
- 246 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
La storia, i processi e le dinamiche della pubblicità che ha finito per accreditarsi come forte produttore di senso comune, di valori e modelli di vita socialmente condivisi. In questo libro, non solo i suoi progressi creativi ma anche i delicati intrecci con la complessità degli apparati dei media, i labili equilibri con il potere politico e con le dinamiche industriali, le difficili relazioni con il ceto intellettuale, le determinanti influenze sull'evoluzione dei costumi e dei consumi.
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Informazioni
Argomento
Lingue e linguisticaCategoria
Studi sulla comunicazioneSotto il segno di «Carosello», 1954-1979
Arriva la televisione
Il primo vero grande scossone all’Italia contadina e povera lo dà l’avvento della televisione, le cui trasmissioni iniziano il 3 gennaio del 1954. Proprio nelle aree rurali essa rappresenta, sin da subito, uno straordinario motore di innovazione e di modernizzazione in grado di sconvolgere le abitudini e di offrire prospettive sul mondo all’epoca sconosciute. Paradossalmente, è proprio nel Sud sottosviluppato che il consumo televisivo è molto elevato e decisamente superiore alle altre aree del paese. Per quanto soltanto nel 1956 la Rai riesca a diffondere il segnale su tutto il territorio nazionale – in un tempo record rispetto alle altre grandi emittenti pubbliche europee –, un’indagine svolta nella primavera del 1955 rileva che 370.000 persone guardano quotidianamente da casa propria la televisione, mentre due o tre volte la settimana la guardano un milione di persone da casa di amici e di parenti e ben 3.200.000 da locali pubblici. Proprio il fenomeno della fruizione collettiva dà pienamente il senso dell’affermarsi di nuovi modelli di socializzazione fino ad allora sconosciuti e di nuove ritualità che ritmano una scansione diversa della quotidianità. In breve tempo – e si è molto scritto su questo – la televisione diventa uno strumento ineguagliabile di unificazione nazionale, sia sotto il profilo linguistico sia sotto il profilo socio-culturale. Proletari e borghesi, meridionali e settentrionali, contadini e cittadini imparano, se non proprio a parlarla, almeno a comprendere la medesima lingua e ad utilizzare gli stessi parametri di riferimento e gli stessi metri di paragone.
Naturalmente, l’avvento del nuovo mezzo non è accolto da tutti con il medesimo entusiasmo. Se è comprensibile l’atteggiamento di un papa ultraconservatore come Pio XII – che da un lato auspica che la televisione possa costituire un elemento di riunificazione delle famiglie e un’occasione per allontanarsi da pericoli, cattive compagnie e luoghi malsani e, dall’altro, inorridisce al pensiero che attraverso di essa possano introdursi anche fra le pareti domestiche quel materialismo, quell’edonismo e quel senso di fatuità che già caratterizzano altre forme di spettacolo popolare come il teatro e, soprattutto, il cinema –, meno comprensibile appare l’avversione che buona parte degli intellettuali nutre sin da subito nei confronti della televisione, atteggiamento – sul quale torneremo più avanti – che segnerà in modo determinante, e per quasi tre decenni, il dibattito sui media e, più in generale, sull’industria culturale in Italia.
Il clima che si respira all’inizio delle trasmissioni televisive è pesante. La battaglia contro il nuovo mezzo è condotta da un fronte eterogeneo in cui si saldano perversamente matrici culturali profondamente diverse, dalle frange più tradizionaliste del cattolicesimo sociale, ad ampi settori dell’aristocrazia laica e del grande capitale, alla quasi totalità dell’intellighenzia socialista e comunista. Appena due giorni dopo l’esordio, Luigi Barzini dalle pagine della «Stampa» paventa un’Italia ridotta a un’immensa piazza, ove il controllo sulla vita culturale è nelle mani di pochi uomini. Nelle stesse settimane, lo scrittore Paolo Monelli – con toni da scenario apocalittico – mette in guardia dai pericoli della televisione che giudica un’invenzione diabolica. La maggior parte degli uomini della sinistra manifesta un superiore distacco, un malcelato disprezzo o addirittura un’aperta ostilità, più o meno gli stessi sentimenti di una parte del mondo cattolico, mentre l’area più conservatrice del paese diffida del nuovo mezzo così come diffida di qualunque innovazione e di qualunque cambiamento.
