La rivoluzione costituzionale
(1786-1791)
Fin dall’approvazione degli Articoli del 1781 si era posto il problema di rafforzare un Congresso privo di autonomi poteri finanziari e di coercizione nei confronti degli Stati e di creare i presupposti per un’Unione più forte. Molti osservatori avevano compreso che l’Unione stava sperimentando al suo interno lo stesso problema relativo alla collocazione della sovranità la cui inadeguata soluzione aveva causato la spaccatura dell’impero britannico e poteva ora provocare anzitempo la fine dell’esperimento indipendentistico dei tredici Stati. A questo proposito si delineò una divisione politica fondamentale, che avrebbe successivamente dato luogo a una interpretazione storiografica ‘contrattuale’ e una ‘nazionale’ delle origini del federalismo americano e alle teorie costituzionali concorrenti del ‘federalismo competitivo o dualistico’ e del ‘federalismo cooperativo’. Da una parte, come si è già accennato trattando del problema dei territori occidentali, v’erano i fautori della superiorità degli Stati. Secondo questo punto di vista, di cui un rappresentante di spicco fu il virginiano Arthur Lee, l’indipendenza aveva dato vita non a un’unione, ma a tredici entità separate, ciascuna erede nel proprio ambito dei poteri e dell’autorità prima esercitati dal governo dell’impero. Il Congresso, una mera assemblea «diplomatica», secondo la definizione di John Adams, non poteva avere altri poteri che quelli delegati dai singoli Stati sovrani; mentre la Confederazione andava intesa come una sorta di contratto tra gli Stati in quanto entità preesistenti che mantenevano intatti tutti i poteri non delegati al Congresso. In fondo, la controversia col Parlamento britannico aveva puntato a riaffermare l’integrità e l’intangibilità dei poteri legislativi delle colonie, poi Stati indipendenti, non a creare un nuovo soggetto statale sovrano e unitario. A dare sostanza a un’impostazione poggiante su un’idea di federalismo territoriale e ‘corporato’, v’erano alcuni importanti elementi, come l’articolo II della Confederazione con la sua affermazione che «ogni Stato mantiene la propria sovranità, libertà e indipendenza», nonché il fatto che la ratifica degli Articoli fosse avvenuta per approvazione non popolare, ma dei legislativi degli Stati. Il crescente potere dei governi statali nei primi anni Ottanta e l’incapacità del Congresso di consolidare la propria funzione di guida erano parsi confermare nei fatti questa posizione.
Sul fronte opposto, per i sostenitori di un’Unione più solida – tra i quali George Washington, Benjamin Rush, Noah Webster, John Witherspoon – la stessa dichiarazione d’indipendenza non lasciava adito a dubbio alcuno circa il fatto che non gli Stati, neppur menzionati in quel documento, ma l’entità collettiva dei tredici Stati riuniti in Congresso fosse il beneficiario della devoluzione dell’autorità imperiale britannica. I problemi scaturivano dal fatto che da questa realtà indiscutibile non si erano tratte le dovute conseguenze e che i poteri assegnati al Congresso erano del tutto inadeguati agli scopi dell’Unione. Un grande interrogativo di natura teorica – il medesimo che era stato discusso durante la crisi imperiale – animava il dibattito: come avrebbero potuto coesistere, senza annullarsi reciprocamente, i differenti poteri espressi da una comunità politica composita ma unitaria? Dove risiedeva l’autorità sovrana? Qual era il principio che avrebbe consentito a diversi Stati di essere sovrani e indipendenti per le questioni interne, e di sottostare a una comune autorità per le materie di interesse comune? Come si sarebbe potuto risolvere l’apparente paradosso di Stati sovrani in un’Unione sovrana? La ricerca di una forma costituzionale intermedia tra il consolidamento in uno Stato nazionale unitario e la permanenza di autorità statali separate rappresentò il vero e proprio compimento della rivoluzione americana.
