IV. Il più romano degli imperi
1. Una macchina da guerra
Rispondendo nel 1932 a una domanda di Emil Ludwig sulla Conciliazione, Mussolini ricordò come fosse giunto a quel risultato senza mai incontrare di persona il papa:
È certamente la prima volta che due uomini di governo indipendenti l’uno dall’altro e unici responsabili delle loro decisioni, abbiano insieme condotto trattative [...] nella medesima città, senza vedersi mai personalmente.
L’incontro ufficiale si celebrò in pompa magna in occasione del terzo anniversario dei Patti lateranensi, a solenne sanzione dell’avvenuta riconciliazione. Mussolini fu ricevuto in Vaticano da Pio XI la mattina dell’11 febbraio 1932. Arrivò alle 11 con una delegazione composta dal ministro della Giustizia Alfredo Rocco, dall’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Cesare Maria De Vecchi, dal sottosegretario agli Esteri Amedeo Fani: era insomma a tutti gli effetti l’incontro tra due capi di Stato. La visita era stata preparata da tempo, a partire dalla chiusura della crisi sull’Azione cattolica, e avrebbe dovuto svolgersi alla metà di settembre del 1931, salvo poi essere rimandata per ben due volte per volontà di Mussolini e perché parve necessario provvedere prima alla sostituzione degli esponenti del Pnf che più si erano esposti nella battaglia contro l’Azione cattolica e la Chiesa: tra tutti Giuriati e Scorza. Che Mussolini fosse intenzionato a restare, soprattutto nella sua immagine pubblica, in una posizione di forza evitando che la visita apparisse come un’andata a Canossa risulta evidente anche dalla dispensa formale, richiesta e ottenuta, dall’obbligo di inginocchiarsi e di baciare la mano del pontefice, previsto dal cerimoniale vaticano.
I giornali dell’epoca sono prodighi di descrizioni dettagliate di cortei, cerimoniali, picchetti d’onore, personaggi e comparse: i carabinieri e la Milizia, i frati e i seminaristi, le guardie svizzere e i palafrenieri, damasco rosso e vesti violacee. Poi cappelli e fazzoletti, signore armate di seggiolini pieghevoli, applausi e «alalà». E sono concordi nel sottolineare il carattere storico dell’avvenimento. «Non vi sono ‘precedenti’ per l’incontro tra il Pontefice Romano e il Duce del Fascismo. Non richiami storici, non evocazioni leggendarie. L’evento storico è oggi il fatto per se stesso», arrivò a scrivere «Il lavoro fascista». Dei contenuti del colloquio, che si svolse nella biblioteca privata del papa, però, trapelò pochissimo. Mussolini ne scrisse in dettaglio al re Vittorio Emanuele III. Le prime battute del papa apparvero al duce «imbarazzate». Dopodiché Pio XI – stando almeno a tale resoconto – non si fece problemi a entrare subito nel merito delle questioni che più gli stavano a cuore. Anzitutto i protestanti. La loro propaganda, secondo il papa, faceva «progressi», anche grazie alla legge sui culti ammessi. La replica di Pio XI all’osservazione di Mussolini che si trattava solo di 135 mila persone, di cui 37 mila stranieri, chiariva quale fosse il vero significato di una preoccupazione oggettivamente sproporzionata: rivendicare ancora una volta una società italiana integralmente cattolica. «L’Italia – avrebbe detto infatti il pontefice – è fondamentalmente cattolica e questo [sic] è una condizione di privilegio anche dal punto di vista nazionale, ma appunto perciò bisogna vigilare». La vigilanza poteva implicare anche misure inquisitoriali, se è vero che Pio XI si rallegrò con Mussolini per avere processato e punito il direttore dell’Araldo della Verità di Firenze, piccolissima casa editrice della Chiesa avventista, reo di avere tenuto «un linguaggio assolutamente indegno» verso il papa e il duce.
Pio XI parlò poi dei giovani e si disse soddisfatto per le misure prese per assicurare il rispetto del precetto domenicale, spostando al sabato le attività dei gruppi giovanili fascisti, e per il freno imposto alla stampa licenziosa. Della dottrina fascista sottolineò i principi più vicini alla concezione cattolica: «ordine, autorità, disciplina». Ma non ci stava a cedere sul «totalitarismo fascista»: se questo puntava, oltre agli interessi materiali, a conquistare le anime entrava «in azione il ‘totalitarismo cattolico’». L’ultimo punto riguardò la situazione internazionale, che per il papa significava da un lato la crisi economica mondiale, dall’altro lato il «triangolo dolente», formato da paesi (Messico, Spagna, Russia) dominati dalla politica antireligiosa della massoneria e del bolscevismo. Una politica il cui motore sarebbe stato rappresentato dalla «avversione anti-cristiana del giudaismo»: «Quando io ero a Varsavia – avrebbe aggiunto Pio XI –, vidi che in tutti i reggimenti bolscevichi, il commissario civile o la commissaria erano ebrei». Anche se poteva dire per esperienza personale che gli ebrei italiani facevano «eccezione», come gli avevano dimostrato negli anni molte amicizie e incontri legati all’ambiente lombardo.
