
- 158 pagine
- Italian
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L'Inquisizione nell'Italia moderna
Informazioni su questo libro
Le strutture, gli obiettivi e le strategie dell'Inquisizione romana nei circa 250 anni lungo i quali una rete di tribunali speciali preposti alla tutela dell'ortodossia ha presidiato l'Italia, cambiandone radicalmente la mentalità.
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Informazioni
Argomento
Teologia e religioneCategoria
Storia modernaNel tardo Cinquecento: un tribunale pensato per sfidare i secoli
1. Le istituzioni
Il breve, ma intenso pontificato di Pio V aveva chiuso un trentennio pesante, a tratti angoscioso, con un lusinghiero risultato. Anche grazie allo zelo da lui mostrato, prima da inquisitore generale, poi da papa, l’Italia poteva dirsi definitivamente «guarita» dal contagio del dissenso ispirato alla Riforma protestante. Con freddezza e determinazione, usando più il terrore che la misericordia, l’Inquisizione romana aveva rimarginato le ferite che avevano messo a lungo in discussione la sopravvivenza stessa della Chiesa cattolica. La sua capacità di coordinamento e di guida aveva supplito egregiamente alle manchevolezze delle istituzioni giudiziarie locali e alla collaborazione, non sempre scontata e disinteressata, delle autorità dello Stato. Non a caso, il supporto decisivo era venuto agli inquisitori generali dalle Nunziature apostoliche e dalla rete dei Collegi gesuiti, cioè dalle strutture ecclesiastiche «territoriali» più strettamente dipendenti dai vertici romani. Spento nel sangue il fuoco dell’eresia, si aprivano però scenari nuovi.
La questione più ovvia riguardava l’Italia. Era davvero opportuno che un organismo universale, ma particolarmente legato, soprattutto nelle sue articolazioni giudiziarie, ai problemi della società italiana, continuasse a mantenere una pressione così accentuata su un paese ormai libero da ogni «infezione»? Oltre tutto, le istituzioni ecclesiastiche locali stavano vivendo in Italia una stagione di forte ripresa: nulla avrebbe impedito di ridimensionare la fisionomia giudiziaria del Sant’Ufficio.
Un’alternativa alle deboli strutture inquisitoriali periferiche poteva essere offerta proprio dai tribunali diocesani. I vescovi, che avevano contribuito, sia pur in misura modesta, alla caccia agli eretici, erano formalmente abilitati alla tutela dell’ortodossia, anche nelle sedi in cui erano presenti gli inquisitori, e nel Regno di Napoli erano di fatto le sole autorità ecclesiastiche ad interessarsi ordinariamente del Sant’Ufficio. Quell’ipotesi, se mai fu presa in considerazione, dovette però apparire ai cardinali della Congregazione poco funzionale. Essa non avrebbe dato loro le stesse garanzie di fedeltà e di efficienza offerte sino ad allora dalla collaborazione dei Nunzi apostolici e dei gesuiti. Si decise invece di rafforzare e ampliare la rete dei tribunali guidati da francescani e domenicani, che perpetuavano, spesso stancamente, l’eredità dell’Inquisizione medievale.
Si cominciò da una prima, importante innovazione. La nomina degli inquisitori passò dagli Ordini di appartenenza alla Congregazione del Sant’Ufficio, con tutte le conseguenze che ciò comportava: dalla più precisa definizione territoriale dell’area di cui ciascuno di essi era responsabile ai rigorosi obblighi gerarchici che presto ne ritmarono le attività, in una struttura che continuò ad essere fortemente centralizzata. Non fu una decisione imposta a un certo punto, in un solo momento, a tutti gli inquisitori in attività, ma intorno al 1580 il nuovo meccanismo era ormai operante quasi ovunque, con l’esclusione, s’intende, delle zone in cui non fu possibile o non si ritenne conveniente «piazzare» degli inquisitori. Il primo caso si riferisce essenzialmente al Regno di Napoli. Nella più grande formazione statale della penisola, la situazione di stallo pregressa, con i vicari generali dell’archidiocesi napoletana responsabili quasi solo virtualmente dell’Inquisizione in tutto il Regno, trovò uno sbocco altrettanto debole nel 1585, nella nomina di ministri del Sant’Ufficio residenti nella capitale, ma incaricati di vigilare su tutta l’Italia meridionale. Il disappunto degli inquisitori generali per quella sistemazione fu forte e persistente, anche perché i loro uomini di fiducia furono ostacolati in ogni modo dalla Curia arcivescovile di Napoli e non ebbero mai un ruolo di primo piano, neppure nella città in cui vivevano.
