Storia del diritto nell'Europa moderna e contemporanea
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Storia del diritto nell'Europa moderna e contemporanea

Mario Caravale

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Storia del diritto nell'Europa moderna e contemporanea

Mario Caravale

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Una sintesi rigorosa e di ampio respiro che ricostruisce in modo efficace la storia degli ordinamenti giuridici europei.«Occasione preziosa, se appena se ne scorrono le pagine, o soltanto l'indice, il libro di Caravale: dove la storia del diritto trova un'intrinseca unità, e raccoglie sviluppo delle fonti, fatti politici, forma e metodi della scienza, crisi e rinascite. La scienza giuridica torna in tutti, o quasi tutti, i capitoli del libro, come luogo della coscienza più acuta e riflessiva. La scienza, o che concorra nel determinare il corso storico o che soltanto lo interpreti e rispecchi, esprime l'autocoscienza di un evento o di un'età. Il libro di Caravale insegna che essa non è un rigido sapere, un metodo applicabile sempre e su qualsiasi testo, ma una formazione nella storia e della storia».Natalino Irti

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858101384
Argomento
Diritto

VI. Stato di diritto, Stato legale, Stato amministrativo, Stato totalitario

Introduzione

La storia giuridica europea tra la fine del secolo XIX e la metà del successivo appare caratterizzata dal progressivo incremento del ruolo dello Stato nella società e, di conseguenza, dal complesso e cangiante rapporto tra gli individui, le loro libertà e i loro diritti da un canto, la crescente autorità statale dall’altro.
Abbiamo visto come la Rivoluzione francese avesse eliminato la tradizionale pluralità istituzionale che aveva caratterizzato la precedente storia europea, sostituendola con l’ordinamento dello Stato quale espressione diretta ed immediata della Nazione e garante dei diritti degli individui. E una teorizzazione dello Stato quale tutore dei diritti inalienabili dell’uomo era stata formulata negli ultimi anni del secolo XVIII da Immanuel Kant, il quale vedeva lo Stato come fondato su alcuni princìpi giusnaturalistici basilari – la libertà individuale, l’uguaglianza giuridica dei cittadini – e impegnato a tradurre in norme positive diritti insiti nella natura dell’uomo: le leggi dello Stato – le sole che costituivano lo Staatsrecht, il diritto vigente nello Stato – dovevano, allora, garantire a ciascun cittadino una sfera di libertà limitata soltanto dal rispetto di quella degli altri e il sicuro esercizio dei suoi diritti individuali. La tesi kantiana fu recepita solo in parte dall’idealismo tedesco. Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) e Georg Wilhelm Hegel, pur riconoscendo allo Stato il dovere di proteggere e tutelare i cittadini, rifiutavano l’esistenza di un diritto naturale precedente lo Stato e riconoscevano valore giuridico solo alle leggi da questo promulgate.
Sin dall’inizio del secolo XIX, dunque, si venne a profilare una sorta di dialettica tra diritti individuali e Stato che con le sue leggi creava diritti. Le prime formulazioni dello Stato di diritto presentano questa ambiguità. Stato di diritto è indicato in questa prima fase come lo Stato che si afferma come unico produttore di diritto – perché sono state essiccate tutte le tradizionali fonti (consuetudine, giurisprudenza, dottrina) ad esclusione della legge statale –, come solo titolare del governo e dell’amministrazione della Nazione – dato che sono state abolite le antiche forme istituzionali comunitarie, signorili, cittadine, territoriali di natura originaria e restano soltanto quelle disposte dallo Stato, attraverso le sue leggi, come autonome –, come esclusivo garante dell’osservanza del diritto, in quanto unico responsabile della giustizia – essendo state eliminate tutte le precedenti potestà giudiziarie (comunali, signorili, popolari, feudali, territoriali) –, una funzione che lo Stato assicurava ai