VI. Non solo parole: corpi melodrammatici nel lungo Quarantotto
Che sono mai le parole? Una lacrima le supera tutte in eloquenza.
Elogio delle lacrime, Lied di Franz Schubert su testo di August Wilhelm Schlegel
Nell’«entusiasmo universale» della streets politics quarantottesca non sono solo i discorsi ma la pratica politica a nutrirsi di melodrammaticità. A invadere la sfera pubblica è una ritualità dal contenuto fortemente emozionale, un repertorio di gesti drammatici particolarmente enfatizzati, una quantità di segni esteriori come abiti, coccarde, bandiere, cappelli che spesso rimandano alle consuete atmosfere storiche del riscatto collettivo e alle narrazioni che, negli anni precedenti, avevano contribuito a costruire un inedito patrimonio simbolico della nazione. Quello che abbiamo definito come un «modo» melodrammatico si esprime non solo nella narrazione della storia nazionale e nella sua divulgazione scritta, ma in una forte tendenza alla drammatizzazione che pervade i conflitti risorgimentali e, in modo particolare, la rivoluzione del Quarantotto.
Non si trattava di un elemento inedito. L’enfasi sulle qualità visibili e performative delle interazioni politiche è particolarmente accentuata nel primo Ottocento, non solo in Italia. Si può dire, anzi, che sia un elemento comune a diversi movimenti politici radicali che si sviluppano nell’Europa del periodo, ponendosi in una linea di continuità più o meno diretta con l’esperienza della Grande rivoluzione, di cui peraltro il 1848 vedrà rivitalizzarsi i linguaggi, i gesti e le ritualità. E permea di sé lo sviluppo delle rivendicazioni e dei movimenti nazionali, più o meno conflittuali che siano con l’ordine esistente. Studi sulle pratiche politiche del giacobinismo e del cartismo inglese, del primo repubblicanesimo e del sansimonismo in Francia, o sui movimenti nazionali in Germania e in Ungheria, hanno mostrato come la costruzione di una prima, vera arena della politica si accompagni nei primi decenni dell’Ottocento a una forte attenzione accordata ai suoi aspetti simbolici e a una spettacolarizzazione dei conflitti che attraversa i comportamenti collettivi in una fase in cui la sfera pubblica ancora trovava nella censura e nel controllo poliziesco limiti notevoli a un libero funzionamento.
In un quadro di questo tipo, in cui gli spazi di libertà e di parola risultavano ancora assai instabili – si aprivano e si chiudevano rapidamente – le dimostrazioni visive e la drammatizzazione delle azioni costituivano dispositivi di espressione politica molto consuete per gli attivisti del periodo, tramite le quali raggiungere e mobilitare un pubblico più largo di quello avvicinabile con la parola scritta.
Questa diffusa volontà di «mettere in scena la rivoluzione» si presta a interpretazioni diverse, persino quando riferita a un medesimo contesto. Lo hanno rilevato alcune ricostruzioni sull’Inghilterra di inizio secolo. L’enfatizzata teatralità dei comportamenti nei movimenti radicali di quella fase è stata letta da James Epstein e David Karr come una reazione e una sfida alle restrizioni della sfera pubblica; da Marc Baer, che ha studiato i moti del Covent Garden (1809), come un modo di smorzare e attenuare il carattere sovversivo e devastante dei conflitti stessi; in generale se ne è sottolineata l’importanza nel costruire un sentimento di legittimità e di appartenenza dei convenuti in una fase ancora preliminare di organizzazione politica. Lo rileva Alain Corbin per la Francia degli anni Venti e Charles Tilly cercando di ricostruire il repertorio delle modalità di azione dei primi movimenti politici e sociali di opposizione. Prima di tentare un’interpretazione di quanto succede in Italia cercheremo dunque di analizzarne da vicino le espressioni e i dispositivi.
Il caso italiano non è del tutto assimilabile a quelli appena citati, quantomeno nella tempistica. Nei primi decenni dell’Ottocento il controllo politico stretto che i governi preunitari mettono in atto su opinioni e comportamenti fa sì che il movimento patriottico non possa che rimanere nella stretta clandestinità. È solo a partire dalle feste e dalle celebrazioni del 1846, e nel triennio che si conclude con la caduta delle repubbliche di Roma e di Venezia, che avviene una prima uscita allo scoperto delle rivendicazioni risorgimentali e insieme ad essa una vera e propria messinscena visiva del discorso politico che le accompagna. Per l’Italia bisogna dunque concentrarsi sul lungo 1848 per ritrovare le dinamiche di cui si è detto: una spettacolarizzazione della master narrative nazionale dai tratti fortemente melodrammatici.