La scelta di lasciare immutate le strutture preesistenti e di affidarsi ai vescovi riguardò invece una parte limitata della penisola. È il caso del Lazio, dove era piuttosto facile per la Congregazione del Sant’Ufficio intervenire direttamente, almeno nei casi più gravi, o con l’avocazione dei processi, o con l’invio di propri commissari. Ma un certo spazio fu lasciato ai vescovi anche in tutte le diocesi dell’Italia centrosettentrionale dove la lontananza delle sedi inquisitoriali ne fece a lungo i soli o i principali responsabili delle cause di fede. Ovunque, inoltre, prelati e abati nullius continuarono a godere parzialmente delle loro tradizionali prerogative, anche se in molti casi dovettero difenderle con forza (si pensi agli abati di Nonantola e ai loro conflitti con gli inquisitori di Modena). Tutto sommato, però, le conseguenze dell’irregolare distribuzione degli inquisitori sul territorio italiano si avvertirono pesantemente soltanto nel Regno di Napoli. La frammentazione delle diocesi, la povertà di molte di esse, il fastidio o il disinteresse per il Sant’Ufficio manifestati da vescovi provenienti spesso dalla Spagna o dall’Italia del Nord, che abitualmente non vedevano l’ora di essere trasferiti: la convergenza di questi elementi spiega perché nel Sud del paese la difesa giudiziaria dell’ortodossia fu debole e saltuaria. Solo la curia arcivescovile di Napoli esercitò una vigilanza assidua, soprattutto nella capitale, garantendo, pur con molte contraddizioni interne, controlli all’altezza di quelli assicurati nel Centro-Nord dalla rete inquisitoriale propriamente detta.
Cominciò così a funzionare, con precisi limiti territoriali, un sistema giudiziario che ebbe il tratto più caratteristico nella spiccata dipendenza dei suoi rappresentanti periferici dalla Congregazione del Sant’Ufficio. Scambi di corrispondenza regolari e ravvicinati nel tempo tra gli inquisitori generali e i loro delegati locali furono dall’inizio degli anni ’70 il segno più appariscente della riorganizzazione dei nuovi tribunali. Essi riguardarono però in misura piuttosto limitata i vescovi, sia quelli dell’Italia centrosettentrionale, sia quelli dello Stato pontificio, sia soprattutto quelli disseminati nel Regno di Napoli. Invece, l’intensità e la puntualità dei rapporti con il centro trasformarono ovunque, nel giro di pochi anni, le sedi inquisitoriali periferiche in uffici dalle caratteristiche tendenzialmente omogenee e il lavoro che vi si svolgeva in un’attività valutata secondo criteri di funzionalità ed efficienza. I loro titolari erano premiati, quando lo meritavano, con elogi e trasferimenti in sedi importanti, ma si vedevano raggiunti da provvedimenti disciplinari di gravità variabile, fino al licenziamento o alla carcerazione, se commettevano abusi o errori. Sul piano strettamente processuale, la nuova strategia della Congregazione si tradusse molto presto in una serie di regole piuttosto precise, che mirarono a consolidare il monopolio degli inquisitori locali sulle violazioni dell’ortodossia e a fissare lo «stilo» dei loro tribunali.
Il primo obiettivo fu raggiunto innanzi tutto attraverso una netta, progressiva riduzione del contributo delle autorità statali alle attività inquisitoriali, ormai ritenuto incompatibile con il diritto delle istituzioni ecclesiastiche a tutelare da sole la purezza della fede. Solo nelle atipiche situazioni preesistenti di Genova, Venezia e Lucca una forte presenza statale continuò a farsi sentire. Nel resto d’Italia, vescovi e inquisitori furono addestrati a procedere rigorosamente da soli e a servirsi il meno possibile del braccio secolare. Esso fu utilizzato soltanto per le decisioni che i giudici del Sant’Ufficio non erano in grado di applicare con le proprie forze (la cattura dei ricercati, ma spesso anche la loro detenzione) o non potevano eseguire, per non incorrere nella sanzione canonica dell’irregolarità (è il caso delle pene corporali, che gli ecclesiastici devono delegare, perché non possono macchiarsi del sangue dei fratelli). Nelle altre fasi della loro attività, vescovi e inquisitori furono fermamente richiamati a non consentire in alcun modo l’intervento di laici. Si ribadì, inoltre, l’obbligo del segreto sulle cause in corso e della cautela nella conservazione degli atti: il riserbo doveva diventare la regola quotidiana, sia per i giudici e i collaboratori del Sant’Ufficio, sia per i testimoni e gli inquisiti.