cittadini anche contro la stessa pubblica amministrazione. Nella lettura kantiana il diritto che lo Stato produceva con le sue leggi, attuava con la sua amministrazione e garantiva con la sua giustizia, era direttamente ed indissolubilmente legato al diritto naturale, rappresentando la traduzione di questo in norme positive: la legge, in altre parole, conservava quel carattere quasi sacrale che le era stato costantemente riconosciuto dalla tradizione culturale europea. Ma nel momento in cui il rapporto tra il diritto prodotto dalla legge e i princìpi giusnaturalistici cominciò ad allentarsi in seguito al concreto esercizio della funzione legislativa da parte degli Stati – un esercizio che obbediva piuttosto agli interessi particolari prevalenti nel legislatore e che era mosso soprattutto da concrete e cangianti necessità temporali – apparvero le prime avvisaglie di un panorama profondamente diverso, nel quale da un canto si presentava attenuato l’impegno del legislatore statale a riferirsi a princìpi e diritti superiori e prestatali, dall’altro i cittadini, obbligati comunque ad osservare le norme statali e privi di qualsiasi alternativa all’amministrazione e alla giustizia dello Stato, vedevano incrinata la piena garanzia che i diritti, da loro avvertiti come naturali, fossero tradotti in norme positive e adeguatamente tutelati.
Appare interessante sottolineare come l’esperienza francese nella prima metà del secolo XIX si muova sensibilmente verso l’affermazione del legicentrismo. Lo Stato di diritto liberale, di cui la Francia offre dopo il 1830 un chiaro modello, risulta fondato sulla centralità della legge, di cui affermava la superiorità non solo nei confronti dei singoli cittadini, ma anche della pubblica amministrazione, e di cui garantiva l’osservanza attraverso l’opera di giudici indipendenti ed esperti. Il centro era, dunque, costituito dal monopolio statale della produzione normativa, del governo e della giustizia e dalla conseguente eliminazione di ogni ordinamento particolare intermedio tra i cittadini e lo Stato; la rispondenza del diritto statale ai princìpi superiori di libertà ed uguaglianza giuridica era data per scontata, sia perché i cittadini erano stati liberati da ogni forma di subordinazione personale, sia perché tale diritto non interferiva con la loro libertà di azione e di iniziativa. L’ordinamento dello Stato liberale era, infatti, leggero proprio perché si contrapponeva nettamente a quello di antico regime. Mentre in quest’ultimo norme di varia natura ed origine avevano disciplinato ogni forma di attività degli individui, consentendo loro di svolgere un’attività solo se godevano del diritto di svolgerla, nello Stato liberale l’ordinamento si limitava a disciplinare alcuni diritti essenziali, innanzi tutto quello di proprietà privata, riconoscendo ai cittadini la piena libertà di azione una volta rispettati i suddetti diritti essenziali. E lo Stato offriva a tale ampia sfera di libertà la cornice istituzionale indispensabile – poiché i suoi compiti si limitavano alla difesa del territorio, che assicurava sia con le forze armate, sia con la sua attività diplomatica, alla tutela dell’ordine pubblico, all’amministrazione della giustizia, all’organizzazione di alcuni gradi di istruzione, all’esecuzione degli indispensabili lavori pubblici ed alla gestione delle entrate e delle uscite necessarie al funzionamento di questi apparati amministrativi – senza interferire in alcun modo nella vita libera della società. Uno Stato «leggero», dunque, imperniato sul legicentrismo e sul monopolio della sovranità: e in detto ordinamento i diritti individuali erano collocati necessariamente dopo la legge, anche se questa non poteva che essere coerente con il quadro generale di libertà.
