La via italiana alla democrazia
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La via italiana alla democrazia

Storia della Repubblica 1946-2013

  1. 296 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La via italiana alla democrazia

Storia della Repubblica 1946-2013

Informazioni su questo libro

All'inizio del 2013 si sono verificati due eventi inediti: la rielezione a capo dello Stato di Giorgio Napolitano e il successo elettorale del Movimento 5 Stelle. Questi due fatti hanno segnato una cesura che ha concluso il Novecento politico degli italiani. A partire da questa novità interpretativa, l'autoreripercorre l'intera storia repubblicana. Ricostruisce, tra l'altro, i modi con cui le famiglie politiche hanno concorso all'organizzazione del potere e alla vita collettiva, realizzando una prima socializzazione politica di massa. E come, pur essendo i soggetti fondatori della democrazia e della sua stabilità, siano pressoché scomparse.

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Informazioni

1.
L’Italia dopo la guerra

Nessuno riuscì, come Luchino Visconti e quanti lavorarono a Ossessione, a rendere il senso del fascismo interiore che albergava nell’animo degli italiani1. E dell’ineluttabile tragedia che ne sarebbe derivata. Giovanna e Gino, il Bergana, don Remigio e l’ispettore di polizia, lo Spagnolo e Anita sono altrettante immagini delle diverse possibilità che stavano di fronte agli italiani. La costretta personale prigionia, il conformismo omologante, le imperscrutabili e non convenzionali vie della libertà e della liberazione coabitavano con la consapevolezza della fatica inevitabile e soffocante, che attendeva il popolo italiano alla vigilia del subitaneo crollo della “via italiana al totalitarismo”2.
Il volto assunto dall’Italia repubblicana molto doveva a questo passato. Fin dall’unificazione nazionale l’immaginario era figlio dei democratici, il politico appannaggio dei moderati. Una condizione analoga, sia pure con nuovi protagonisti, si verificò anche nel secondo dopoguerra, quando entrambi – democratici e moderati –, sia pure con ruoli chiaramente distinti e non interscambiabili e frammisti nei nuovi partiti ideologici di massa, costituivano le colonne portanti della costruzione nazionale3.
Fin dalle origini l’Italia unita, come si è accennato, è stata il frutto di uno stretto intreccio tra questione nazionale e proiezione internazionale. Ogni mutato equilibrio su quest’ultimo piano ha avuto conseguenze decisive sul primo. L’Italia repubblicana discendeva immediatamente dal disastro della seconda guerra mondiale. Ne era conseguita una bruciante sconfitta del paese e delle aspirazioni che la sua classe dirigente e parti significative delle masse avevano coltivato con l’esperimento totalitario della dittatura fascista.
Quest’ultima aveva rappresentato un tentativo di sciogliere i dilemmi irrisolti che avevano accompagnato il farsi dell’Italia, e di dare a essa una nuova e se possibile definitiva sistemazione. La prova fornita nel corso della prima guerra mondiale aveva confermato sì le attese coltivate dal nazionalismo italiano, ma il risultato finale aveva acuito la frustrazione che scaturiva dall’impossibilità di prendere atto delle dimensioni, del peso, della sostanza effettiva della nazione, della esclusione voluta o autoimposta di sue componenti fondamentali4. La nazionalizzazione delle masse5, pertanto, avvenne entro il quadro di una dittatura fondata sul partito di massa omogeneamente presente su tutto il territorio. Parve dotare un paese, altrimenti disordinato, di una fisionomia adatta alle sfide dei tempi, preservando nel contempo i modi di essere tradizionali delle classi dirigenti e dell’articolazione gerarchica della società. Erano ritenuti imprescindibili a che la potenza e la forza della nazione si saldassero e si affermassero. La nazione poteva così finalmente aspirare al conseguimento di obiettivi vanamente perseguiti nel vicino passato unitario: la grandezza che ne derivava altro non era che il frutto del finalmente riconosciuto valore in tutte le inespresse potenzialità.
La conclusione della seconda guerra mondiale, con il disastro militare ed etico scaturito dalla coabitazione politica totalitaria e dai valori che la informavano, condusse a prendere atto di un’aspra, diversa realtà. Non solo occorreva assumere consapevolezza del ridimensionamento dell’Europa sul piano mondiale e, conseguentemente, dei perimetri effettivi dell’Italia e del modo di convivenza con gli altri, ma anche del permanere di una sostanziale arretratezza del paese, con gli squilibri, con le difficoltà, con la grande fatica necessaria se non al superamento, almeno al miglioramento di una simile condizione. Peraltro la soluzione data alla nazionalizzazione delle masse, lungi dal mitigare e sopire i contrasti, aveva finito col radicalizzarli, tanto da sfociare, nelle aree meno stagnanti del paese, in aperta guerra civile con tutte le inevitabili brutture che essa recava con sé6.
A preservare l’autostima della comunità nazionale intervenne la Resistenza7. Coniugandosi con miti elaborati dai principali intellettuali italiani, a cominciare dalla visione del fascismo come “invasione degli Hyksos”, secondo la celebre immagine di Croce, e cioè come un’esperienza estranea alla natura profonda di una società che serenamente sviluppava il proprio profilo liberale, la Resistenza agevolò, anche con il porre tra parentesi la ventennale dittatura e il vasto consenso del quale aveva beneficiato, l’assunzione di una nuova dignità8. Questo modo di procedere, la rimozione accompagnata all’orgoglio di sé, comportò naturalmente un prezzo salato: e cioè il fare del fascismo un’esperienza che non passava9, sradicandolo dallo spazio nel quale era storicamente nato, e trasformandolo in qualcosa di sostanzialmente estraneo alla natura, alla cultura, alla mentalità, all’antropologia degli italiani, ad eccezione di quelle minoranze che trovarono poi riparo nella Repubblica sociale italiana o nella nostalgia dell’Uomo qualunque e del Msi.
