Decima puntata.
Sogni all’alba
L’albero delle miserie
Delle dimore possedute dai Thun, la residenza di Croviana non era la più sontuosa, né la più imponente. Non era un castello, ma piuttosto un palazzo fortificato. Vi si accedeva attraverso un portale bugnato a punta di diamante, capace di regalare un tono di ricercata eleganza a un insieme massiccio e pesante, sviluppato su due piani, marcato da due torri coperte angolari e circondato da mura possenti. La facciata affrescata, oggi del tutto sbiadita, indicava il rango dei proprietari. L’edificio cinquecentesco era stato acquistato appena sessant’anni prima, nel 1659, dal nonno dei parigini, Carlo Cipriano, al termine di una decennale lite successoria. Il conte aveva trasferito la famiglia a Croviana e dato vita a una nuova linea del casato; qui era cresciuto Ferdinando Carlo assieme ai numerosi fratelli.
I prati estesi rendevano meno ruvido il paesaggio, stretto da catene montuose lungo il percorso che conduceva verso il valico del Tonale: una strada di transito di notevole importanza nel contesto del traffico commerciale di area alpina, via di accesso alle aree produttive della Lombardia veneta, da un lato, e ai mercati settentrionali, verso la Germania, dall’altro.
Nulla era come ci si immaginava dovesse essere. La realtà si rivelò molto distante dalle aspettative alimentate dal testamento di Ferdinando Carlo, dove si discorreva di «beni, patrimoni [...] feudi, mobili et immobili», di «dignità , onori, prerogative». Croviana era niente più che un minuscolo borgo nel fondovalle: una chiesa di fine Quattrocento dalle dimensioni ridotte da sembrare una cappella, un grappolo di case rurali, fienili e stalle circondati da orti e campagna.
Antonio si congedò da Croviana molto presto per raggiungere il suo reggimento. Sarebbe tornato raramente. Carlo Vittorio vi si insediò. Era il primogenito: aveva la responsabilità di gestire i beni di famiglia. In ogni caso, non aveva altre opzioni.
Al centro era il feudo. Il suo valore immateriale superava, per molti aspetti, quello materiale: rappresentava il potere e la storia di un casato. Pressoché tutti i paesi della valle erano sottoposti in diversa misura a obblighi economici e fiscali nei confronti dei Thun di Croviana, in quanto signori feudali. È su un antico sistema economico-istituzionale che la ricchezza della famiglia si basava: ogni anno i carri trasportavano verso il palazzo di Croviana sacchi di cereali – frumento dal fondovalle, segale e avena dalle comunità di media montagna –, burro e formaggio, vino; si conducevano vitelli e castrati e capretti, quote di denaro. In tempi propizi le entrate dei feudi non erano avare: i prodotti erano più abbondanti e venivano venduti, assicurando così la disponibilità di contanti. Ulteriori introiti venivano ai feudatari dall’amministrazione della giustizia. Soprattutto, in condizioni normali, integravano la base patrimoniale gli uffici di rango presso una qualche corte di famiglia o gli stalli di un qualche canonicato. A Croviana si tornava di tanto in tanto, per andare a caccia e riscuotere le decime. Ma per Carlo Vittorio questo sistema di sostentamento a incastro non si attivò. Mancava un solido sostegno parentale: i fratelli del padre erano deceduti e all’orizzonte non c’era nessun principe vescovo ad accogliere il cugino povero, come era stato per Ferdinando Carlo. Il rapporto con i Thun di Boemia sembra sbiadire e nello spazio imperiale delle clientele e delle protezioni l’assenza dei referenti famigliari era svantaggiosa.
