Il nuovo Umanesimo
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Il nuovo Umanesimo

  1. 216 pagine
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Il nuovo Umanesimo

Informazioni su questo libro

Non è un caso che oggi si parli molto di un nuovo Umanesimo: perché l'Umanesimo ridiventa attuale ogni volta che si riapre l'interrogazione sulla condizione dell'uomo e del suo destino.

Viviamo tempi in cui stanno cadendo gli architravi del vecchio mondo, e non sappiamo che caratteri avrà ciò che, nel bene e nel male, sta faticosamente nascendo. È in questo contesto, di crisi e di trasformazione, che il problema dell'uomo e del suo destino ridiventa centrale. La lezione dell'Umanesimo ritorna così particolarmente attuale. È possibile oggiun nuovo Umanesimo, un nuovo Rinascimento?Infatti, alla radice, esso è sempre stato un'interrogazione sulla condizione umana. Rileggerne i testi è, dunque, un'esperienza preziosa. Affiorano da queste pagine la visione dell'uomo come 'grande miracolo' ma anche giocattolo nelle mani degli dei; la concezione del mondo come teatro; la funzione della maschera; l'esercizio della dissimulazione; l'immagine come nuova chiave di accesso alla verità; la renovatio mundi; la ricerca di un nuovo significato dell'uomo nell'universo infinito; la funzione della praxis.

Domande frequenti

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Informazioni

1.
La condizione umana

L’analisi della humaine condition, per citare la famosa espressione di Montaigne, attraversa la riflessione dei maggiori esponenti dell’Umanesimo e del Rinascimento italiani ed europei, sviluppandosi in forme assai diverse. Nei suoi esiti più radicali, essa si configura anche come una serrata critica alle concezioni di matrice antropocentrica, sbeffeggiate a volte in toni addirittura sarcastici.
Testi come i Ghiribizzi al Soderino di Machiavelli e gli stessi Ricordi di Guicciardini si pongono in polemica frontale con le tendenze ermetiche della Firenze quattrocentesca e, in generale, con l’esaltazione della dignitas hominis, rappresentata da opere di notevole rilievo, come il De dignitate et excellentia hominis di Giannozzo Manetti, composto tra il 1450 e il 1451, e, soprattutto, la Oratio de hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola, del 1486 – a lungo considerata come il manifesto dell’Umanesimo –, in cui l’uomo-camaleonte, faber fortunae suae, è ritenuto, sulla scia dell’Asclepius ermetico, un magnum miraculum.
Situandosi su un versante opposto, Alberti – la cui opera ha importanti punti di contatto con il De miseria humanae conditionis di Poggio Bracciolini, scritto intorno al 1455 – e Machiavelli dissolvono ogni pretesa antropocentrica, l’uno in una cruda rappresentazione della debolezza dell’uomo, privo di armi di difesa ed esposto alla violenza delle fiere e degli agenti naturali; l’altro attraverso una disincantata disamina del carattere essenzialmente limitato della natura umana, stretta tra i condizionamenti derivanti dal temperamento e l’incapacità di adeguarsi al variare delle circostanze. L’uomo – non più al centro dell’universo e unico essere in grado di autodeterminarsi – appare quindi in tutta la sua fragilità, anche con le sue malattie – dettagliatamente elencate, facendo ricorso ad un lessico medico, da Cardano nella sua autobiografia e da Pontormo nel Diario. Dell’uomo, in continuo mutamento, può essere unicamente tratteggiato un ritratto dai contorni mutevoli, come insegna l’esperienza a un tempo letteraria e umana di Montaigne: «non descrivo l’essere, descrivo il passaggio...».

1.1. «Omo... quasi umbra d’un sogno»