1. Verso la costituzione federale: il consolidamento della repubblica imperiale
Di fronte al problema della modifica degli Articoli del 1781, la linea più radicalmente nazionale fu quella dei newyorchesi James Duane, Philip Schuyler, Governeur Morris e Alexander Hamilton, del virginiano James Madison e di James Wilson della Pennsylvania. Fin dal 1781-1782 questi politici avevano prospettato la creazione di una forte e grande nazione con poteri sovrani limitati solo dall’autonomia interna degli Stati,una nazione dotata di risorse finanziarie indipendenti – con cui trasformare il debito statale a breve in titoli nazionali a lunga scadenza, che avrebbero legato i creditori al governo continentale – e poteri coercitivi nei confronti degli Stati. Come Hamilton sostenne nei saggi del Continentalist (1781-1782), occorreva a tal fine una convenzione incaricata di emendare gli Articoli di Confederazione, primo passo verso la creazione di un moderno Stato nazionale poggiante su efficienti apparati amministrativi, economici e finanziari, secondo modalità non diverse da quelle che avevano guidato l’ascesa dell’Inghilterra dopo la Gloriosa e per le quali non a caso – mentre si delineava una rivalutazione del modello britannico – si faceva esplicito riferimento proprio alla Gran Bretagna. Con grande scandalo della maggioranza repubblicana, votata all’idea di una grande comunità agraria, virtuosa, incontaminata dai falsi valori europei, quest’ideologia identificava il futuro dell’America con quello di una nazione potente, sostenuta da un forte governo centrale, da un’economia capitalista pienamente sviluppata, aggressiva e diversificata, e capace di giocare un ruolo di protagonista sulla scena politica e economica internazionale. Per conseguire questi risultati era però necessaria una riforma della struttura della Confederazione, che il piccolo gruppo dei nazionalisti, sostenuto dalle comunità mercantili e finanziarie di Philadelphia e di New York, sentiva come assolutamente indispensabile.
Diversi fattori, d’altra parte, giocavano contro la riforma costituzionale in senso centralistico. I requisiti dell’unanimità tra gli Stati o di maggioranze qualificate al Congresso per deliberazioni particolari rappresentavano un autentico freno alla modifica degli Articoli di Confederazione. Erano poi i governi statali, non il Congresso, a godere della considerazione e del rispetto dei cittadini: ampi settori di opinione pubblica locale provavano anzi profonda avversione per il potere centrale e diffidavano di un suo possibile rafforzamento, che una sensibilità ideologica di matrice country whig, tipicamente espressa dal virginiano George Mason, identificava con tasse più pesanti e crescente potere nelle mani di una cricca di governanti dagli interessi distinti dal resto della nazione e difficilmente controllabili. Intorno al 1784-1785, perciò, prevaleva nel paese uno stato di ansietà circa il futuro dell’Unione: numerose testimonianze esprimevano scetticismo per la sua sopravvivenza e non mancava chi si interrogasse sull’opportunità di mantenere uniti in una singola costruzione soggetti politici dagli interessi così contrastanti.
La gravità delle condizioni politiche, economiche e sociali negli anni successivi alla conclusione della guerra, tuttavia, finì con lo spingere settori sempre più ampi dell’opinione a sposare la causa della revisione costituzionale. La crisi economica e commerciale rafforzò la convinzione della necessità di ristabilire relazioni di scambio con la Gran Bretagna attraverso un’azione diplomatica risoluta, che a sua volta presupponeva un governo centrale con poteri di regolamentazione del commercio estero; mentre all’interno degli Stati il timore del disordine sociale, riacceso dalla rivolta di Shays nel 1786, finì col persuadere la maggioranza del bisogno di un forte governo centrale che tenesse a freno la conflittualità locale. La constatazione dell’opportunità del cambiamento si sposò stavolta alla consapevolezza degli strumenti costituzionali necessari, che l’esperienza dei singoli Stati contribuì a rafforzare. Accertato che il voto dei singoli Stati non avrebbe portato ad alcun risultato, si comprese che la revisione doveva essere affidata a una convenzione appositamente eletta e che la ratifica degli emendamenti doveva derivare dal voto popolare.
Uno dei documenti più importanti della riflessione nazionalista sul federalismo furono i Vices of the Political System of the United States (1787) di James Madison, con il loro formidabile atto d’accusa contro la scarsa cooperazione federale dei governi statali e contro la natura eccessivamente popolare e democratica di istituzioni locali che avevano lasciato libero gioco agli interessi di fazione. Secondo Madison, solo facendo leva sulla diretta volontà popolare (espressa nell’elezione di un organo costituente, nella ratifica della costituzione e nell’elezione di un governo nazionale oltre che in quelli statali) sarebbe stata possibile la creazione di un governo dai poteri autonomi rispetto agli Stati e la trasformazione della lega di Stati sovrani posta in essere dagli Articoli di Confederazione in un’unione nazionale effettiva. Non si trattava di abbandonare i principi del 1776 – il repubblicanesimo, la sovranità popolare, i diritti e le libertà dell’individuo – ma, al contrario, di evitare che essi fossero lasciati alla mercé di governi dominati da maggioranze di parte: solo un governo nazionale forte, stabile, con poteri limitati ma precisi ne avrebbe permesso la realizzazione nell’interesse generale della nazione. E soltanto l’élite dei migliori, dei più dotati, selezionati dal voto popolare, non le instabili maggioranze soggiogate dalla faziosità locale, era in grado di agire secondo una simile prospettiva. Da questo punto di vista, perciò, il compimento della rivoluzione, secondo i nazionalisti, poi federalisti, implicava la revisione della costituzione in senso centralistico e nazionale.
