Saggi sulla legge naturale
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Saggi sulla legge naturale

  1. 128 pagine
  2. Italian
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Saggi sulla legge naturale

Informazioni su questo libro

Scritti in latino da Locke tra il 1660 circa e il 1664 nelle forme tradizionali delle discussioni accademiche, i Saggi rimasero inediti fino al 1954, anno in cui von Leyden curò l'edizione critica del testo, corredata dalla traduzione inglese. Su questa edizione è stata condotta la traduzione italiana. Una volta pubblicati, questi scritti hanno ribaltato molte erronee interpretazioni del pensiero di Locke e continuano a essere di fondamentale importanza per l'esatta comprensione dello sviluppo del suo pensiero politico. Il saggio introduttivo di Giuseppe Bedeschi mette a fuoco i temi centrali dell'opera e la loro influenza sulle opere successive.

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Informazioni

eBook ISBN
9788858139912
Argomento
Philosophy

Introduzione

I Saggi sulla legge naturale, che qui vengono presentati in traduzione italiana, furono scritti in latino, nelle forme tradizionali delle discussioni accademiche, in un periodo collocabile tra il 1660 e il 1664, e non furono mai pubblicati da Locke. Essi sono stati conservati nella «Lovelace Collection» – che raccoglie tutti i manoscritti lockiani a noi pervenuti – e solo nel 1954 W. von Leyden ne ha dato la prima edizione critica, preceduta da un’ampia e importante Introduzione1.
I Saggi non sono un’opera particolarmente acuta e originale; essi hanno anzi un andamento scolastico, e (come è stato giustamente osservato) «non lasciano presagire il futuro grande pensatore»2. E tuttavia essi sono assai importanti per conoscere e per intendere meglio di quanto fosse possibile prima della loro pubblicazione la formazione del pensiero morale e politico di Locke. Anzi, si può senz’altro affermare che questi manoscritti giovanili hanno ampiamente rinnovato l’interpretazione del pensiero lockiano e l’hanno posta su basi più solide.
In particolare, essi hanno permesso di dare risposta a un quesito di estrema importanza che si poneva a tutti i lettori dei due Trattati sul governo civile (1690) – cioè dell’opera che contiene la prima grande formulazione della concezione etico-politica liberale della storia europea moderna. Era inevitabile chiedersi, infatti, come mai Locke in tale opera non avesse sentito il bisogno di dare una trattazione ampia e sistematica della legge naturale (come invece aveva fatto Hobbes nel De Cive, nel Leviatano, ecc.), cioè di quella legge che costituisce il fondamento ineliminabile di tutto il suo discorso. Come mai Locke si era limitato a presupporre, cioè a dare per scontata, l’esistenza di questa legge? Si ricordino, a questo proposito, le parole dell’art. 12 del Secondo trattato: «È certo che vi è questa legge, e che essa è anche altrettanto intelligibile e chiara a una creatura ragionevole e a chi la studi, quanto le leggi positive delle società politiche, anzi, forse tanto più evidente, quanto più facile a intendere è la ragione che non le fantasie e le intricate invenzioni degli uomini, che seguono contrari e occulti interessi celati sotto le parole»: che è affermazione, certo, perentoria, per quanto riguarda l’esistenza della legge naturale, ma che lascia nell’ombra, deliberatamente, la sua dimostrazione (né nel Secondo trattato si trova, su questo punto, molto di più del passo citato).
La pubblicazione dei Saggi ha permesso di rispondere in modo convincente al quesito sopra accennato: Locke non ha dato una trattazione ampia e sistematica della legge naturale nei due Trattati sul governo civile, perché quella trattazione egli l’aveva già data nei Saggi medesimi.
Ma una lettura attenta dei Saggi ha fatto cadere anche tutta una serie di illazioni e di falsi problemi che aduggiavano gli studi lockiani prima che si conoscessero questi lavori giovanili del filosofo inglese. Questo è un punto sul quale mette conto di soffermarsi.
Per farsi un’idea della valutazione che veniva data dei due Trattati sul governo civile prima del meritorio lavoro di scavo fatto dal von Leyden, basta dare un’occhiata alla Storia delle dottrine politiche del Sabine, cioè a un’opera che per le sue virtù di acume, di chiarezza e di equilibrio, nonché per la meritata fama del suo autore, ha avuto larga diffusione nella cultura anglosassone, e non soltanto in essa3. (E si sa bene quanto i manuali più diffusi e accreditati contribuiscano, anche nelle Università, a formare una communis opinio, e a consacrare determinate valutazioni, che finiscono per diventare ‘canoniche’.)
