1. Il filosofo è un negoziatore concettuale
Tenere una prima lezione di filosofia è una sfida. Non basta stilare un’introduzione o disegnare un panorama storico della filosofia. Non è nemmeno detto che una prima lezione – seppur affidata a un filosofo – sia un esercizio filosofico. In queste pagine cercherò di mostrare come una teoria della filosofia forse inconsueta, forse poco filosofica, possa spiegare che cosa fanno o hanno fatto i filosofi; non solo i filosofi di professione ma anche le persone che senza veramente ritenere di star facendo filosofia stavano in realtà facendo filosofia. Vorrei anche mostrare che cosa dobbiamo aspettarci dal lavoro filosofico, e perché questo è importante.
Dico subito che cosa è un filosofo. Un filosofo è un negoziatore concettuale. Alcuni saranno d’accordo, altri meno: ma teniamo ferma questa idea di negoziato. Quando si fa un negoziato concettuale? Molto spesso e in molti luoghi. Ecco un esempio. In un certo paese si passa dalla monarchia alla repubblica. Prima, eravamo quasi tutti (ad eccezione di re e regina, voglio dire, e della loro famiglia) dei sudditi. Adesso siamo dei cittadini.
Passare da sudditi a cittadini significa ridefinire il perimetro dei diritti e dei doveri; ridefinire la concezione che ciascuno di noi ha di se stesso o di se stessa di fronte agli altri; cambiare gerarchie e organizzazioni; scoprire che la propria opinione conta e decidere come scegliere i propri rappresentanti. La lista è lunga. Questi cambiamenti non avvengono con un tocco di bacchetta magica; e non avvengono alla cieca. Bisogna pensarci.
Per esempio, bisogna riscrivere molte leggi, e soprattutto si deve redigere una specie di manuale che ci dica come fare a scrivere leggi – ovvero, bisogna creare una Costituzione. In tutto questo si deve negoziare concettualmente. Che cos’è un cittadino?
Tipicamente in un negoziato concettuale si cerca di imbastire una spiegazione o una narrazione che ci permettano di ricomporre una tensione concettuale. Adesso sono un suddito, mi spieghi che cosa vorrà dire essere un cittadino? Me lo spieghi in modo che lo possa capire, sulla base della mia esperienza, della tradizione in cui sono vissuto finora?
Era un esempio semplice, ho detto. Il fatto è che esempi di questo tipo abbondano. Se cominciamo a guardarci intorno, li scorgiamo spesso e volentieri. Li ritroviamo ovunque dei cambiamenti in quello che sappiamo o in quello che facciamo esercitano una pressione sulle idee nelle quali fino ad allora ci eravamo cullati riguardo alle situazioni del mondo che ci circonda. Sono cambiamenti dovuti alle nuove conoscenze che la scienza ci propone; a nuovi assetti della società; a profonde trasformazioni nella nostra vita personale. Il Sole non gravita intorno alla Terra. Non tutto quello che il mio cervello fa mi è noto. La materia è energia. Un orinatoio viene esposto come opera d’arte in un museo. Mia figlia parla perfettamente una lingua che io capisco a malapena. Io e lo scimpanzé abbiamo un antenato in comune. Posso parlare in tempo reale a un amico dall’altra parte del pianeta. Laura è andata in Spagna per potersi sposare con Luisa. Un lutto improvviso mi ha colpito.
Le idee e le abitudini antiche sono difficili da abbandonare: forse hanno una loro legittimità; forse ci eravamo arrivati con un percorso faticoso e ci risulta difficile rinunciarvi; forse sono un lascito ancora più radicato, biologico, e non riusciamo neanche volendo a vedere oltre di esse. E tuttavia la situazione nuova ci obbliga a confrontarci con esse, ed eventualmente a trasformarle. Come si fa a cambiare idea? Da qualche parte dobbiamo iniziare. Si apre una trattativa concettuale. Che cosa è un pianeta? Che cosa sono io? Che cosa è un matrimonio? E come faccio ad accettare il nuovo stato delle cose? Non si tratta soltanto di un interesse teorico. Quale nuova narrazione del mondo mi permette di agire, se accetto che il mondo non è più quello di prima? Come posso agire, se comunque i concetti che uso per orientare la mia azione sono quelli vecchi?
Qui c’è spazio per l’intervento dei filosofi, che sono negoziatori concettuali per vocazione o di professione. Da quando ci sono tracce di filosofia nella storia, ci sono tracce di negoziato concettuale. I filosofi naturalmente negoziano concettualmente anche tra loro a distanza più o meno ravvicinata. Aristotele negozia con Platone e Kant negozia con Hume, Heidegger con Husserl, Russell con Frege: le cose individuali sono tutto quello che c’è o ci sono delle entità universali che esse esemplificano? Ci sono dei costituenti ultimi del mondo? Sono veramente libero o la natura detta legge anche sulla mia azione? Possiamo veramente conoscere la realtà o siamo offuscati dal velo della percezione? I numeri sono cose come le altre? Ma come vedremo questi non sono gli unici negoziati filosofici.