L’esperienza francese di Stato liberale risulta, allora, differente da quella vissuta dagli ordinamenti anglo-americani. In Inghilterra era ormai pienamente consolidato il principio del rule of law, che aveva trovato la sua chiara definizione – come abbiamo avuto occasione di ricordare – con la sentenza Entick v. Carrington del 1765. Il rule of law sottopone la Corona e la sua amministrazione al rispetto del diritto vigente; ma tale diritto non è costituito dall’atto d’imperio della volontà sovrana del legislatore statale, bensì dal common law, dal complesso ed articolato insieme di usi e consuetudini particolari, e dagli statutes del Parlamento, le delibere, cioè, da questo adottate le quali, come sappiamo, sono intese come sentenze che interpretano in maniera evolutiva e creativa norme del common law, rendendo esplicito quanto in queste ultime era implicitamente contenuto. In altri termini, i diritti dei componenti la comunità inglese non derivano né da un astratto diritto naturale, né, tanto meno, dalla volontà del legislatore: essi sono ancorati alla complessa ed articolata tradizione giuridica del popolo, tradizione che il Parlamento ha la funzione di aggiornare. E d’altro canto l’Inghilterra non conosceva il modello dello Stato monopolista del potere sovrano forgiato in Francia: la continuità della tradizione si esprimeva anche nel rispetto delle forme istituzionali spontanee ed originarie del self government e di una giurisdizione signorile che, pur conoscendo una qualche riduzione, si conservava ancora nell’Ottocento sostanzialmente salda. L’impostazione dell’ordinamento inglese segna anche quello degli Stati Uniti: qui gli individui sono riconosciuti titolari di diritti derivanti dalla tradizione di common law e dalla natura, mentre il legislatore è considerato titolare di un potere derivato proprio dai singoli individui: di conseguenza, i diritti individuali vengono prima della legge e il legislatore è obbligato ad operare in conformità e nel rispetto dei diritti di cui i deleganti sono portatori.
L’intervento della scienza giuridica tedesca recò, poi, un decisivo contributo alla riflessione sulla natura dello Stato di diritto. Sin dagli anni del Vormärz i liberali tedeschi avevano individuato nella costruzione di un ordinamento statale liberale, sul modello francese, l’obiettivo primario della loro azione. Ed è proprio il giurista tedesco Robert von Mohl a usare per primo all’inizio degli anni ’30 l’espressione Rechtsstaat, Stato di diritto, con la quale indicava lo Stato fondato su una legge costituzionale ed espressione dei princìpi del liberalismo, nonché fonte esclusiva e garante di un diritto positivo che realizzava i valori della libertà, uno Stato esaltato quale gradino più elevato nello sviluppo dell’organizzazione istituzionale della società umana. Ma l’ambiguità del concetto di Stato di diritto si manifestò già in questa prima fase della riflessione germanica. Nello stesso torno di anni, infatti, un altro giurista Friedrich Julius von Stahl (1802-1861), meno sensibile agli ideali del liberalismo e deciso sostenitore della monarchia prussiana, propose un’immagine di Stato di diritto nella quale il ruolo dello Stato quale strumento di realizzazione e di tutela delle libertà individuali passava in secondo piano rispetto alla sua funzione di organizzatore razionale della società. Il Rechtsstaat diventava, perciò, in von Stahl lo Stato la cui autorità e le cui attività erano definite e disciplinate esclusivamente dal diritto da lui stesso creato – e quindi non più, come nell’antico regime, dagli usi e dall’arbitrio dei governanti –, un diritto che doveva perseguire non già l’obiettivo della traduzione in norme positive di princìpi superiori, bensì l’altro della più razionale organizzazione della società.
Dopo la conclusione dell’esperienza rivoluzionaria di metà secolo l’ordinamento statale liberale comiciò a conoscere una sensibile evoluzione. In Francia, come abbiamo visto nel capitolo precedente, si rafforzò l’apparato statale e si estese l’intervento pubblico, attraverso sia la legislazione sia l’azione concreta della pubblica amministrazione, nella vita della società, mentre l’ordinamento istituzionale del Secondo Impero introduceva elementi autoritari discordi con la precedente esperienza liberale. Nell’ideologia più aperta, comunque, restava saldo il principio della libertà individuale che lo Stato doveva tutelare e difendere con le sue leggi e la sua giustizia contro abusi della pubblica amministrazione.