In realtà, il malessere e l’imbarazzo che attraversano tutto il ceto intellettuale – perché, col senno di poi, di questo pare trattarsi – hanno radici molto profonde, proprio per questo estremamente problematiche e pertanto difficili da liquidare con la semplice e sola incapacità di accettare il cambiamento. Da un lato c’è, certamente, il timore di vedere erosa una posizione egemone e di veder messo in discussione il tradizionale ruolo di guida illuminata e distaccata della cultura sulla società. Dall’altro c’è l’avversione – comune soprattutto al mondo cattolico e alla sinistra, seppur per ragioni ideologicamente molto differenti, se non addirittura contrapposte – nei confronti di una troppo veloce spinta modernizzatrice e dei suoi inevitabili risvolti consumistici. Infine, c’è la visione politica e la concezione dell’arte di molti uomini della sinistra che leggono nel rapporto con le masse proletarie la nuova frontiera della cultura e la sua improrogabile necessità di impegno civile; c’è il sofferto realismo dei cattolici, alla ricerca di un difficile equilibrio fra i tradizionali e solidi valori cristiani e l’improvvisa accelerazione della società; c’è il sincero idealismo di molti uomini della sinistra e di alcuni cattolici tesi a delineare nuove qualità della letteratura e del cinema, all’insegna di quel neorealismo che negli anni immediatamente successivi alla guerra aveva inaugurato una stagione poetica di innovazione degli stili, delle estetiche, dei contenuti.
Soprattutto, in tutto il variegato fronte degli oppositori, c’è l’incapacità di comprendere la televisione come terreno dell’azione culturale. In particolare, l’area della sinistra – che dal dopoguerra in poi opera una profonda influenza sugli ambiti culturali tradizionali: editoria, grande stampa, cinema, arte – legge e interpreta la televisione non per ciò che è e per ciò che potrebbe diventare, ma per ciò che essa ai suoi occhi, ideologicamente viziati, rappresenta: la degenerazione più avanzata di una cultura, quella borghese, destinata a tracollare assieme al modello economico occidentale. Questa visione, cui non sono estranee le idee dei francofortesi, si accompagna all’altrettanto radicale incapacità di considerare le comunicazioni di massa come una straordinaria occasione di democratizzazione della cultura e della società civile, come un insieme di apparati certamente complessi e certamente delicati che, proprio per questa loro natura, necessitano non di essere rigettati, ma di essere compresi e di essere dotati di strutture, di meccanismi e di contenuti che ne consentano il funzionamento. Per di più, il rifiuto della sinistra a comprendere tutto ciò palesa, anche in campo culturale, un profondo e per certi versi drammatico paradosso italiano, per cui il processo di modernizzazione – dal dopoguerra a oggi – è sempre stato guidato e gestito non dalle élite avanguardiste, potenzialmente modernizzanti, ma da quella parte della società più conservatrice, dunque potenzialmente da modernizzare. La quale, nel caso specifico della televisione, si rivela capace non solo di comprenderne a fondo la peculiarità e la carica innovativa, ma anche di guidarle e di gestirle in modo decisamente non banale, grazie anche a una preparazione teorica acquisita sul campo, che in pochissimo tempo le garantisce un livello di competenza elevato, decisamente superiore a quello delle forze sociali e culturali che alla televisione invece si oppongono (Monteleone, 1992).
Il potere politico democristiano sembra avere un’idea abbastanza precisa del ruolo che la televisione può assumere. Nell’ultimo periodo della sua stagione politica, De Gasperi aveva certamente intuito che la televisione poteva essere uno straordinario strumento di controllo e di gestione politica – lo confidò, nel 1953, ai suoi più stretti collaboratori di ritorno da un viaggio negli Stati Uniti – e aveva probabilmente capito che la modernizzazione e il suo prevedibile approdo a una società dei consumi inevitabilmente sarebbero entrati in contrasto con i valori della tradizione cattolica. Era il prezzo da pagare per la rinascita economica dell’Italia. Dunque, le innovazioni, anche quelle di natura tecnologica, dovevano essere non avversate, bensì guidate, perché – nel medio periodo e nel lungo – un atteggiamento troppo conservativo avrebbe potuto rivelarsi politicamente controproducente.
Quando la televisione italiana inaugura le proprie trasmissioni, la stella di De Gasperi – causa le cattive condizioni di salute, che nel giro di pochi mesi lo porteranno alla morte, ma soprattutto la bocciatura della legge elettorale, la cosiddetta «legge truffa» – è ormai al declino, ma la sua influenza è ancora molto forte, avendo guidato ininterrottamente governo e partito sin dall’immediato dopoguerra. Adesso capo del governo è Mario Scelba, uomo di punta della destra democristiana, mentre alla guida del partito è assurto Amintore Fanfani. Il concetto guida della sua politica è l’ideologia della «democrazia guidata», un grande impegno e un grande lavoro politico in tutti i campi del sociale, che prevede anche una spiccata attenzione nei confronti dei mezzi di comunicazione di massa, a ragione ritenuti – come d’altra parte si evince leggendo fra le righe delle parole di Pio XII precedentemente riferite – un eccezionale strumento formativo e didattico, nonché un efficace sistema di indirizzo e di orientamento culturale.