Orbene, secondo Sabine la maggior debolezza della filosofia di Locke in tutte le sue parti consisteva nel fatto che egli non era mai risalito ai princìpi primi. «Il suo senso comune – diceva Sabine – lo salvò forse da molti equivoci dialettici, ma ciò finisce per voler dire che egli accettò molte cose senza analizzarle adeguatamente, e combinò princìpi che l’analisi dimostrava incompatibili»4. In particolare, secondo lo storico americano, Locke era incorso nelle seguenti contraddizioni. In primo luogo egli si era richiamato a Hooker e alla tradizione medievale giuntagli attraverso quest’ultimo, e quindi a un pensiero che presupponeva la realtà corporativa o sociale della comunità; ma, al tempo stesso, egli si era rifatto all’analisi di Hobbes, la quale si basava sull’assunto che la comunità come tale è una pura finzione, che essa esiste soltanto nella cooperazione dei suoi membri, che questa cooperazione è sempre dovuta ai vantaggi che coloro che vi partecipano vi godono individualmente, e che essa diventa una comunità solo perché c’è qualcuno che può esercitare il potere sovrano.
L’opposizione logica tra questi due punti di vista – diceva Sabine – è assoluta. Il primo è enunciato in termini di funzioni; concepisce che tanto gli individui quanto le istituzioni compiano un’opera socialmente utile, regolata dal governo per il bene di tutti e nel quadro della legge che fa del gruppo una comunità. Il secondo è enunciato in termini di soddisfazione individuale; concepisce la società come un insieme di persone che agiscono per moventi egoistici, che guardano alla legge e al governo per la loro sicurezza di fronte a compagni egualmente egoisti, e che mirano alla maggior quantità di bene privato compatibile col mantenimento della pace. Se Locke avesse potuto adottare l’un punto di vista e rifiutare l’altro, sarebbe stato più coerente di quello che fu. Ma le circostanze in cui si trovò a scrivere richiesero ch’egli li adottasse entrambi5.
In secondo luogo, è vero che Locke sostenne contro Hobbes che i diritti e i doveri morali sono essenziali e autonomi, che è la moralità che fa la legge e non la legge che fa la moralità, e che i governi devono rendere effettivo ciò che è giusto naturalmente, prima d’essere affermato tale nella legge positiva; ma è altrettanto vero che per fondare in modo solido questo punto di vista, Locke avrebbe dovuto basarsi sull’esatta spiegazione del significato della legge naturale. «Gli si imponeva almeno di dimostrare – diceva Sabine – perché essa dovesse vincolare anche senza amministrazione o sanzione. Di fatto Locke non ne fece mai un’analisi e ne trattò in modo esplicito soltanto incidentalmente, venendo a distinguere – seguendo Aristotele e attaccando Filmer – il potere paterno da quello politico»6. In terzo luogo, se è assai difficile capire esattamente che cosa per Locke giustificasse sul piano filosofico la sua teoria dei diritti naturali, è però certo che egli ebbe in comune con Grozio la tendenza a considerare la legge naturale come qualcosa di analogo agli assiomi della geometria. «Ma – osservava Sabine – anche se si può ammettere che certi valori morali sono evidenti, è tutt’altro che ovvio che essi debbano prendere la forma di diritti innati individuali. Probabilmente Locke non affrontò mai definitivamente questo problema, dato che non sembra che egli si sia reso conto della grande differenza che correva tra la sua teoria dei diritti naturali e le versioni più antiche della dottrina stessa». Inoltre, assumendo il punto di vista che in etica fosse possibile costruire una scienza dimostrativa analoga alla geometria, Locke faceva propria un’ispirazione che era in radicale contrasto con l’impostazione empiristica della sua teoria della mente e della sua gnoseologia, così come esse vengono sviluppate nel Saggio sull’intelletto umano7.