Già nel corso del 1786 si erano avute in tal senso iniziative concrete: ad esempio, il primo incontro interstatale organizzato ad Annapolis da figure del nazionalismo come Hamilton, Dickinson, Washington e Madison. Nonostante la partecipazione limitata (solo cinque Stati inviarono delegati), fu un’importante occasione per la verifica delle forze nazionaliste e soprattutto per la messa a punto di ulteriori proposte, come quella di assegnare a una seconda e più rappresentativa convenzione il compito di studiare a fondo la riforma del sistema federale. I prolungati disordini in Massachusetts causati, tra l’agosto 1786 e il gennaio-febbraio 1787, dagli agricoltori delle zone interne, impoveriti e indebitati per la depressione economica, offrirono una chiara testimonianza del rischio di destabilizzazione che si celava dietro l’impotenza statale nel risolvere i conflitti interni. L’effetto persuasivo di tali fatti fu determinante nell’indurre gli Stati più esitanti e il Congresso stesso a raccogliere l’invito espresso ad Annapolis per l’elezione di un’assemblea col mandato di emendare la Confederazione. Nel maggio 1787 poté così riunirsi a Philadelphia la convenzione che nel giro di soli quattro mesi di lavoro avrebbe elaborato il progetto di costituzione federale.
Dal 25 maggio al 17 settembre 1787 convennero a Philadelphia cinquantacinque delegati nominati dai legislativi di dodici Stati (il Rhode Island fu assente). Essi provenivano dall’élite dei grandi proprietari terrieri, dei mercanti e uomini d’affari e degli avvocati. Di buona cultura giuridica, filosofica e storica, e con esperienza politica nazionale e locale, avendo servito nel Congresso o nell’esercito continentale o nelle assemblee statali, essi rappresentavano una frazione minoritaria della società americana. Con pochissime eccezioni, ma con sfumature sensibili, condividevano l’idea che il governo centrale dovesse essere fortificato. Una dozzina di essi svolse un ruolo nettamente più importante degli altri: tra questi, James Madison, il virginiano ‘padre della costituzione’, Alexander Hamilton e John Jay, che con il primo furono successivamente autori dei celebri Federalist Papers, Gouverneur Morris e James Wilson della Pennsylvania, John Rutledge e Charles Pinckney della Carolina del Sud, Elbridge Gerry e Rufus King del Massachusetts, Oliver Ellsworth e Roger Sherman del Connecticut, George Mason della Virginia, John Dickinson del Delaware. Figure prestigiose a sostegno dell’Unione e capaci di profonda influenza sulla convenzione, benché poco attivi nel dibattimento e nei lavori delle commissioni, furono Benjamin Franklin, allora ottantunenne, e George Washington.
La comune preoccupazione per la crisi che sovrastava l’Unione e l’accordo intorno alle ragioni del fallimento dei precedenti tentativi di riforma degli Articoli di Confederazione contribuirono a mutare in modo sostanziale gli obiettivi e il mandato inizialmente assegnati alla convenzione: la Confederazione – come argomentò Madison nei citati Vices – presentava difetti così «radicalmente e permanentemente inerenti» alla sua struttura che non l’emendamento, ma solo la creazione di un sistema di governo interamente nuovo avrebbe permesso di trasformare una lega di Stati sovrani in una autentica unione. I delegati affrontarono diversi ambiti problematici: gli interessi nazionali dovevano essere convenientemente equilibrati con quelli degli Stati, l’esigenza di autorità, ordine e stabilità andava soddisfatta senza sacrificio degli interessi e delle libertà dei cittadini, il fondamento repubblicano delle istituzioni doveva essere immunizzato dagli eccessi democratici a livello statale, il governo centrale doveva essere consolidato mediante il potere di tassazione diretta, l’ampliamento della giurisdizione federale e l’attribuzione di autorità coercitiva sugli Stati. L’esistenza di divergenze tra gli Stati, su materie come la schiavitù o la politica commerciale, prometteva di complicare ulteriormente il lavoro dei delegati, anche per effetto di regole procedurali – in particolare il voto paritario per Stato e non per delegato – che sottolineavano il carattere localistico della rappresentanza riunita nella convenzione. Fu dunque una prova indubbia di spirito cooperativo il fatto che, in un arco di tempo tanto breve, i delegati riuscissero a conseguire un accordo pressoché unanime.