Con la sua carica fortemente suggestiva, la televisione è subito percepita dai vertici della Dc come un mezzo straordinario per intervenire in modo profondo sul sociale e, contemporaneamente, per operare e guidare una modernizzazione in senso antilaicista della cultura – nei cui ambiti tradizionali l’influenza cattolico-democristiana ha, in quegli anni, perduto molto peso –, saldando così il movimentismo sociale della sinistra fanfaniana all’anticomunismo radicale della destra di Scelba.
È nelle pieghe di questo strano miscuglio di ragioni diverse che vanno ricercati i motivi e le contraddizioni che hanno caratterizzato la nascita e i primi anni della televisione italiana, rintracciando in essa un progetto politico in cui, contemporaneamente, hanno convissuto arroganza e lungimiranza, integralismo bigotto e sperimentazione culturale. È indubbio – e per quanto si sia scritto parecchio su questo è sempre il caso di ricordarlo – che la Democrazia cristiana per oltre vent’anni ha fatto della Rai, e di conseguenza del mezzo televisivo, un utilizzo smaccatamente di parte, condizionando e addomesticando l’informazione e adottando un atteggiamento fortemente censorio, talvolta inaccettabile, come nel caso dell’allontanamento, e del successivo lungo ostracismo, di Dario Fo e di Enzo Tortora o come nel caso – forse ancora più eclatante, vista la goliardica bonarietà dell’episodio che li ha condannati – di Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello. È indubbio che il potere democristiano ha costruito sin dall’inizio una televisione finalizzata alla omogeneizzazione di un pubblico altrimenti eterogeneo per cultura, tradizione, lingua, ceto, alimentando e perpetuando in tal modo un’influenza dapprima di ispirazione apertamente clericale e successivamente di matrice cattolica. D’altra parte è altrettanto vero che, almeno fino a tutti gli anni Sessanta, la Rai ha rappresentato la più grande e innovativa industria culturale italiana, oltre che un tentativo, per buona parte riuscito, di accompagnare il processo di modernizzazione del paese in modo non traumatico, assecondando il mutamento in atto, in qualche modo rappresentandolo quotidianamente agli occhi degli italiani, rendendolo in tal modo normale, ancorché in realtà procedesse con scosse in alcuni casi molto profonde.
L’indice più evidente di tali considerazioni si evince dalla particolare struttura che la televisione italiana assume fin dagli esordi, sia sotto il profilo manageriale che sotto il profilo degli indirizzi culturali e contenutistici. Nel 1954 amministratore delegato della Rai è Filiberto Guala, dirigente di indubbie capacità, formatosi nel Movimento laureati cattolici, voluto da Fanfani alla testa dell’ente. Egli imprime una svolta decisiva sia sotto il profilo organizzativo che sotto il profilo contenutistico, comprendendo da subito la doppia natura della televisione: apparato tecnologico e apparato culturale. È a lui che si devono da un lato la concezione pedagogica della programmazione della televisione e l’idea che essa debba assolvere alla funzione di educatore collettivo; dall’altro una strutturazione dell’azienda attenta sia alla formazione e alla qualificazione del personale interno che all’innovazione tecnologica; infine, la saldatura con le forze clericali al fine di condizionare l’area liberal-democratica, di emarginare la sinistra e di affermare un rigore moralista antilaicista. Sotto la sua guida, la Rai assume una conformazione che – sempre in stretto accordo col governo – segnerà il solco principale entro il quale l’azienda si muoverà per almeno tre lustri e che consentirà ai suoi successori di portarla, in pochissimi anni, al livello delle grandi televisioni continentali.
Nel giugno del 1956, Guala è costretto a dimettersi. È iniziata una nuova fase politica, incerta e transitoria, che si protrarrà per diversi anni e che muterà sostanzialmente il quadro politico italiano. Alla fine del 1955 il democristiano Giovanni Gronchi è eletto presidente della Repubblica con i voti dei socialisti e dei comunisti. Si inaugura un periodo di dialogo fra maggioranza e opposizione che si concretizza nello scongelamento della Costituzione e nel varo di due istituti fondamentali: la Corte Costituzionale e il Consiglio Superiore della Magistratura. Il 1956 è l’anno della grande crisi dei comunisti, traumatizzati prima dalle parole del segretario del Partito comunista sovietico Nikita Chruščëv – la denuncia dei crimini di Stalin e l’apertura a una possibile convivenza pacifica fra socialismo e capitalismo –, poi dalle divisioni interne sull’invasione dell’Ungheria. Mentre la linea politica assunta da Chruščëv sembra minare valori e miti molto profondi e radicati nel comunismo italiano, l’episodio ungherese spacca il partito, costringendo numerose schiere di intellettuali e parecchi dirigenti ad abbandonarlo, e segna una cesura irreversibile con i socialisti di Pietro Nenni, che iniziano in tal modo la loro lenta marcia di avvicinamento all’area di governo.