Nella stessa giornata dell’11 febbraio il cardinale segretario di Stato Pacelli restituì la visita recandosi a Palazzo Venezia, dove fu accolto, con gli onori militari delle camicie nere, dal capo del governo e dalla medesima delegazione che al mattino era andata in Vaticano. Si trattò di un incontro brevissimo, puramente formale, ma la giornata nel suo insieme, che proseguiva con un sontuoso ricevimento all’ambasciata italiana presso la Santa Sede offerto da De Vecchi, doveva dimostrare agli italiani e al mondo la piena sintonia esistente tra il Vaticano e Palazzo Venezia. Fu questa la nota accentuata dalla stampa italiana, ormai pienamente controllata dal regime.
Rimase deluso chi si aspettava, almeno il giorno dopo, qualche parola ufficiale da parte del pontefice. Il 12 febbraio ricorreva infatti il decimo anniversario dell’incoronazione e il messaggio di Pio XI sarebbe risuonato attraverso la Radio vaticana, che da un anno consentiva al papa di far arrivare direttamente la propria voce «a tutte le genti e a ogni creatura», come aveva avuto modo di dire egli stesso nel primo intervento lanciato nell’etere esattamente dodici mesi prima, dopo l’annuncio di Guglielmo Marconi. Ma neanche in quella circostanza Ratti accennò ai fatti della giornata precedente. Il papa si limitò a ringraziare la divina misericordia per i dieci anni di pontificato, a fare un rapido riferimento alle gravi sofferenze dei popoli e alle angustie dei loro reggitori, pensando con ogni probabilità agli effetti della crisi economica e ai paesi del «triangolo dolente», senza tuttavia mai nominarli. Sulla stessa linea si pose «L’Osservatore Romano», che seguì lo ‘storico evento’ dell’incontro tra il papa e il duce con una cronaca molto asciutta. Pio XI non tornò sull’argomento neanche nei giorni successivi, segno che preferiva evitare di accentuare l’immagine rassicurante di una piena sintonia col duce. La diffidenza e i rancori reciproci erano rimossi dal discorso pubblico, ma non superati, per quanto fosse nell’interesse di entrambe le parti salvaguardare il compromesso raggiunto.
A livello di opinione pubblica, in ogni caso, era giunto il messaggio che doveva arrivare: «l’armonico rapporto di Mussolini con il papa – ha scritto Simona Colarizi – piaceva e rassicurava; sembrava addirittura naturale in una società cattolica ordinata al rispetto dell’autorità e dell’obbedienza». In un periodo in cui prevalevano nettamente nella Chiesa una dottrina e una prassi imperniate sulla figura del pontefice, quest’immagine favorì il diffondersi della convinzione che lo Stato fascista inverasse la tesi della nazione cattolica. Non solo negli strati sociali in cui il cattolicesimo era più stabilmente radicato, come il mondo contadino, ma in molti ambienti intellettuali, benché su posizioni differenziate per strategia e impostazioni culturali. All’esistenza di un’Italia cattolica e alla possibilità di cattolicizzare il fascismo credettero gli uomini della rivista fiorentina «Il Frontespizio», Piero Bargellini, Guido Manacorda, Giovanni Papini, e con loro, almeno fino al 1934-1935, don Giuseppe De Luca, infaticabile nella sua multiforme attività di erudito, polemista, guida spirituale. Riscoprire l’ordito profondo dell’Italia religiosa: questo era l’intento dei cattolici del «Frontespizio». Il che implicava, soprattutto per il sacerdote lucano, snobbare il cattolicesimo sociale organizzato, il devozionalismo di maniera, l’ignoranza dottrinale per raggiungere lo strato più profondo dell’Italia religiosa, «le fontane della pietà». Ma significava più in generale per la rivista valorizzare il carattere essenzialmente cattolico della tradizione italiana medievale, a partire da quella letteraria e poetica, che, più del richiamo nazionalistico alla romanità, avrebbe dovuto rappresentare il fonda...