Nella seconda metà del secolo la riflessione sullo Stato di diritto conobbe particolare approfondimento in Germania. Qui la crisi del movimento liberale nel Nachmärz, la crescente prospettiva di una soluzione del problema nazionale attraverso l’iniziativa di una monarchia egemone, la sensibile affermazione dell’industria e la conseguente sollecitazione verso un superamento delle tradizionali frammentazioni istituzionali, l’incremento degli apparati burocratici statali che nei maggiori Stati tedeschi, al pari di quanto stava avvenendo in Francia, segnava l’amministrazione pubblica come conseguenza dell’assunzione di compiti nuovi, costituiscono altrettanti fattori che concorsero allo sviluppo del pensiero sullo Stato di diritto. Uno sviluppo che si caratterizza per il crescente spazio riconosciuto allo Stato e alla sua superiorità rispetto agli individui. L’avvio della politica di Bismarck e i successi dalla stessa conseguiti contribuirono poi all’affermazione di una teoria tedesca dello Stato di diritto nella quale trovano ampia sottolineatura i profili di autorità e che arrivò ad attribuire allo Stato – con Carl Friedrich Gerber negli anni ’60 – personalità giuridica, modellata su quella individuale ma al contempo dotata di superiorità. E sulla scia di Gerber si mossero sia Paul Laband (1838-1918), sia Georg Jellinek (1851-1911): come meglio vedremo in seguito, il primo affermò all’inizio degli anni ‘70 la natura dello Stato quale potenza di comando e di imposizione, e di conseguenza teorizzò l’essenza della legge in espressione dell’originaria superiore autorità dello Stato-persona libera da ogni vincolo di rispetto di valori e princìpi metagiuridici e dotata di piena forza vincolante nei riguardi dei cittadini e della pubblica amministrazione; il secondo all’inizio degli anni ’90 nello studio dei diritti pubblici soggettivi definì l’individuo subordinato allo Stato e titolare di diritti solo in quanto appartenente, come cittadino, allo Stato, il quale procedeva all’autolimitazione della propria sovranità originaria per concedere detti diritti ai componenti della comunità nazionale.
In breve. La dottrina appare concorde nel considerare lo Stato di diritto come fondato sul principio di legalità, nel senso che da un canto il diritto ha nella legge la sua unica fonte e, quindi, coincide con la legge, dall’altro che sia gli individui, sia la pubblica amministrazione sono sottoposti alla legge. Ma la dottrina si divise nel definire i rapporti tra la potestà di governo e la pubblica amministrazione da un lato e gli individui dall’altro. Per i sostenitori della tradizione liberale era la legge a governare tutto, ma nel contempo essa doveva rispettare il principio di libertà individuale: ne derivava che il governo e il potere esecutivo nulla potevano al di fuori di quanto loro assegnato dalla legge e che nelle materie non toccate dalla disciplina legislativa la libertà individuale era sovrana e non poteva essere limitata dal potere statale. Per i fautori della prevalenza della sovranità dello Stato, invece, il potere esecutivo era dotato di autorità originaria che solo le leggi potevano limitare, mentre nelle materie prive di disciplina legislativa la pubblica amministrazione era completamente libera di operare al fine di perseguire i propri obiettivi. In questa seconda accezione veniva, allora, riproposto in termini del tutto nuovi un problema antico, quello della tutela dei diritti e delle libertà individuali nei confronti dell’autorità: ora tali diritti risultano privati di ogni radicamento nella tradizione, depurati da ogni collegamento con il diritto naturale e affidati esclusivamente alla legge dello Stato.
