o anche un italiano. Il tedesco è una macchina. L’italiano si impunta quando si trova di fronte ad una situazione che apporterà morte o sevizie a donne, bambini, vecchi, o a chicchessia. Il tedesco esegue gli ordini con fredda brutalità meccanica. È questa una delle cose che vogliamo dire – concludeva Matthews – quando chiamiamo gli italiani civilizzati14.
Oltre al raffronto fra le tipizzazioni del tedesco e dell’italiano sopra richiamate, comune fu la tendenza – anch’essa attestata da alcune delle testimonianze citate – ad attribuire esclusivamente ai «fascisti» la responsabilità dei crimini commessi da parte italiana. Non si doveva parlare propriamente di «crimini italiani», bensì solo di «crimini fascisti». I crimini «fascisti», inoltre, erano sovente giudicati come frutto di mera «imitazione» di quelli commessi dai tedeschi. Va osservato però come si manifestasse una differenza di rilievo: i settori dell’opinione pubblica moderata e conservatrice, che si riconoscev...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. I. L’Italia e la guerra dell’Asse nella propaganda alleata
  3. II. Chi ha tradito la patria?
  4. III. Alle origini della memoria della guerra
  5. IV. «Anche l’Italia ha vinto». Espiazione e riscatto di un «popolo alla macchia»
  6. V. Dimenticare l’Asse
  7. VI. «Bravi italiani» e «cattivi tedeschi»
  8. VII. Uomini o tedeschi?
  9. Conclusioni
  10. Nota sulle fonti
  11. Ringraziamenti