Non adunque dobbiamo maravigliarci, omicciuoli mortali e sopra tutti gli altri animali infermissimi, se mai quando che sia riceviamo qualche calamità, poiché noi vediamo le terre e provincie intere suggette ad ultimi estermini e ruine. E quale stolto non aperto conosce l’uomo, come dicea Omero, sopra tutti gli altri animanti in terra vivere debolissimo. Sentenza di Pindaro, poeta lirico, l’omo essere quasi umbra d’un sogno. Nacque l’uomo fra tanto numero d’animanti, quanto vediamo, solo per effundere lacrime, poiché subito uscito in vita a nulla prima se adatta che a piangere, sì come che instrutto dalla natura presentisca le miserie a quali venne in vita, o come gli dolga vedere che agli altri tutti animali sia dato dalla natura vario e utile vestire, lana, setole, spine, piuma, penne, squame, cuorio e lapidoso scorzo, e persino agli albori stieno sue veste duplicate l’una sopra all’altra contro el freddo e non disutile a diffendersi dal caldo, l’uomo solo stia languido giacendo nudo e in cosa niuna non disutile e grave a sé stessi. Agiugni che dal primo dì vedesi collegato in fascie e dedicato a perpetua servitù, in quale poi el cresce e vive. Non dunque iniuria, subito che nasce, piange la sua infelicità, né stracco di dolersi prima prende refrigerio a’ suoi mali, né prima ride se non quando se stessi contenne in tristezza interi almeno quaranta dì. Di poi cresce in più ferma età quasi continuo concertando contra alla debolezza, sempre in qual vuoi cosa desiderando e aspettando l’aito d’altrui. Nulla può senza precettore, senza disciplina, o al tutto sanza grandissima fatica, in quale sé stessi per tutta la sua età esserciti. In puerizia vive mesto sotto el pedagogo; e seguenli suoi giorni in gioventù solliciti e pieni di cure ad imparare leggi e instituiti della patria sua; e poi sotto la censura del vulgo in più età ferma posto soffre infiniti dispiaceri. E quando el ben sia compiuto e offirmato in sue forza e membra, e ornato d’ogni virtù e dottrina, non però ardisce non temere ogni minima bestiuola, e nato per imperare a tutti gli animanti conosce quasi a tutti gl’animali sua vita e salute essere sottoposta. Un verminuccio el molesta; ogni minima puntura l’uccide. Scriveno e’ poeti che a Orione, figliuolo di Iove, compagno di Diana, gloriandosi d’essere sopra degli altri fortissimo e potere uccidere qualunque fera a lui si opponesse, gli dii comossi dierono che un picciolo scorpione lo atterrò in morte. Affermano e’ medici una moscolina pasciuta d’un cadavere venenoso potere essere mortifera. E raccontano e’ fisici trovarsi uno animale chiamato salamandra quale solo salendo avenena tutti e’ pomi in su quello albero dove e’ salse, di veneno simile all’acconito, ed esserne già periti e’ populi. Potrei estendermi in quante erbe, in quanti frutti, in quanti animali, in quante cose la natura vi ponesse contro di noi veneno e morte, e quasi possiamo affermare nulla trovarsi fra e’ mortali in quale non sia forza di darci a morte. Un pelo beuto fra el latte strangolò Fabbio senatore. Uno acino d’uva strozzò Anacreonte filosofo. [...] E non solo queste cose materiali, ma e in qualunque vòi altra cosa troverai morte. L’agitazion dell’animo ci sta mortale. [...] Agiugni le altre infermità quale già tante passate età con tante vigilie, tante investigazioni, tanta industria, tanta copia di scrittori e volumi, tanta varietà di rimedi possono né vietarle né ben distorle. E insieme aggiugni e’ nuovi e vari morbi quali di dì in dì surgono a’ mortali. [...] Né truovasi animale alcuno tanto da tutti li altri odiato quanto l’uomo. Agiugni ancora quanto a sé stessi l’uomo sia dannoso con sua ambizione e avarizia e troppa cupidità del vivere in delizie e ozio pieno di vizi; qual cose non meno che gli altri suoi infortuni premono e’ mortali. Agiugni