Ridimensionato il ruolo delle autorità statali e riaffermata l’assoluta segretezza che doveva accompagnare le attività dei rinnovati tribunali, il monopolio inquisitoriale sulle cause di fede poteva essere insidiato da un solo ostacolo: l’esistenza, riconosciuta e minuziosamente regolata fin dal Trecento, di precise prerogative dei vescovi. Come gli inquisitori, anch’essi erano abilitati ad assumere autonome iniziative giudiziarie in ambito ereticale. Gli uni e gli altri erano però obbligati a decidere insieme le fasi cruciali dei processi, come l’irrogazione delle torture o l’emanazione delle sentenze. Verso la metà del secolo, nell’urgenza della caccia agli eretici, si era tenuto poco conto di quelle regole. Negli anni ’70, invece, quando all’orizzonte, per la Chiesa italiana, non c’erano emergenze così drammatiche, una più stretta collaborazione tra autorità diocesane e inquisitori avrebbe potuto offrire consistenti vantaggi: ad esempio, accelerare l’applicazione dei decreti di un concilio che aveva anche trovato il tempo per attribuire ai vescovi poteri autonomi di assoluzione degli eretici occulti nel foro della coscienza.
Ma la Congregazione decise altrimenti, pur senza pronunce formali, e pur premurandosi, di tanto in tanto, di ribadire la validità della decisione tridentina e delle disposizioni trecentesche. Infatti, in tutti i conflitti tra vescovi e inquisitori che fu chiamata a risolvere, si guardò bene, di fronte al monopolio rivendicato dagli «specialisti» di sua nomina, dall’assumere posizioni di difesa dei diritti vescovili conculcati.
Non risulta, ad esempio, che abbia vietato la prassi, instaurata a Pisa dagli inquisitori all’inizio degli anni ’70, di evitare ogni coinvolgimento del tribunale diocesano nelle fasi processuali in cui sarebbero stati obbligati a farlo. Al contrario, allorché nel 1581, nel corso dell’ennesima scaramuccia, il vicario generale e parecchi canonici della Cattedrale picchiarono di santa ragione nella sua chiesa l’inquisitore e molti altri frati, i cardinali del Sant’Ufficio lo convocarono a Roma, lo ammonirono e lo obbligarono a chiedere perdono al loro ufficiale. Ovviamente, l’autonomia decisionale pressoché assoluta degli inquisitori pisani continuò senza problemi. La Congregazione si comportò allo stesso modo nel 1588 nei confronti del vicario generale di Napoli, che aveva osato arrestare il notaio del ministro dell’Inquisizione delegata, da pochi anni insediato nella stessa città. La decisione fu annullata e il prelato subì un severo rimprovero, ma nulla cambiò sul piano istituzionale: il tribunale delegato continuò a vivere, sia pur schiacciato dalla locale curia arcivescovile. Dal tardo Cinquecento, insomma, ostacoli e resistenze non impedirono agli inquisitori italiani di procedere autonomamente, senza rendere conto ad altri che ai superiori romani. La sottoscrizione delle sentenze rimase il solo contentino lasciato, non sempre tra l’altro, ai vescovi.
Alla stessa strategia si possono collegare numerosi altri provvedimenti adottati nel tardo Cinquecento dai supremi custodi dell’ortodossia. Anche Sisto V, l’ennesimo illustre esponente del Sant’Ufficio asceso al soglio di Pietro, era ben informato, e sinceramente dispiaciuto, delle prevaricazioni degli inquisitori a danno dei vescovi. Il suo rammarico non impedì però alla Congregazione di intraprendere il cammino programmato. Si smembrarono alcuni tribunali (allo scorporo dell’Inquisizione di Parma, separata da quella di Piacenza nel 1588, si aggiunse nel 1599 la divisione tra le sedi di Modena e Reggio Emilia); si istituirono ex novo, tra molti contrasti, nuove sedi (a Besançon nel 1587 e a Tolosa nel 1597; ad Aosta la decisione, adottata nel 1588, non ebbe sèguito; nel 1590 andò male anche a Sebenico, dove l’inquisitore fu incarcerato e poi esiliato); infine, nell’ultimo decennio del secolo, varie diocesi furono assoggettate alla giurisdizione dei tribunali inquisitoriali territorialmente più vicini (Fossano e Nizza, subordinate all’inquisitore di Torino; Trieste, dichiarata di competenza dell’inquisitore di Capodistria; Massa Carrara, affidata prima a Siena e poi a Genova) e si delimitarono i privilegi di foro goduti da altre autorità ecclesiastiche locali (è ciò che successe ad esempio al preposto di Pinerolo, obbligato dal 1597 ad inviare copia delle sentenze e delle abiure all’inquisitore di Torino). Le fondamenta del nuovo edificio erano state gettate: mentre il contributo statale era ridotto quasi ovunque al minimo, una rete diffusa di delegati del Sant’Ufficio punteggiava una parte consistente della penisola, con l’esclusione rilevante dell’Italia meridionale.