I lavori entrarono nel vivo, a maggio inoltrato, con la presentazione del cosiddetto ‘piano della Virginia’, che finì col fare da modello alla costituzione federale. Opera soprattutto di Madison, il progetto delineava un forte governo nazionale con due camere, quella dei rappresentanti, eletta dai cittadini dell’Unione, e il Senato, eletto dalla camera bassa. Al Congresso erano assegnati ampi poteri di legislazione in tutte le materie sottratte alla competenza degli Stati, con diritto di veto sulla legislazione statale, e autorità coercitiva sugli Stati. Un potere giudiziario nazionale e un esecutivo eletto dal Congresso, senza scadenza, non rieleggibile e con potere di veto sulla legislazione congressuale, completavano una proposta costituzionale da sottoporre alla ratifica di convenzioni statali. Si trattava di una soluzione che tendeva a favorire gli Stati più ricchi e popolosi (i seggi del Congresso sarebbero stati distribuiti in base alle tasse pagate o al numero degli abitanti) e decisamente centralistica: non quanto desiderato da Alexander Hamilton, che per il governo federale avrebbe voluto poteri illimitati, ma certo più di quanto previsto dal piano concorrente presentato in giugno da William Paterson e noto come ‘piano del New Jersey’. Espressione degli interessi degli Stati minori, questo progetto manteneva le caratteristiche salienti di accentramento del piano virginiano (poteri impositivi, controllo della moneta, del commercio e della diplomazia affidati al Congresso), salvo che sulla materia cruciale della rappresentanza: il Congresso unicamerale doveva infatti accogliere una rappresentanza egualitaria degli Stati. Con la discussione di questi due progetti, conclusasi con la bocciatura per sette voti a tre del piano di Paterson, si comprese però come la questione delle modalità di rappresentanza – se proporzionale alla popolazione o paritaria tra gli Stati – avrebbe costituito l’ostacolo maggiore. Su questo e su altri punti correlati i delegati riuscirono a raggiungere soluzioni di compromesso e avvicinarsi alla stesura di un progetto comune.
Un primo fondamentale accordo fu raggiunto ai primi di agosto sui poteri del Congresso. Decisiva fu la rinuncia dei nazionalisti al potere congressuale di veto sulla legislazione statale previsto dal piano della Virginia. In alternativa, i poteri del Congresso furono esplicitamente elencati: tassare, contrarre prestiti, regolare il commercio internazionale e interstatale, fare guerra e pace, istituire tribunali inferiori, ma anche legiferare con opportuni provvedimenti per rendere operanti i poteri previsti dalla costituzione (secondo la formulazione, poi incorporata nella sez. 8, art. I, che avrebbe dato spunto alla dottrina dei ‘poteri impliciti’ e alla dilatazione dei poteri federali). In modo speculare, furono specificate le aree fuori della competenza degli Stati: intrattenere relazioni diplomatiche in proprio, entrare in guerra, battere moneta, emettere banconote senza autorizzazione del Congresso o introdurre dazi doganali. In tal modo, raggiunto anche l’accordo sulla durata settennale della camera alta e triennale della camera bassa (poi ridotte rispettivamente a sei e due), il profilo definitivo del Congresso risultava nella sostanza delineato. Nella stessa occasione ottennero una prima definizione consensuale i poteri del presidente (politica estera, controllo dell’esercito e limitato ruolo legislativo tramite la ‘raccomandazione’) e l’impianto dell’apparato giudiziario (una corte suprema con corti federali subordinate), configurando così una struttura costituzionale fondata sulla separazione dei poteri. Tuttavia, ciò che nel prosieguo dei lavori spianò la strada alla costituzione federale furono tre fondamentali accordi: il cosiddetto ‘Grande compromesso’, o ‘del Connecticut’ (luglio), la successiva intesa in materia di schiavitù (agosto) e, infine, il compromesso relativo ai poteri della presidenza (settembre).
Il primo riguardò i criteri della rappresentanza nel Congresso bicamerale e fissò il principio secondo cui la camera bassa sarebbe stata eletta direttamente dai cittadini degli Stati Uniti, con una distribuzione dei seggi (e delle tasse federali) proporzionale alla popolazione libera (e ai tre quinti della popolazione in schiavitù), accertata con periodici censimenti nazionali. In Senato sarebbero invece andati due rappresentanti per ogni Stato, eletti dalle rispettive assemblee legislative.
Il problema della schiavitù emerse nelle discussioni sulla bozza costituzionale di agosto, che prevedeva un forte esecutivo presidenziale e un sistema giudiziario federale, ma che al tempo stesso limitava la competenza federale in materia di commercio e soprattutto di commercio degli schiavi, che il Congresso non avrebbe potuto proibire né tassare. Un simile avallo della schiavitù sollevò aspre controversie alimentate da chi, come George Mason, lo ritenevano incompatibile coi principi repubblicani, ma fu criticato anche da chi contava su future limitazioni della tratta per veder crescere il valore degli schiavi già posseduti. Le discussioni protrattesi nel mese di agosto sfociarono infine nell’accordo in base al quale il Congresso non avrebbe potuto legiferare in materia di tratta fino al 1808 e gli Stati si sarebbero impegnati a riconsegnare gli schiavi fuggitivi. È significativo che nel testo costituzionale parole come «schiavitù» e «schiavo» non figurassero:...