
- 152 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
Che cosa si intende con il termine 'postverità'? C'è chi lo utilizza per indicare una modalità di comunicare in cui i fatti oggettivi sono meno rilevanti rispetto alle emozioni e alle convinzioni. Altri lo usano per indicare informazioni volutamente e coscientemente false. Quel che è certo è che parlare di postverità coglie un cambiamento importante propiziato dai media almeno dagli anni '90. Ormai da molto tempo, infatti, i reality show, i talent, la real tv hanno reso più debole l'idea di realtà e, conseguentemente, di verità. Realtà e finzione si sono intrecciate e spesso confuse, in una logica culturale che premia le emozioni e le identificazioni, non la messa alla prova e le competenze.
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Informazioni
1.
Dalla tv verità alla postverità
L’allarme con cui oggi si parla di postverità ci dice che stiamo vivendo un fenomeno nuovo: non ci sono più ampi e condivisi quadri di riferimento e quelli che ci sono, sono talmente controversi, talmente moltiplicati, talmente individualizzati, da perdere la forza rassicurante di un quadro collettivo. Sarà stata la caduta delle ideologie (comunque di fine anni Ottanta, non proprio recentissima), sarà stata la fine dei partiti, sarà l’insicurezza di un nemico nuovo e imprendibile come l’ISIS, sarà la smaterializzazione della vita via web, sarà la mondializzazione, fatto è che ci sentiamo in preda a un horror vacui: la verità non c’è più – dicono in molti.
Tuttavia tale allarme è ai miei occhi piuttosto spiazzante. È davvero successo qualcosa di inedito? E quando è avvenuto questo abbandono delle certezze? È tutta colpa della politica, è colpa della mondializzazione, è colpa di internet, o si sono inseriti altri fattori?
Non che non veda il rischio che il regime di confusione in cui versiamo comporta, ma il punto è che non ne vedo la sorpresa. Vedo, piuttosto, una lenta, inesorabile e chiarissima evoluzione, che procede con continuità, non con fratture, tanto meno con sorprese, dalla fine degli anni Ottanta ad oggi.
Mi pare, cioè, che tutto sia iniziato tempo fa, e che dunque le cause (se di cause possiamo parlare, in modo appropriato, per fenomeni sociali così complessi) siano da ricercare non tanto nel web, nei social, nel populismo, quanto nella televisione – la cara, buona, vecchia televisione. Potrei dire che la confusione tra finzione e descrizione, invenzione e documentazione, è comparsa ancora prima, in alcuni celebri casi letterari, da Truman Capote a Sciascia (con una scrittura di denuncia, tra fiction e non fiction, che arriva fino a Saviano), ma voglio concentrarmi sulla televisione perché penso che la sua incidenza sia stata infinitamente più rilevante di A sangue freddo di Truman Capote, per fare un esempio. Forse la letteratura, o l’arte d’avanguardia in generale, hanno aperto una strada, una possibilità discorsiva, che poi la televisione ha fatto esplodere, andando a incidere sui modelli culturali di intere generazioni. È la televisione che ci ha abituato a confondere verità e finzione. È lei che ha consegnato lo scettro del microfono a gente comune senza speciali competenze. È lei che è entrata nel nostro privato e lo ha autorizzato a dominare le scene.
Tutta colpa della tv, dunque? Televisione cattiva maestra? No, non è questo il punto; non voglio apocalitticamente vedere in essa tutto il male dell’oggi. Voglio semplicemente ricostruire criticamente una genealogia, per essere un po’ meno impreparati a leggere l’oggi.
1.1. La tv verità
Erano gli anni Ottanta, appunto, quando si è iniziato a parlare di tv verità. Erano gli anni della Raitre di Angelo Guglielmi. Erano gli anni in cui iniziavano trasmissioni come Telefono giallo, Chi l’ha visto?, Un giorno in pretura. La televisione, cioè, abdicava al ruolo di puro agente di spettacolo, o a quello pedagogico (svolto con trasmissioni storiche come quella di Alberto Manzi), e sceglieva la strada della realtà: si proiettava all’esterno, verso i problemi quotidiani della gente. Fra varietà e scuola, cercava un altro polo, quello della vita d’ogni giorno. Entrava in crisi così l’alternativa tra informazione e intrattenimento, che fino a quel momento aveva modellato la tv, e iniziava a prendere piede qualcosa di ibrido, che intratteneva parlando di realtà; o meglio: intratteneva portando dentro al suo spazio (di spettacolo) la realtà.