Va detto che in tutta Europa quella del 1848 è considerata da molti osservatori dell’epoca una rivoluzione altamente teatrale. Per descrivere e dare un senso complessivo al racconto dell’accaduto le metafore che richiamano allo «spettacolo della rivoluzione» si sprecano, sia in declinazioni positive che negative. Un testimone d’eccezione del Quarantotto parigino, Alexis de Tocqueville, sostiene che nelle convulse giornate di febbraio sembrava che tutti gli insorti stessero recitando la rivoluzione combattuta dai loro padri. E la cosa sorprendente era che nessuno di loro, per ovvie ragioni generazionali, l’aveva vissuta direttamente. Nel 1850, dall’Italia, a cose fatte, lo storico francese dava di quanto era accaduto la lettura seguente: «Si cercava di riscaldarsi con le passioni dei nostri padri, senza riuscirvi; se ne ricalcavano i gesti e le pose, quali le avevamo viste a teatro [...]. Benché scorgessi chiaramente che l’epilogo del dramma sarebbe stato terribile, non potei mai prendere troppo sul serio gli attori, e il tutto mi parve una pessima tragedia recitata da istrioni di provincia».
In lui, come d’altronde in Marx, il riferimento alla teatralità della rivoluzione era l’espressione di un approccio estremamente critico agli avvenimenti e un tentativo di spiegarne il fallimento. Eppure Tocqueville appare ben consapevole – anche se curiosamente non sembra interessargli troppo indagarne le ragioni – che non si trattava solo di metafore, nel senso che il teatro in quei giorni aveva preso forma nella realtà. Lo testimoniavano i casi di molti curiosi travestimenti che si trova a raccontare, come quello di Armand Marrast alla cui immaginazione si doveva l’idea di far indossare ai membri dell’Assemblea Costituente l’abito dei convenzionali, e in particolare quella sottoveste bianca con i risvolti con cui immancabilmente si rappresentava Robespierre a teatro. Quale che ne fosse la ragione, Tocqueville ci dice che il teatro era entrato di prepotenza nella vita reale e la cosa era apparsa ai protagonisti, in quel momento e solo per poco, del tutto naturale.
In Italia, dove gli spazi di parola e di azione politica erano stati fino a quel momento pressoché inesistenti, questa propensione alla rappresentazione visuale e teatrale dei legami nazionali è marcata e segna l’intero triennio, dalle cosiddette «dimostrazioni» del 1846-47 fino alle barricate del 1848, rendendo sempre più indistinta la separazione tra scene e realtà. Questa almeno è la percezione di molti contemporanei, che rilevano come il teatro abbondi ormai nelle strade più che nelle sale. Nel febbraio del 1848 “Il Mondo illustrato”, una delle riviste che segue più da vicino gli aspetti simbolici e rituali del conflitto in corso, non da ultimo per la novità del suo formato visuale, sostiene che la cronaca teatrale poteva al momento ritenersi del tutto sui generis, sopraffatta com’era dalla debordante teatralità della politica:
La cronaca teatrale di quest’anno è singolare, e degna di curiosità: non si veste del lume della ribalta, e il palcoscenico che fu suo campo, n’è l’accessorio. [...] La nostra cronaca è divenuta politica anch’essa in un momento che la politica, secondo il linguaggio romantico trasuda da tutti i pori d’Italia. [...] Onde nei teatri, come nelle vie, ne’ ridotti e nelle chiese si manifesta il voto pubblico. [...] Ogni spettacolo teatrale sparve tra i delirii delle patriottiche immaginazioni, le bandiere, i pennoni, i pennoncelli e gl’intrecci dei fazzoletti e delle ciarpe.
1. La drammatizzazione del passato
Molti degli episodi della narrazione storico-patriottica di cui si è detto nel capitolo precedente divengono oggetto, nel corso di quel triennio, di performance collettive che dapprima si collocano nel quadro delle feste e delle celebrazioni che precedono l’insurrezione vera e propria, poi si protraggono nella fase della rivoluzione e della guerra. In quelle drammatizzazioni (cortei, pellegrinaggi, banchetti pubblici, giuramenti, affratellamenti e riconciliazioni) il continuum tra passato e presente che la propaganda patriottica proponeva con un’enfasi martellante pare inverarsi, e i patrioti divengono essi stessi cavalieri medievali o rinascimentali pronti a cacciare il nemico dalla propria terra. I discorsi, i fogli volanti, le orazioni, le perorazioni tenu...