2. Le competenze
Più numerosi di prima, più forti sul piano locale, anche se vincolati come non mai al rispetto di obblighi inderogabili verso i cardinali del Sant’Ufficio che li nominavano, gli inquisitori di questi anni cominciarono forse a domandarsi quali obiettivi erano chiamati a raggiungere, o, quantomeno, come dovevano organizzare la loro attività. Pericoli immediati per l’ortodossia non se ne vedevano, anche se alcune esigenze di tutela si potevano considerare un compito permanente dei loro uffici: la difesa degli italiani dall’eresia e dai rischi di contagio provenienti dalla propaganda protestante ed ebraica, ma anche dall’attrattiva esercitata dal mondo ottomano, il controllo della circolazione libraria, complicato peraltro dai contrasti tra Congregazione dell’Indice e Sant’Ufficio, le competenze sulle rappresentazioni teatrali e sulle arti figurative, l’attenzione per i comportamenti degli ebrei, convertiti e non, e per la vita religiosa dei greci. Furono considerate zone particolarmente «calde» l’area nordoccidentale, legata da stretti rapporti ai paesi d’Oltralpe, le incerte frontiere spirituali del Nord-Est e i grandi porti, che non potevano evitare gli scambi commerciali con i paesi protestanti ed erano direttamente interessati alle alterne vicende della guerra di corsa tra cristiani e musulmani, ma anche le fortezze e le aree di acquartieramento delle soldatesche, insieme a tutti i luoghi dove potevano più facilmente circolare gli stranieri, a cominciare dagli ospedali. Non solo, perciò, si consolidarono precise gerarchie tra i tribunali del Sant’Ufficio e, ovviamente, tra gli uomini chiamati a guidarli, ma si andò configurando in tutti i distretti inquisitoriali una geografia del pericolo, una mappa delle aree o delle istituzioni più predisposte a rischi di «contagio».
Tuttavia, l’accresciuto zelo inquisitoriale non rimase circoscritto a questi obiettivi. Un giudice del Sant’Ufficio con un po’ di esperienza sapeva che tra i compiti del suo ufficio rientrava anche la lotta a pratiche, quelle magico-diaboliche, che nulla avevano a che spartire con la Riforma, con i libri proibiti o con l’apostasia in senso stretto. Basta un rapido sguardo retrospettivo all’attività degli inquisitori italiani nel corso del secolo per rendersi conto del fatto che essi se ne erano interessati parecchio, sia pur saltuariamente, ed entro precisi limiti. Infatti, rivendicavano competenze al riguardo anche le autorità statali, in particolare per i danni di natura diabolica apportati a terzi, mentre sin dal Medioevo i sortilegi più banali erano stati affidati ai vescovi. L’Inquisizione era abilitata ad intervenire solo quando abuso di sacramenti e rapporti col diavolo integravano i delitti di eresia e di apostasia. Rispetto a questo schema, proprio l’Italia del primo Cinquecento può essere ritenuta, in una prospettiva comparata, una delle aree più attive dell’Europa moderna. Vi circolò precocemente, infatti, l’ossessione del sabba, la misteriosa cerimonia notturna in cui si credeva che le streghe giurassero fedeltà al diavolo con il patto di sangue, consumando cibi insipidi, intrecciando rapporti sessuali privi di piacere e preparando o praticando malefìci mortali, dopo essere giunte ai raduni in volo, in groppa ad animali o a canne. Quella paura si tradusse spesso, soprattutto grazie alle opere di un gruppo di influenti inquisitori domenicani, in comportamenti processuali molto rigorosi. Nella prima metà del secolo, un numero di persone per ora imprecisabile, ma forse non inferiore a qualche centinaio, in buona parte donne, pagò con la vita in Italia le fissazioni di alcuni dei più autorevoli guardiani dell’ortodossia e di un certo numero di giudici secolari. L’attenzione degli inquisitori italiani per la stregoneria non si spense del tutto neppure negli anni della grande caccia agli eretici. Lo stesso Paolo IV diede il suo personale contributo a quella battaglia, autorizzando nel 1559 la condanna a morte di quattro donne a Bologna, con una consapevole forzatura della normativa abitualmente applicata dall’Inquisizione.