La Resistenza aveva emendato l’illiberalismo e il razzismo che avevano caratterizzato la dittatura, razzismo naturalmente sfociato nella discriminazione degli ebrei e nella consapevole partecipazione di segmenti non marginali della società alla Shoah, al pari, del resto, di quel che accadde nell’Europa egemonizzata dai nazisti10. Mostrava altresì che, nonostante si fosse tentato di preservarlo e di rafforzarlo con la persecuzione e la cancellazione degli omosessuali11, il virile uomo nuovo si era drammaticamente perduto nei diversi fronti di guerra. L’Italia, intrapresa fino in fondo la via dell’affermazione nazionalistica, era in frantumi. Doveva nuovamente ricostruirsi su basi radicalmente altre rispetto a quelle su cui si era poggiata la dittatura. Così, almeno, pensava il Partito d’Azione con la sua visione di quel passaggio come di una guerra civile, e cioè di un inesorabile, atroce, irriducibile contrasto tra due concezioni del vivere insieme, entrambe presenti e operanti. Invocava un ripensamento complessivo, un’assunzione di responsabilità. Comportava l’avvertito bisogno di fare i conti con il pesante fardello del nazionalismo razzista con il quale l’Italia aveva risposto al venir meno del primato europeo, messo in evidenza dalla Grande Guerra.
L’insistenza degli intellettuali liberali sulla somiglianza tra fascismo e azionismo derivava dall’insofferenza per questa natura scabra – una messa in opera del verso di Sbarbaro del 1914: “Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso”12 – della proposta azionista. Rifletteva però anche la comprensione della natura di un’alternativa all’Italia in cammino13, sfociata nella lunga esperienza fascista, a ciò che conteneva di maggiormente rivelatore della stratificazione della società italiana, degli abiti mentali, del metodo politico, dell’ideologia e delle élites, al di là di quelle selezionate per la dittatura totalitaria fondata sull’ideologia. Il Partito d’Azione rifiutava l’heri dicebamus14, che intendeva riallacciarsi all’altroieri, come se il fascismo non ci fosse stato. Luigi Einaudi, scrivendo a Wilhelm Röpke sul documento Le problème politique italien, riprese il giudizio che il figlio minore Giulio, assai vicino al Pci, aveva confidato a Ernesto Rossi, autore di quel documento con Altiero Spinelli. La commistione di “principi liberisti” con “principi collettivistici” faceva del PdA nient’“altro che una via neo-fascistica”. Il padre liberale, al quale il figlio comunista aveva mandato copia della lettera a Rossi, parlò con Röpke di “un altro fascismo sotto il nome di Partito d’Azione”15.
Questa convergenza era esemplificativa dei rischi connaturati con l’affermazione del Partito d’Azione rispetto al disporsi dell’immediato futuro. Il rifiuto era già emerso nello scontro coi democratici intorno alla svolta di Salerno, quando a Ivanoe Bonomi Togliatti era apparso come “un cavaliere portentoso, un Lohengrin redivivo”16. Il Partito d’Azione fu in effetti il solo partito nuovo del sistema in formazione. Morì precocemente perché era eccentrico rispetto alle condizioni della società italiana del tempo, sebbene sia stato ritenuto, al contrario, una sopravvivenza del passato17. Il fatto è che da esso provenne una classe dirigente che contò moltissimo nella “repubblica dei partiti”, specie – ma non solo – nella sinistra democratica e nelle forze del movimento operaio.
Su questo partito vi è stato fin dalle origini un appassionato discorrere, che è poi sfociato in visioni storiografiche differenti, se non contrapposte. Anzi, nell’opera di più accurata e approfondita ricostruzione storica, uscita la prima volta nel 1982 e periodicamente ripubblicata con aggiornamenti bibliografici che non ne hanno sfiorato la sostanza interpretativa, il Partito d’Azione è stato elevato alla massima espressione dell’antifascismo esistenziale18. Come se il politico fosse esperienza di altra natura, senza rapporto effettivo con la vita di ciascuna e di ciascuno, e si potesse ridurre alla dimensione del potere, delle élites dirigenti, delle anime insalvabili; e non fosse, in tempi di società di massa, anche passione, attese, ambizioni, convinzioni che ognuno sintetizzava con la militanza, con l’appartenenza, con l’ascolto, con il voto. Così come il suo precedente ritenuto più illustre, Giustizia e Libertà, il Partito d’Azione finiva con l’apparire un partito apartitico, dalla fisionomia prepolitica, se non antipolitica, così incisivamente restituita dall’espressione “partito dei f...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Prologo. “Che te vada pe’ traverso”
  3. 1. L’Italia dopo la guerra
  4. 2. Il compromesso storico della Costituzione
  5. 3. Il nuovo quadro internazionale e il sistema democratico in formazione
  6. 4. Verso il centrosinistra
  7. 5. Il Sessantotto
  8. 6. Il tentativo del riconoscimento consensuale
  9. 7. Crisi, agonia e morte della democrazia dissociativa e dei soggetti costituenti
  10. 8. La rifondazione del sistema dei partiti nel mondo globalizzato