A veder bene, in queste osservazioni critiche di Sabine era già contenuto in nuce il punto di vista che fu espresso più tardi (anche se, certo, in modo assai più radicale) da Leo Strauss, in un’opera divenuta celebre per lo ‘scandalo’ da essa suscitato: Natural Right and History (1953). Secondo Strauss, un confronto, anche solo sommario, fra la dottrina di Locke e le dottrine di Hooker e di Hobbes mostrava che il primo si era discostato notevolmente dall’insegnamento tradizionale della legge di natura e che aveva seguito l’esempio di Hobbes8. Strauss sottolineava fortemente le contraddizioni (o quelle che egli riteneva essere tali) della caratterizzazione lockiana dello stato di natura nel Secondo trattato sul governo civile, onde esso si convertiva da (sono parole di Locke) «stato di pace, benevolenza, assistenza e conservazione reciproca» – quale era in un primo tempo – in uno stato di «pura anarchia», dove «la discordia e i torbidi vi sarebbero senza fine»: contraddizioni dovute al fatto, secondo Strauss, che gli uomini nello stato di natura lockiano non sono veramente sottoposti all’imperio delle leggi naturali, le quali sono soltanto una vernice esteriore che copre un’ispirazione individualistico-edonistica. Di qui, secondo Strauss, una duplice convergenza della concezione di Locke con quella di Hobbes: e cioè, sia nel senso che nello stato di natura ognuno giudica da sé quali mezzi siano favorevoli alla propria conservazione, sia nel senso che le leggi di natura sono, come diceva Hobbes, «conclusioni o teoremi concernenti ciò che favorisce la conservazione e la difesa» dell’uomo contro i suoi simili9.
La pubblicazione dei Saggi sulla legge naturale ha permesso di fare giustizia di questa lettura deformata e distorta dell’opera etico-politica lockiana, mostrandone la genesi effettiva, nel quadro di un rapporto reale e profondo con la tradizione giusnaturalistica classica. Il preteso «hobbesismo» di Locke è apparso così come qualcosa di sovrapposto in modo del tutto arbitrario ai testi del filosofo, senza nessun vero aggancio con essi.
Lo studioso che ha colto con maggior acume l’importanza dei Saggi giovanili per intendere meglio l’opera lockiana della maturità è stato, a mio avviso, R. Polin, nella sua vasta e suggestiva ricostruzione di quella che egli ha chiamato La politique morale de John Locke (PUF, Paris 1960). Polin ha giustamente sottolineato che la pubblicazione dei Saggi non presenta soltanto il vantaggio di fornirci una dottrina sistematica della legge di natura: essa ci permette soprattutto di confrontare due fasi del pensiero etico-politico di Locke, risalenti a due epoche molto differenti della sua vita. Nel 1664 il giovane filosofo (aveva, infatti, appena 32 anni), che non è ancora impegnato nelle vicende politiche del suo Paese, affronta direttamente le grandi opere di Hobbes, la cui pubblicazione è ancora recente: il rumore suscitato dal Leviatano, che era apparso nel 1651, era stato prolungato dall’apparizione del De Corpore nel 1655, e del De Homine nel 1658. Invece, negli anni 1679-1682, prima dell’esilio in Olanda, quando Locke redige il nucleo essenziale dei Trattati sul governo civile (come è stato dimostrato da Peter Laslett), egli reagisce da un lato alla recente pubblicazione del Patriarcha di Robert Filmer, e dall’altro lato alla lotta ingaggiata da Shaftesbury e dai suoi amici whigs per limitare i diritti della corona ed escludere il cattolico duca di York dalla successione al trono. Ai pamphlets tories, Locke rispondeva con un pamphlet whig (e questo è in effetti il periodo in cui i due raggruppamenti si formano).
Nel 1664, dunque, è particolarmente urgente riaffermare contro Hobbes l’esistenza di una legge di natura, nel senso in cui la tradizione stoico-cristiana l’aveva intesa, e di dimostrarne l’esistenza. È il compito al quale Locke consacra il suo primo saggio: che ci è data una regola del bene e del male, cioè una legge di natura. Prima ancora di sapere qual è questa legge, il fatto che essa esiste costituisce per Locke un fatto esperibile da ciascuno, osservabile con evidenza da tutti. E se c’è disaccordo sul significato di questa legge, disaccordi e dispute provano tanto più efficacemente la sua esistenza.
Secondo il filosofo inglese, si può dimostrare l’esistenza della legge naturale a partire dai suoi princìpi e dalle sue conseguenze. A partire dal suo principio originario, prima di tutto, che è Dio, poiché essa è una legge divina, l’espressione della volontà ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Capitolo primo. Esiste una regola di condotta morale, o legge di natura
  3. Capitolo secondo. La legge di natura è conoscibile attraverso il lume naturale
  4. Capitolo terzo. La legge di natura non è iscritta nell’animo degli uomini
  5. Capitolo quarto. La ragione può pervenire alla conoscenza della legge di natura attraverso l’esperienza sensibile
  6. Capitolo quinto. La legge di natura non può essere conosciuta sulla base del consenso universale degli uomini
  7. Capitolo sesto. La legge di natura ha forza obbligante per gli uomini
  8. Capitolo settimo. La forza obbligante della legge di natura ha carattere eterno e universale
  9. Capitolo ottavo. L’interesse privato di ognuno non è il fondamento della legge di natura