la somma stoltizia quale continuo abita in le menti degli uomini, poiché di cosa niuna contento né sazio sempre sé stessi molesta e stimola. Gli altri animali contenti d’un cibo quanto la natura richiede, e così dare opra a’ figliuoli servano certa legge in sé e certo tempo: all’uomo mai ben fastidia la sua incontinenza. Gli altri animali contenti di quello che li si condice: l’omo solo sempre investigando cose nuove sé stessi infesta. Non contento di tanto ambito della terra, volle solcare el mare e tragettarsi, credo, fuori del mondo; volle sotto acqua, sotto terra, entro a’ monti ogni cosa razzolare, e sforzossi andare di sopra e’ nuvoli. [...] O animale irrequieto e impazientissimo di suo alcuno stato e condizione, tale che io credo che qualche volta la natura, quando li fastidii tanta nostra arroganza che vogliamo sapere ogni secreto suo ed emendarla e contrafarla, ella truova nove calamità per trarsi giuoco di noi e insieme essercitarci a riconoscerla. Che stoltizia de’ mortali, che vogliamo sapere e quando e come e per qual consiglio e a che fine sia ogni instituto e opera di Dio, e vogliamo sapere che materia, che figura, che natura, che forza sia quella del cielo, de’ pianeti, delle intelligenze, e mille secreti vogliamo essere noti a noi più che alla natura. Che se un tuo figliuolo, non voglio dire un simile a te, verso chi governa el cielo, volesse riconoscere ogni tua opera e pensiero, tu credo non iniuria li porteresti odio capitale. Nascose la natura e’ metalli, nascose l’oro e l’altre miniere sotto grandissimi monti e ne’ luoghi desertissimi. Noi frugoli omicciuoli lo producemmo in luce e ponemmolo fra primi usi. Ella disperse le gemme lucidissime e in forma quanto a lei ottima maestra parse attissima. Noi le raccogliemmo persino dalle ultime ed estremissime regioni, e cincischiànle, diamoli nuova lima e forma. Ella distinse gli albori e suoi frutti. Noi gli adulteriamo innestandoli e coniungendoli. Diedeci fiumi quali ne saziassero assetati, e ordinò loro corso libero ed espedito, ma a noi come all’altre cose esposteci dalla natura, benché perfetta, fastidirono le fonte e i fiumi, onde trovammo quasi ad onta della natura profondi pozzi. Né di questo sazi, con tanta fatica, con tante spese, con tanta sollicitudine, solo fra tutti animanti a cui fastidii l’acqua naturale e ottimo liquore, trovorono el vino, non tanto a saziare la sete, quanto a vomitarlo, come se in altro modo non ben si potesse versarlo delle botti. E a questo uso fra le prime pregiate cose el serbano, e piaceli quello che li induca spesso in brutto furore e ultima insania; tanto nulla pare ci piaccia altro che quello quale la natura ci nega, e quello ci diletta in che duriamo fatica dispiacendo in molti modi alla natura. [...] Aggiungi ancora la poca concordia dell’uomo quale egli ha con tutte le cose create e seco stessi, quasi come giurasse in sé osservare ultima crudeltà e immanità. Volle el suo ventre essere publica sepultura di tutte le cose, erbe, piante, frutti, uccelli, quadrupedi, vermi, pesci; nulla sopra terra, nulla sotto terra, nulla che esso non divori. Inimico capitale di ciò che vede e di quello che non vede, tutte le volle a servitù; inimico della generazione umana, inimico a se stessi. Lupo dicea Plauto poeta essere l’uomo agli altri uomini. In quale animante troverai tu maggiore rabbia che nello uomo? Amiche insieme sono le tigri, amici fra loro e’ leoni, e’ lupi, gli orsi; qual vuoi animale venenosissimo irato perdona ai simili a sé. L’uomo efferatissimo si truova mortale agli altri uomini e a se stessi. E troverai più uomini essere periti per cagion degli altri uomini che per tutte l’altre calamità ricevute.
[L.B. Alberti, Theogenius, in Id., Opere volgari, a cura di C. Grayson, 3 voll., Laterza, Bari 1960-1973, vol. II, pp. 89-94]