Questa seconda lettura dello Stato di diritto elaborata dalla prevalente dottrina tedesca fu presa in considerazione dopo il 1870 dalla scienza giuridica francese, la quale nello stesso torno di anni andava approfondendo la riflessione sulla natura dello Stato, sull’autorità del potere legislativo, sul ruolo dell’esecutivo e procedeva, come vedremo meglio in seguito, alla costruzione teorica del diritto amministrativo. La scienza giuridica francese mostra, però, non poche perplessità nel recepire la tesi tedesca del Rechtsstaat e più che di Etat de droit preferì parlare di Etat légal, di Stato legale. Esponenti principali di questo indirizzo furono Raymond Carré de Malberg (1861-1935), Léon Duguit (1859-1928), Jean-Paul-Hippolyte-Emmanuel Esmein (1848-1913), Maurice Hauriou (1856-1929). Nella teoria dello Stato legale lo Stato è retto da un ordinamento giuridico le cui norme sono collocate in una precisa e definita gerarchia di fonti. Al vertice di tale gerarchia si trovavano i princìpi affermati dalla Rivoluzione francese – alla quale la III Repubblica, come vedremo, si richiamava costantemente – e definiti dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino: Dichiarazione che Duguit ed Hauriou consideravano parte integrante delle norme costituzionali vigenti, mentre Carré de Malberg ed Esmein giudicavano non recepita dalle leggi del 1875 e quindi bisognosa di apposita normazione. Al gradino successivo erano collocate, poi, le leggi costituzionali, le quali avevano il compito di fissare in diritto positivo i princìpi della Rivoluzione e nel contempo di disciplinare la separazione dei poteri. Il terzo gradino era costituito dalle leggi approvate dal Parlamento, leggi che dovevano, quindi, essere coerenti con quanto disposto dalle fonti situate nei gradi superiori. Infine, all’ultimo posto della scala era collocato il potere esecutivo cui spettava l’applicazione delle leggi ordinarie.
La dottrina dello Stato legale, allora, presenta non poche differenze con quella dello Stato di diritto di impostazione tedesca. Per i giuristi francesi, anche per quelli di loro che recepirono l’idea dello Stato-persona, lo Stato non era un soggetto a sé, dotato di una potestà originaria e di una propria volontà, ma espressione giuridica della Nazione, creato proprio per servire la Nazione e tutelare i diritti dei componenti di questa. La pubblica amministrazione, di conseguenza, non era libera di operare per propri fini nelle materie non toccate dalla legge, come voleva la lettura tedesca dello Stato di diritto, ma nella sua azione doveva sempre rispettare la disciplina dettata dalle tante fonti che regolavano l’ordinamento. Di modo che la tutela dei diritti individuali non era affidata alla sola autolimitazione legislativa dello Stato, ma era garantita dalle fonti giuridiche collocate nei gradi della gerarchia superiori a quello della legge.
La crescente attenzione della dottrina europea sulla natura dello Stato e sui suoi rapporti con i diritti individuali si legava, naturalmente, al significativo ampliamento delle funzioni che lo Stato andava conoscendo a partire dagli ultimi decenni del secolo XIX. Lo Stato «leggero» della prima età liberale, quello Stato che lasciava alla società un sfera amplissima di vita propria nella quale ogni cittadino era pienamente libero di agire limitato solo dal dovere di rispettare i diritti dei suoi concittadini, quello Stato che a tal fine riduceva di gran lunga il suo intervento legislativo accontentandosi di garantire diritti essenziali, quello di proprietà innanzi tutto, definiti nei codici ai quali la legislazione speciale offriva una scarsa integrazione, quello Stato che, proprio perché pochi erano i diritti, di questi offriva una rapida e sicura tutela giurisdizionale, quello Stato si andava rapidamente trasformando. La sua estraneità nei confronti della complessa realtà sociale apparve negativa non solo sotto il profilo della tutela dei diritti dei soggetti economicamente più deboli, lasciati senza difesa di fronte al libero eserciz...

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