La debolezza economica del ramo di Croviana fu presto evidente, aggravata dalla scarsità della produzione agricola – raccolti interi rovinati a causa del clima straordinariamente freddo e della siccità . Si aggiunse, poi, la diffusione della peste bovina, che nel 1723 colpì drammaticamente l’allevamento, una voce importante dell’economia dell’area e dell’Europa tutta. «Miserie e penurie», riassume la zia in una lettera a Carlo Vittorio. Altamente contagiosa, la pandemia, dopo aver colpito l’Ungheria, i Paesi Bassi, la Germania, si era diffusa dal Tirolo verso le valli di Non e di Sole e minacciava il versante lombardo. Decine e decine di capi di bestiame perduti, carcasse infette sepolte, la pelle dell’animale irrecuperabile, la produzione casearia paralizzata, bandite le fiere, sospeso il commercio con la Serenissima da un duraturo cordone sanitario. Le vie di comunicazione erano chiuse; restelli e guardie controllavano i confini. Pene severe venivano comminate a chi violava le misure imposte, finanche la pena capitale. Per l’area trentina, e le valli di Non e di Sole in particolare, il libero commercio di bestiame fu di nuovo consentito solo dieci mesi dopo, nel luglio 1724, anche se in val di Sole l’epidemia non era stata ancora del tutto debellata.
In questo stato di cose, le comunità della valle sottoposte a vincolo feudale non erano in grado di consegnare il dovuto al conte di Croviana. «Si fanno inutilmente processioni da un santuario all’altro», riferiva un collaboratore. Le invocazioni alla Madonna e ai santi avrebbero fornito soccorso, si pensava; ma la peste bovina era ormai endemica, il clima non migliorava e il cielo restava inclemente.
Le risorse erano del tutto insufficienti. Carlo Vittorio era coperto di debiti: occorreva soddisfare i creditori per i propri, per quelli accumulati da Antonio, per quelli lasciati dallo svedese. La disponibilità di contante era molto modesta. Soldi non ce n’erano, badava a insistere la zia Anna Massenza, sbottando per le incessanti richieste dei due nipoti alle prese con creditori impazienti e uno stile di vita forse al di sopra delle loro modestissime possibilità : «lei non pensa se non a procurar danaro, ma bisogna far riflesso alle sue misere entrate e alla condizione del Paese [...] che quando seguitano così, me ne lavo le mani e vengino a godere le loro entrate, che io non posso battere danaro».
Una lunga lista di voci redatta a partire dall’arrivo dei due parigini ci consente di misurare l’impegno finanziario sostenuto dalle sorelle di Ferdinando Carlo dal momento in cui i nipoti arrivarono a Croviana, a partire dalle spese affrontate per il trasferimento dei bauli da Trento al palazzo, per i cavalli condotti dal mugnaio a Trento per Carlo Vittorio e Winquitz, finimenti e gualdrappa compresi, per il domestico di Carlo Vittorio, per il barbiere di Antonio e il suo viaggio verso Vienna, e quelle «per farsi vestire», per il medico che curò Carlo Vittorio, per imbiancare le stanze del palazzo e per i tavolini commissionati da Carlo Vittorio. Anche il costo delle lettere inviate per ogni dove dai parigini e da Winquitz era sostenuto dalle zie, che pagarono pure le somme delle giornate trascorse a Trento da Carlo Vittorio e Winquitz, durante il Carnevale del 1719. A carico delle zie furono registrati anche i versamenti per i proclami fatti pubblicare nelle comunità dei feudi, per notificare l’insediamento dei nuovi signori.
Le zie, con imbarazzo («che avevan rossore»), chiedevano prestiti non solo per amore dei figli del fratello, ma anche per mettere a tacere i pettegolezzi («per onore di loro [nipoti] e per mantenere il credito della casa»). «Per tutti i Thun sono un casato ricchissimo», replicava l’amico Rousseau de l’Escu a Carlo Vittorio che gli aveva confessato di vivere nella miseria («personne l’on ne sait si vous aite peuvre ou riche. Au contraire, les comtes de Thun passent pour être fort riche»). L’apparenza andava salvaguardata. La nobiltà comportava anche obblighi. Noblesse oblige.
Il fatto è che l’aristocrazia non era immune dalla calamità della miseria. Il rango, i titoli, i feudi non assicuravano entrate solide. Porzioni non piccole della nobiltà si trovavano nelle condizioni di Carlo Vittorio e della sua famiglia, per svariate ragioni: tra queste, le ripartizioni patrimoniali, temibile causa di instabilità , e la guerra, un’opportunità di crescita da un lato, dall’altro una congiuntura foriera di tracolli rovinosi. Non da ultimo, giocava un ruolo importante il rapporto con i rami forti di un casato. Schiere di nobili – detti «vergognosi» per il riserbo con cui coprivano la loro condizione e il bisogno di aiuto – si avvalevano dell’assistenza pubblica e...