Proprio la magia diabolica e la stregoneria diventarono nel corso degli anni ’70, e ancor più nei decenni successivi, l’occupazione principale dei tribunali del Sant’Ufficio in Italia. A questo dato si accompagna anche una fitta, insistente repressione dei sortilegi più banali, associati abitualmente a devozioni e a preghiere e tradizionalmente esclusi dalle competenze inquisitoriali. Secondo la normativa medievale, in quei casi, qualificati come superstizione semplice, avrebbero dovuto provvedere i vescovi, nell’ambito delle loro facoltà ordinarie. Formalmente, nel tardo Cinquecento, quella distinzione fu mantenuta, ma venne di fatto posta tra parentesi, in quanto si attribuì esclusivamente agli inquisitori il compito di valutare se nelle pratiche magiche si nascondessero deviazioni ereticali. Gli esiti di quella scelta furono scontati. Essi si trovarono catapultati nel giro di pochi anni in un ruolo imprevedibile e imprevisto, alle prese con un mondo che formicolava di usi, cerimonie, tradizioni, rituali di enorme ricchezza. In questo senso si può considerare emblematica la scoperta dei benandanti friulani, semisconosciuti portatori di un culto di fertilità nel cuore dell’Occidente cristiano, oggetto nel 1966 di un celebre libro di Carlo Ginzburg. Da allora si è sviluppata un’intensa serie di ricerche, che promettono ancora sostanziose novità.
Si passò, per ragioni non del tutto chiarite, dal tiepido interesse dei decenni precedenti a un’attenzione molto viva. L’unica decisione formale che influì su questa svolta fu adottata nel 1586 da Sisto V, che con la bolla Coeli et terrae chiuse definitivamente i rapporti tra Chiesa cattolica e magia rinascimentale. Oltre a criminalizzare l’astrologia e le altre forme di magia colta, il documento sistino prevedeva anche, sia pure non esplicitamente, che fossero gli inquisitori ad interessarsi delle cosiddette superstizioni semplici. Non bisogna dimenticare, però, che gli interventi ad ampio raggio del Sant’Ufficio sul fronte magico-diabolico precedono di molti anni la decisione di Sisto V ed esigono quindi spiegazioni più approfondite. Per ora, non ci sono elementi per sostenere che esse siano state determinate da particolari sollecitazioni dei vertici romani. L’avvio della nuova campagna persecutoria sembra maturare in sordina, più come il frutto del rafforzamento complessivo di tutte le istituzioni ecclesiastiche, che per una precisa scelta del Sant’Ufficio. Non è in funzione antimagica, insomma, che la Congregazione riorganizza i suoi tribunali locali.
A far pensare invece a uno stretto collegamento tra i nuovi obiettivi dell’Inquisizione romana e l’accresciuta pressione della Chiesa tutta sull’Italia, sono essenzialmente due considerazioni. Una riguarda il ruolo dei vescovi. Per quanto se ne sa, il tribunale italiano che organizza nel Cinquecento nel modo più precoce e marcato una serrata repressione delle pratiche magico-diaboliche è guidato da una Curia arcivescovile, quella napoletana, non da inquisitori «professionisti». Già intorno al 1567 i suoi giudici, che conservano una spiccata indipendenza dalla Congregazione del Sant’Ufficio, sono in grado di istruire processi di magia e stregoneria anche lunghi e complicati. Nulla di più sbagliato che vedere nelle loro iniziative un...
Indice dei contenuti
- Premessa
- Dal primo Cinquecento a Pio V
- Nel tardo Cinquecento: un tribunale pensato per sfidare i secoli
- Il Seicento, ovvero un lento declino
- Il Settecento, ovvero lo smantellamento dei tribunali inquisitoriali locali
- Bibliografia
- Cronologia