Due parole allora sul negoziato non filosofico. Ci sono molti modi di negoziare, ma due attirano la nostra attenzione. Si può mercanteggiare, ovvero sondare poco a poco l’altrui obiettivo, svelando a poco a poco il proprio, fino a raggiungere un punto di equilibrio o di stallo in cui si dichiara che un certo prezzo è il più alto che si vuol pagare, e si apprende che un certo prezzo è il più basso a cui il nostro interlocutore intende vendere. Questo tipo di negoziato cerca essenzialmente di scoprire che cosa vuole la nostra controparte, che fa di tutto per non rivelarlo, e di celare alla controparte quello che vogliamo, mentre lei fa di tutto per scoprirlo. I teorici del negoziato in genere non sono molto soddisfatti di questa procedura, che toglie profondità al lavoro negoziale, relegandolo alla sola dimensione conoscitiva – il negoziato servirebbe soprattutto a ottenere informazioni, e si incaglia per mille motivi estrinseci, come l’antipatia che può capitarci di provare per la controparte. Un modo più articolato di negoziare descritto nel classico Getting to Yes dell’Harvard Negotiation Project si impernia su alcuni capisaldi: «separare le persone dai problemi, concentrarsi sugli interessi e non sulle posizioni dichiarate, inventare delle opzioni che possono portare a reciproci vantaggi, e insistere sull’uso di criteri obiettivi». Gli ultimi due punti sono fondamentali per quello che intendo dire in questa Lezione. Infatti l’invenzione di opzioni è una caratteristica pervasiva del lavoro filosofico; e la richiesta di criteri comuni di giudizio, anche se forse meno pervasiva, fa parte della buona retorica filosofica. Questi due modi di procedere in filosofia non hanno molto senso in sé, ma lo acquisiscono appieno se li si vede come strumenti per permettere il dialogo tra posizioni o concezioni del mondo differenti. In un negoziato maturo si deve anche spesso negoziare con se stessi; un negoziatore a volte deve lasciare il tavolo per tornare sulle sue posizioni, convincere la propria parte, ripensare a quello che vuole veramente. Al tempo stesso l’apertura alla revisione delle proprie idee si accompagna alla necessità di offrire alla controparte un aiuto, delle opzioni perché questa possa a sua volta rivedere le proprie idee in modo da trovare un punto comune o comunque di sbloccare l’azione.
Lasciatemi subito mostrare alcune conseguenze di questo modo di vedere la filosofia. Uno: se il filosofo è un negoziatore concettuale, ne segue che la filosofia, più che una materia, è un’arte; l’arte del negoziare concetti, che richiede non solo rigore ma una buona dose di immaginazione. Questo significa, due, che non c’è un canone della filosofia nel senso in cui ci può essere un canone della fisica o della biologia, o del metodo storico. Tre: allora spiegare la filosofia significa spiegare le tecniche del negoziato sulla base di esempi. Certo, ci sono dei temi ricorrenti; ma vedremo come, forse sorprendentemente, questi temi mostrano che le competenze del filosofo sono vicine a quelle dell’artista, o del matematico creativo, o dell’ingegnere, per un aspetto o per l’altro. Un’altra conseguenza, quattro, è che la filosofia è molto più diffusa nella società di quanto non ci si aspetti, o di quanto non dica di essere o venga rappresentata. Troviamo negoziati concettuali quando abbiamo fusioni aziendali e dobbiamo far dialogare diverse culture di impresa, quando decidiamo quali statistiche sono pertinenti per valutare il senso di insicurezza, quando ci poniamo domande sulla natura corpuscolare o ondulatoria della luce, quando ci prefiggiamo degli obiettivi educativi, quando aiutiamo i nostri figli a crescere, quando accettiamo di star invecchiando. Cinque: abbiamo una chiave di lettura semplice per molta storia della filosofia, che altro non è che la traccia lasciata da negoziati concettuali ambiziosi, svoltisi in coincidenza di cambiamenti a volte brutali: quando si comincia a capire che il corpo umano è una specie di macchina (Cartesio), quando le città si dotano di leggi autonome (Platone), quando si cerca di fermare la spirale della violenza tra comunità religiose (Locke), quando le persone scelgono di decidere da sole il proprio destino invece che conformarsi supinamente a paternali (Kant) – per esempio. E questo vuol dire che, sei, innumerevoli altri negoziati non sono stati registrati con l’etichetta di ‘negoziato filosofico’, ma le loro tracce sono presenti nella società che ne è stata plasmata. Possiamo fare anche una previsione, sette: troveremo molte tracce esplicite di negoziati concettuali quando le trasformazioni sociali, economiche e scientifiche saranno particolarmente radicali. La storia della filosofia è discontinua ed eterodiretta; cambia il mondo, la filosofia serve; la filosofia accorre. Otto: risulterà che alcune cose cui incolliamo l’etichetta di filosofia sono tali solo di nome. Per finire, nono punto: la filosofia ha dei bei giorni davanti a sé, non abbiamo nessuna ragione di pensare che il futuro non ci riservi sempre nuove sorprese, che metteranno noi e chi verrà dopo di noi di fronte alla necessità di negoziare concettualmente. E sappiamo che ci sono molte persone diverse da noi, le cui idee possono essere molto distanti dalle nostre. Dobbiamo accettare questi fatti come una ricchezza e una sfida.