Successivamente si è parlato di infotainment per descrivere – con la crasi di information e entertainment – quei programmi che parlavano di politica in salotto, o simulavano una piazza di gente comune (dalle trasmissioni di Santoro alla Gabbia di Paragone). Dalla fine degli anni Ottanta siamo cioè nel pieno di quel regime che Umberto Eco in Sette anni di desiderio (1983) ha definito «neotelevisione». A dominare la neotelevisione sono una logica di intrattenimento e una logica di partecipazione: il pubblico interviene con le sue telefonate in diretta; si impone la logica del salotto, ovvero la messa in scena di una situazione informale in cui la distanza fra tv (professionisti della tv) e pubblico si riduce; i conduttori diventano più informali, il linguaggio si fa quotidiano, le scenografie si fanno domestiche o comunque vivaci, non asettiche. Iniziano, insomma, a entrare prepotentemente in scena le emozioni.
È su questo sfondo neotelevisivo che si inseriscono le trasmissioni della tv verità, che sembrano rilanciare l’idea di una finestra sul mondo, ma in realtà iniziano a costruire mondi in vitro. La tv, anziché inquadrare il reale, ritagliandolo, selezionandolo e discutendone gli elementi di interesse, inizia a costruirsi i ‘suoi’ eventi. Pensiamo a trasmissioni come Un giorno in pretura, in onda dal 1988, con la presa diretta dei processi. Evidentemente un programma come questo si affermava come ripresa «trasparente» di una specifica tipologia di realtà – quella giudiziaria –, ma era chiaramente fatto di tagli, selezioni, inquadrature... Anche in quel programma che cercava di essere massimamente trasparente e neutro c’era cioè una chiara costruzione: una presentatrice, (tramite la presentatrice) una narrativizzazione articolata con approfondimenti sui protagonisti, storie in flashback, medaglioni biografici... La verità dei fatti, anche in trasmissioni «estreme» come questa, diventava la verità del racconto...
Sandra Cavicchioli e Isabella Pezzini, in uno studio del 1993 che resta tuttora di riferimento, cercavano di distinguere varie tipologie di trasmissioni che si davano come racconti sul mondo. Individuavano così trasmissioni con una funzione testimoniale forte, che si presentavano come protesi dell’occhio dello spettatore: come nel giornalismo di cronaca, la tv arrivava a raccontare in diretta e da vicino i fatti della realtà, offrendosi come «finestra sul mondo». Appartenevano a questo gruppo trasmissioni quali Un giorno in pretura o (ormai obsoleti) programmi tipo I racconti del 113.
C’erano poi casi in cui il reale sembrava solo il punto di avvio per programmi che invece lasciavano ampio spazio al dialogo fra pubblico e conduttore, fra dibattito e inchiesta... Cavicchioli e Pezzini situavano qui testate storiche come Chi l’ha visto? o Telefono giallo, dove la realtà era punto di partenza e la verità punto di arrivo. Queste trasmissioni ponevano e pongono al centro di se stesse un’inchiesta.
Un terzo gruppo vedeva irrompere sullo schermo la realtà dei sentimenti, dei problemi privati, dell’intimità esibita. Rientravano in questo gruppo programmi, ormai chiusi, come Agenzia matrimoniale o Scrupoli, per certi versi non distanti dagli odierni La vita in diretta o Amici. La realtà che qui si restituiva era quella del disvelamento indiscreto, la verità che si vede dal buco della serratura o che emerge dalla confidenza. Piccole verità private che diventavano di dominio (e di sanzione – elemento non irrilevante) pubblico.
E infine c’erano trasmissioni miste, come Pronti a tutto o Caccia all’uomo, dove la partecipazione attiva della gente comune era centrale, così come era centrale una modalità più ludica, quasi scherzosa, che arrivava a essere una parodia della realtà della tv verità.
Quando Cavicchioli e Pezzini descrivevano queste tipologie era il 1993, ma tutto ciò suona ancora estremamente, forse drammaticamente, attuale. Si sono date in quegli anni alcune svolte del fare televisivo che hanno, a mio parere, segnato per sempre il nostro rapporto con lo schermo (che allora era solo uno schermo tv, oggi è anche lo schermo di un computer o di uno smartphone) e modificato il confine tra i due versanti che uno schermo separa, o dovrebbe separare: quello della rappresentazione e quello degli eventi (evito volutamente i termini finzione/simulazione/illusione, da una parte, e realtà/verità/fatti, dall’altra).