1.2. «Grande miracolo... è l’uomo»

Negli scritti degli Arabi ho letto, Padri venerandi, che Abdalla Saraceno, richiesto di che gli apparisse sommamente mirabile in questa scena del mondo, rispondesse che nulla scorgeva più splendido dell’uomo. E con questo detto si accorda quello famoso di Ermete: «Grande miracolo, o Asclepio, è l’uomo».
Ora mentre ricercavo il senso di queste sentenze non mi soddisfacevano gli argomenti che in gran numero vengon recati da molti sulla grandezza della natura umana: essere l’uomo vincolo delle creature, familiare alle superiori, sovrano delle inferiori; interpetre della natura per l’acume dei sensi, per l’indagine della ragione, per la luce dell’intelletto, intermedio fra il tempo e l’eternità e, come dicono i Persiani, copula, anzi Imeneo del mondo, di poco inferiore agli angeli, secondo la testimonianza di David. Grandi cose queste, certo, ma non le più importanti, non tali cioè per cui possa arrogarsi il privilegio di una ammirazione senza limiti. Perché, infatti, non ammirare di più gli angeli e i beatissimi cori del cielo?
Ma finalmente mi parve di avere compreso perché l’uomo sia il più felice degli esseri animati e degno perciò di ogni ammirazione, e quale sia la sorte che toccatagli nell’ordine universale è invidiabile non solo per i bruti, ma per gli astri, per gli spiriti oltremondani. Incredibile e mirabile! E come altrimenti, se proprio per essa giustamente l’uomo vien detto e ritenuto un miracolo grande e un meraviglioso essere animato?
Ma quale essa sia ascoltate, o Padri, e porgete benigno orecchio, nella vostra cortesia, a questo mio discorso.
Già il Sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato secondo le leggi di un’arcana sapienza questa dimora del mondo quale ci appare, tempio augustissimo della divinità. Aveva abbellito con le intelligenze la zona iperurania, aveva avvivato di anime eterne gli eterei globi, aveva popolato di una turba di animali d’ogni specie le parti vili e turpi del mondo inferiore. Senonché, recato il lavoro a compimento, l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. Perciò, compiuto ormai il tutto, come attestano Mosè e Timeo, pensò da ultimo a produrre l’uomo. Ma degli archetipi non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori uno ve n’era da largire in retaggio al nuovo figlio, né dei posti di tutto il mondo uno rimaneva in cui sedesse codesto contemplatore dell’universo. Tutti erano ormai pieni, tutti erano stati distribuiti nei sommi, nei medi, negli infimi gradi. Ma non sarebbe stato degno della paterna potestà venir meno, quasi impotente, nell’ultima fattura; non della sua sapienza rimanere incerto in un’opera necessaria per mancanza di consiglio; non del suo benefico amore, che colui che era destinato a lodare negli altri la divina liberalità fosse costretto a biasimarla in se stesso. Stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: «non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine».
O suprema liberalità di Dio padre! o suprema e mirabile felicità dell’uomo! a cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole. I bruti nel nascere seco recano dal seno materno tutto quello che avranno. Gli spiriti superni o dall’inizio o poco dopo furono ciò che saranno nei secoli dei secoli. Nell’uomo nascente il Padre ripose semi d’ogni specie e germi d’ogni vita. E secondo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. E se saranno vegetali sarà pianta; se sensibili, sarà bruto; se razionali, diventerà animale celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. Ma se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fatto uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine del Padre colui che fu posto sopra tutte le cose starà sopra tutte le cose.
Chi non ammirerà questo nostro camaleonte? o piuttosto chi ammirerà altra cosa di più? Di lui non a torto Asclepio ateniese, per l’aspetto cangiante e la natura mutevole, disse che nei misteri era simboleggiato da Proteo. Di qui le metamorfosi celebrate dagli Ebrei e dai Pitagorici.
[G. Pico della Mirandola, De hominis dignitate, a cura di E. Garin, introduzione di M. Ciliberto, Edizioni della Normale, Pisa 2012, pp. 3-7]