2. La filosofia all’opera
Andiamo a vedere da vicino tre casi in cui il negoziato concettuale ha occupato la scena. I primi due esempi risalgono al secolo scorso e riguardano il concetto di opera d’arte e il concetto di famiglia. Il terzo, molto più antico, riguarda la scoperta che la Terra non è immobile al centro dell’universo. Sono esempi lontani tra di loro nello spazio e nel tempo; sembrano molto distanti in spirito l’uno dall’altro, ma come vedremo li unisce un filo sottile. Il punto su cui intendo attirare l’attenzione del lettore è che si tratta di discussioni che non avvengono in una sede istituzionalmente filosofica come un’aula universitaria o un libro di filosofia; ma che si tratta comunque di filosofia.
1927: Ma è veramente arte?
«Mr. Higginbotham: È indifferente che sia fatta da uno scultore o da un artigiano?
Jacob Epstein: Un artigiano non può realizzare un lavoro bello.
H. Intende dirci che il Reperto Uno, se fosse stato fatto da un artigiano – diciamo, da un artigiano di prima classe con una lima e degli attrezzi per levigare, non potrebbe ottenere questa levigatezza?
J.E. Potrebbe levigarlo, ma non può concepire un oggetto come questo. Il punto sta tutto qui. Non può concepire queste linee particolari che gli danno la sua bellezza individuale. Questa è la differenza tra un artigiano e un artista: l’artigiano non può ideare come fa un artista.
Giudice Waite: Se potesse ideare, non sarebbe più un artigiano e diventerebbe un artista?
Testimone: Diventerebbe un artista, proprio così.»
In questo frammento di dialogo, pare, si cerca di capire che cosa sia arte e che cosa non lo sia. Ma qual è il contesto di questa curiosa messa in scena che sembra svolgersi nelle aule di un tribunale? In effetti è una vera e propria discussione filosofica; e il contesto è un vero e proprio processo. Nel 1927 lo scultore Constantin Brâncusi (1867-1957) intentò causa agli Stati Uniti. L’anno prima il fotografo Edward Steichen aveva acquistato una scultura di Brâncusi, Oiseau dans l’espace, ma al momento dell’importazione non aveva potuto ottenere l’esonero dai costi doganali di solito concesso alle opere d’arte. I doganieri statunitensi, dopo un rapido esame della forma affusolata e astratta di Oiseau, classificarono la scultura di Brâncusi come utensile di cucina e imposero una tassa di 240 dollari dell’epoca: non è veramente arte, è un oggetto utilitario, deve pagare. Ovviamente non era tanto la tassa a infastidire Brâncusi, quanto la classificazione della sua creazione come oggetto utilitario, il mancato riconoscimento del suo valore artistico. Quando Steichen parlò del reclamo alla fondatrice del Whitney Museum, questa vide la possibilità di stabilire un precedente importante e gli mise a disposizione i suoi avvocati. Gli atti del processo sono uno straordinario documento: registrano le opinioni di esperti che devono convincere una giuria del fatto che Oiseau sia, o non sia, un’opera d’arte. Gli avvocati delle due parti sfidano i testimoni con domande insidiose che saggiano la consistenza della loro concezione di arte. Il punto di partenza è la definizione di oggetto artistico che utilizzavano le dogane americane: fino al 1922 doveva trattarsi di una riproduzione di un modello naturale (come il ritratto di una persona, un paesaggio, una natura morta), e solo in seguito si cominciò a concedere ad altri tipi di oggetti il privilegio dell’artisticità, posto che fossero originali, che non fossero prodotti in serie, che fossero attribuibili ad artisti noti, e che non avessero fini utilitari.
L’interesse degli atti del processo contro Brâncusi sta nel fatto che le definizioni di arte o di artista proposte non servono semplicemente ad articolare una posizione teorica, ma sono pensate per convincere una giuria in un processo. Siamo al di fuori dell’ambito accademico; e tuttavia il livello della discussione è altamente teorico. Non si sta cercando di accertare dei f...