In tutte queste trasmissioni, pur nella loro diversità, c’erano delle caratteristiche costanti:
– una specie di ossessione per la realtà: era la realtà a legittimarle; erano interessanti perché parlavano di fatti, vale a dire di cose vere: verità;
– questi fatti venivano colti per lo più nel loro accadere, come eventi in corso, in presa diretta; si dava cioè un’illusione di presenza, e per questo di trasparenza: noi-tv siamo lì mentre le cose avvengono;
– la partecipazione della gente comune era cruciale, o come protagonista della realtà (i fatti raccontati riguardavano spesso persone comuni) o come pubblico attivo in studio;
– lo spostamento verso il privato era radicale: nel parlare di realtà, di fatti, gli aspetti messi in luce non erano tanto aspetti di rilievo politico, quanto fatti privati. «Lo slogan, una volta rivoluzionario, secondo cui il privato è pubblico, anzi è politico, sembra mostrare la sua faccia populista», scrivevano nel ’93 Cavicchioli e Pezzini – quando il populismo era al massimo una storia da regime sudamericano. È l’esperienza individuale a mediare questioni più generali; facendosi esempio, la storia di vita diventa di interesse generale, pur non perdendo la sua radice particolaristica; anzi: essendo credibile proprio perché individuale.
Aggiungiamo un ultimo aspetto, alle caratteristiche trasversali di queste trasmissioni: spesso presupponevano un segreto da svelare, una dimensione che era ora di indagine vera e propria, ora di indiscrezione, in ogni caso non visibile ma da portare in superficie, da condividere pubblicamente. Lo evidenzio per meglio riflettere su certe dinamiche delle denunce mediatiche odierne, per cui il gesto politico (di segno per lo più populista) consiste nel mettere alla pubblica gogna la vittima di turno.
Emerge con chiarezza in queste trasmissioni un aspetto che è a mio avviso cruciale per pensare oggi il problema della verità, e della postverità: quello dell’affidamento; o meglio: del trasporto verso il discorso in atto e chi lo pronuncia. La televisione ci ha abituati a un’adesione emotiva ai suoi portavoce (o, viceversa, a un’antipatia istintiva), basata su meccanismi di identificazione, proiezione ecc. Ma questa è cosa ben diversa dalla fiducia che si dà, e si deve dare, a chi riteniamo che sia autorevole in un certo ambito. L’affidamento cioè è stato declinato (anzitutto, a parer mio, grazie alla tv verità) in proiezione emotiva: mi affido a chi è come me, non tanto a chi ne sa più di me.
Qualcosa di simile lo rilevava già Eco molti anni fa, in un volume curato da Mauro Wolf (1981) per la collana VQPT in cui parlava di «verità della televisione», una verità che non è aderenza ai fatti del mondo ma autenticità. In questi casi l’essere vero non dipende dalla trasparenza rispetto al mondo, dal rilievo del pezzo di mondo raccontato, dalle competenze di chi parla, ma dal fatto che chi parla (con il suo vissuto, il suo carattere – magari anche pessimo ma umano –, il suo aspetto...) sia lì, in primo piano, presente, senza retroscena: l’illusione della presa diretta.
Tra verità dei fatti e verità del vissuto c’è, però, grande differenza. Il mio sentire può sinceramente farmi dire che in una data situazione ero in difficoltà, ero in una posizione di debolezza, ero una vittima, ma la situazione nel suo complesso può posizionare i ruoli di vittima e provocatore (se non carnefice) in un modo completamente diverso. Anche un delinquente può raccontare le sue pene sincere (con verità), ma la verità su un piano fattuale è che è responsabile di delinquere.
Così come diverso è «dire il vero» e «dire veramente». L’accadere veramente di alcuni fatti televisivi non legittima la verità di quei fatti. Che in una stanza-set, come nel Grande Fratello, succedano effettivamente delle cose non implica che quelle cose siano vere (se per vere intendiamo naturali, spontanee, normali...).
Ci si avvia a una situazione televisiva in cui il rapporto tra enunciati e fatti diventa sempre meno rilevante rispetto al rapporto tra la verità dell’atto di enunciazione e l’esperienza ricettiva dello spettatore. Nei programmi di intrattenimento (e nei fenomeni che essi producono e produrranno di rimbalzo sui programmi di informazione «pura») conta sempre meno che la televisione dica il vero, quanto piuttosto il fatto che ...
Indice dei contenuti
- Introduzione
- 1. Dalla tv verità alla postverità
- 2. La verità della rete
- 3. La scomparsa dei fatti
- 4. Verità, discorsi, accordi
- Riferimenti bibliografici