1.3. Gli uomini non comandano alle stelle

Una vostra lettera mi si presentò in pappafico; pure, dopo dieci parole la riconobbi. Et veramente io credo la frequentia di Piombino per conoscervi; et delli impedimenti vostri et di Filippo son certo, perché io so che l’uno è offeso da el poco lume et l’altro da el troppo. Gennaio non mi dà noia, pure che febraio mi regha fra le mani. Dolgomi del sospetto di Filippo, et suspeso ne attendo el fine. Fu la vostra lettera breve, et io, rileggiendo, la feci lungha. Fummi grata perché mi dètte occasione ad fare quello che io dubitavo di fare, et che voi mi ricordate che io non faccia; et solo questa parte ho riconosciuta in lei sanza proposito. Di che io mi maraviglerei, se la mia sorte non mi havessi mostre tante cose et sì varie, che io sono constrecto ad maraviglarmi poco o confessare non havere gustate né leggiendo né pratichando le actioni delli huomini et e modi del procedere loro. Conoscho voi et la bussola della navigatione vostra; et, quando potessi essere dannata, che non può, io non la dannerei, veggiendo ad che porti vi habbi guidato et di che speranza vi possa nutrire (onde io credo, non con lo spechio vostro, dove non si vede se non prudentia, ma per quello de’ più, che si habbi nelle cose ad vedere el fine et non el mezo), et vedendosi con varii governi conseguire una medesima cosa et diversamente operando havere uno medesimo fine; et quello che manchava ad questa opinione, le actioni di questo pontefice et li effetti loro vi hanno adgiunto. Hannibale et Scipione, oltre alla disciplina militare, che nell’uno et nell’altro excelleva egualmente, l’uno con la crudeltà, perfidia, inreligione mantenne e suoi exerciti uniti in Italia, et fecesi admirare da’ popoli, che, per seguirlo, si ribellavano da e’ Romani; l’altro, con la pietà, fedeltà et religione, in Spagna hebbe da quelli popoli el medesimo séguito; et l’uno et l’altro hebbe infinite vittorie. Ma, perché non si usa allegare e Romani, Lorenzo de’ Medici disarmò el popolo, per tenere Firenze; messer Giovanni Bentivogli, per tener Bologna, lo armò; e Vitelli in Castello et questo duca d’Urbino nello stato suo disfeciono le forteze, per tenere quelli stati; el conte Francesco in Milano et molti altri le edificorno nelli stati loro, per assicurarsene. Tito imperadore, quel dì che non benificava uno, credeva perdere lo stato; qualchun altro, lo crederrebbe perdere el dì che facessi piacere ad qualchuno. A molti, misurando et ponderando ogni cosa, rieschono e disegni suoi. Questo papa, che non ha né stadera né canna in casa, ad caso conséguita, et disarmato, quello che con l’ordine et con l’armi difficilmente li doveva riuscire. Sonsi veduti o veggonsi tucti e soprascripti, et infiniti altri che in simili materia si potrebbono allegare, adquistare regni o domarli o cascarne secondo li accidenti; et alle volte quello modo del procedere che, adquistando, era laudato, perdendo, è vituperato; et alle volte, dopo una lunga prosperità, perdendo, non se ne incolpa cosa alcuna propria, ma se ne accusa el cielo et la dispositione de’ fati. Ma, donde nascha che le diverse operationi qualche volta egualmente giovino o egualmente nuochino, io non lo so, ma desiderrei bene saperlo; pure, per intendere l’opinione vostra, io userò presuntione ad dirvi la mia. Io credo che, come la Natura ha facto ad l’huomo diverso volto, così li habbi facto diverso ingegno et diversa fantasia. Da questo nascie che ciascuno secondo lo ingegno et fantasia sua si governa. Et perché da l’altro canto e tempi sono varii et li ordini delle cose sono diversi, ad colui succedono ad votum e suoi desiderii, et quello è felice che riscontra el modo del procedere suo con el tempo, et quello per opposito, è infelice che si diversifica con le sue actioni da el tempo et da l’ordine delle cose. Donde può molto bene essere che dua, diversamente operando, habbino uno medesimo fine, perché ciascuno di loro può conformarsi con el riscontro suo, perché e’ sono tanti ordini di cose quanti sono provincie et stati. Ma, perché e tempi et le cose universalmente et particularmente si mutano spesso, et li huomini non mutono le loro fantasie né e loro modi di procedere, adcade che uno ha un tempo buona fortuna et uno tempo trista. Et veramente, chi fussi tanto savio che conoscessi e tempi et l’ordine delle cose et adcomodassisi ad quelle, harebbe sempre buona fortuna o e’ si guarderebbe sempre da la trista, et verrebbe ad essere vero che ’l savio comandassi alle stelle et a’ fati. Ma, perché di questi savi non si truova, havendo li huomi...

Indice dei contenuti

  1. Premessa. Quale Umanesimo
  2. Introduzione. Gioco degli dèi, condizione umana
  3. I testi
  4. 1. La condizione umana
  5. 2. Maschera
  6. 3. Libero arbitrio
  7. 4. Filantropia e salvezza universale
  8. 5. Amore e sapienza
  9. 6. Immagine
  10. 7. Città
  11. 8. Tirannide e conflitto
  12. 9. Nuovo Mondo