Ai vertici della Rai è nominato Marcello Rodinò di Migliore, ingegnere elettronico napoletano e manager di già acquisita esperienza, che sembra essere l’uomo più adatto a governare una controllata laicizzazione dell’ente. Egli perfeziona le idee di Guala, razionalizza e potenzia l’azienda e in qualche modo favorisce e asseconda una sostanziale divisione del potere interno, delegando a se stesso le vesti di responsabile e di garante della funzionalità delle strutture e dei prodotti e lasciando al potere politico il controllo dell’informazione. Per quanto possa apparire strana e poco esemplare, una strutturazione di questo genere consente una maggiore autonomia produttiva sul versante dei programmi, i quali comunque rappresentano la parte maggiore del palinsesto televisivo. E non può essere un caso se sono proprio il teatro, il varietà, la cultura e l’intrattenimento – e non, invece, l’informazione – a determinare il tratto di distinzione della televisione delle origini.
Sul versante della struttura aziendale, la Rai di quegli anni, a differenza di tutti gli altri enti televisivi europei, adotta una strategia tesa ad estendere il servizio nel più rapido tempo possibile, proprio puntando su quelle nuove dinamiche di socializzazione che sin dai primissimi giorni di programmazione avevano caratterizzato il consumo televisivo. La diffusione rapida del servizio, naturalmente, consente di proporre modelli di informazione e di comportamento standardizzati e controllati, ma consente anche di rispondere alla crescente fame del nuovo mezzo manifestata dal pubblico. Una proposta che, visto il limitato potere d’acquisto della gran parte degli italiani, si canalizza in via del tutto naturale nella fruizione collettiva, la quale grazie al potere suggestivo della ritualità si sedimenta e si rafforza maggiormente in un immaginario certamente non povero, ma decisamente ancora ingenuo. Una tale strategia pone le basi, fra l’altro, per la determinazione, negli anni a venire, di un consumo televisivo di dimensioni impensabili in altri paesi occidentali.
Anche la costruzione dell’apparato televisivo è del tutto nuova, proponendo un modello fino ad allora sconosciuto dall’industria culturale italiana: è separato da tutti gli altri apparati del tempo libero e produce beni di consumo in regime di monopolio. Soprattutto, rovescia – con una inversione di tendenza rispetto alla modernizzazione delle dinamiche imprenditoriali – la logica capitalistica della produzione condizionata dal consumo, per cui non è più il pubblico a determinare i prodotti, ma sono questi a formare il pubblico (Monteleone, 1992).
Sul versante dei contenuti, infatti, la Rai adotta una rigida separazione fra il momento ideativo e il momento produttivo e inaugura un modello di programmazione in cui la tipologia del prodotto genera la tipologia del pubblico e la modalità di consumo. Il vertice Rai da un lato inaugura una serie di corsi formativi, con l’intento di selezionare nuovi programmisti, nuovi giornalisti, nuovi dirigenti. I corsi, voluti da Guala e affidati a Pier Emilio Gennarini, erano tesi a formare una generazione di manager-intellettuali, al corrente delle problematiche tecniche, ma di formazione rigorosamente umanistica, capaci così di indirizzare i programmi e il lavoro dei registi e di dialogare al contempo, e alla pari, con le varie istituzioni culturali del paese. Entrano in Rai personalità come Fabiano Fabiani, Emanuele Milano, Angelo Guglielmi, Furio Colombo, Umberto Eco, Gianni Vattimo, segno evidente della reale intenzione di voler proporre e costruire un progetto di elevato livello, nel quale potessero confluire tradizioni storiche e culturali di matrice diversa, non necessariamente appiattite sulla sola identità cattolica. Dall’altro lato, disegna una programmazione strutturata secondo schemi molto rigidi, i quali, tuttavia, assolvono a funzioni legate proprio a quella concezione di accompagnamento della modernizzazione del paese di cui si è detto più sopra. Si tratta di un palinsesto teso certamente ad allontanarsi il più possibile dal modello ‘di flusso’ della televisione americana – per paura, pure, di una spirale consumistica –, ma anche a pre...
Indice dei contenuti
- Premessa
- Per cominciare
- Un lungo dopoguerra, 1945-1954
- Sotto il segno di «Carosello», 1954-1979
- Il boom della pubblicità, 1979-1992
- L’epoca della maturità, 1992-2000
- Gli anni dell’incertezza, 2001-2005
- Ringraziamenti
- Bibliografia