Il ruolo dell'intellettuale e la causa dell'Europa
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Il ruolo dell'intellettuale e la causa dell'Europa

Saggi

Jürgen Habermas, Carlo Mainoldi

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Il ruolo dell'intellettuale e la causa dell'Europa

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Jürgen Habermas, Carlo Mainoldi

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«L'unica capacità che ancor oggi dovrebbe contraddistinguere l'intellettuale è il fiuto avanguardistico per ciò che conta. Ciò richiede virtù tutt'altro che eroiche: il senso per quel che non va e che 'potrebbe andare diversamente'; un pizzico di fantasia per progettare alternative; un poco di coraggio per l'asserzione provocatoria, per il pamphlet. Tutto ciò è più facile dirlo che farlo, e lo è sempre stato»:

Jürgen Habermas riflette criticamente sulla funzione dell'intellettuale nella sfera pubblica e sul futuro delle democrazie europee.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858134252
Argomento
Filosofia

1.
Il ruolo dell’intellettuale
e la causa dell’Europa
1

Quando il direttore del Karl-Renner-Institut mi diede la bella notizia che quest’anno la giuria intendeva conferire a me il premio Bruno Kreisky, ebbi non solo modo di riflettere sull’aspetto sconcertante della fortunata situazione in cui mi venivo a trovare, ricevendo un riconoscimento tanto immeritato dopo decenni di discussioni e scontri durante i quali avevo goduto di una fama piuttosto controversa. Piuttosto, i nomi di quelle due figure storiche che con mutevole destino sono così gloriosamente legate alla Repubblica austriaca, mi danno anche occasione di meditare per la prima volta sul mio rapporto con i socialdemocratici viennesi. Non che ci siano stati dei rapporti politici. Ma i nomi di Karl Renner e di Bruno Kreisky mi rammentano sollecitazioni intellettuali di cui sono debitore a una grande tradizione teorica. In questa occasione vorrei esprimere il mio grazie all’austromarxismo per due determinanti stimoli intellettuali che me ne sono venuti.

Un grazie all’austromarxismo

Quando, dopo studi filosofici piuttosto convenzionali, nel 1956 arrivai nell’ambiente insolito dell’Institut für Sozialforschung di Francoforte, preparandomi a una ricerca empirica dovetti acquisire dimestichezza anche con la letteratura (allora quasi esclusivamente giuridica) sullo Stato di diritto e sulla democrazia. A dire il vero trovai avvincenti i dibattiti fra gli illustri docenti di diritto pubblico della Repubblica di Weimar, ma non riuscivo a mettere in relazione i concetti normativi della giurisprudenza con la teoria della società, alla cui luce cercavo di chiarirmi la politica contemporanea. Fu la lettura di un libro ad aprirmi gli occhi sul nesso fra economia politica e diritto. Il libro, pubblicato nel 1929 con il titolo scostante Gli istituti del diritto privato e la loro funzione sociale, risaliva a studi2 che il giovane Karl Renner aveva condotto al volgere del secolo mentre lavorava come bibliotecario all’archivio del Reichsrat, il Parlamento austriaco3.
Venni così in contatto con gli scritti degli austromarxisti, nei quali trovai tre cose di cui a Francoforte, come assistente di Adorno, sentivo la mancanza: primo, l’ovvio legame della teoria con la prassi politica; secondo, la non timida apertura della teoria sociale marxista a idee della scienza accademica (orientamento dal quale Horkheimer e Adorno si erano di nuovo scostati dopo la Dialettica dell’Illuminismo); e terzo, l’identificazione senza riserve con le conquiste dello Stato democratico di diritto, senza rinunciare agli obiettivi riformistici radicali che andavano ben al di là dello status quo.
Nel mio percorso dall’hegelomarxismo al pragmatismo kantiano, un simile impulso positivo mi venne nei tardi anni Sessanta dal libro di un altro austromarxista: un’opera tarda di Max Adler, pubblicata nel 1936 con il titolo Das Rätsel der Gesellschaft [L’enigma della società]4. Con l’introduzione di un «apriori sociale» Adler non solo rammenta che la coscienza del nostro io e del nostro sapere del mondo si costituisce in un contesto sociale: viceversa, a suo avviso, anche i nessi sociali della vita devono basarsi su atti del sapere. La stessa società poggerebbe allora sulla fatticità delle pretese di validità che noi solleviamo con le nostre manifestazioni comunicative. In tal modo, del tutto analogamente al tardo Husserl, Adler fonda un moto immanente alla società stessa per la verità delle asserzioni e l’esattezza delle norme5.
Otto Bauer e Rudolf Hilferding, Karl Renner e Max Adler si consideravano, nonostante tutto il loro rigore di scienziati, degli intellettuali di partito che erano pronti a piegarsi in caso di necessità all’ineludibile disciplina richiesta dalla tattica e dall’organizzazione. Come democratici avevano tuttavia, quanto al ruolo del partito, tutt’altra concezione di quella espressa dal Lukács leninista di Storia e coscienza di classe. Comunque sia, la figura dell’intellettuale di partito rientrava nell’àmbito storicamente trascorso dei partiti della sinistra ideologica. Dopo il 1945 questo tipo di militante non poteva più sussistere in Occidente. Come Willy Brandt, anche Bruno Kreisky tornò trasformato dalla Scandinavia. È stato anche merito di questi socialdemocratici di ritorno dall’emigrazione che la società classista si sia pacificata nell’alveo dello Stato sociale e abbia assunto la nuova dimensione di una società civile.
Da questo sfondo si delinea distintamente il tipo dell’intellettuale contemporaneo. Gli intellettuali che si imposero dopo il 1945 – come Camus e Sartre, Adorno e Marcuse, Max Frisch e Heinrich Böll – assomigliavano ai modelli più antichi di scrittori e professori che assumevano sì posizioni di parte, ma non erano politicamente legati a nessun partito. Cogliendo una data occasione, senza essere stati richiesti o averlo concordato con qualcuno, essi si inducevano, al di là della loro professione, a fare un uso pubblico del loro sapere professionale. Senza pretendere alcuno status elitario, non si richiamavano ad altra legittimazione che non fosse il loro ruolo di cittadino di uno Stato democratico.

L’intellettuale e la sua sfera pubblica

Le radici di questo modo egualitario di intendere il proprio ruolo risalgono in Germania alla prima generazione dopo Goethe e Hegel. Gli irrequieti letterati e liberi docenti appartenenti alla cerchia della Giovane Germania e degli hegeliani di sinistra hanno alimentato l’immagine dell’intellettuale fra le nuvole, spontaneo, spesso lacrimevole, facile all’eccitazione e alla polemica, piuttosto imprevedibile, e, del pari, i persistenti pregiudizi nei suoi confronti. Non a caso la generazione di Feuerbach, Heine e Börne, di Bruno Bauer, Max Stirner e Julius Fröbel, di Marx, Engels e Kierkegaard è entrata sulla scena negli anni antecedenti il 1848, quando si andavano formando il parlamentarismo e la stampa di massa sulle ali del protoliberalismo.
Già durante questo periodo di incubazione, quando per tutta Europa si stavano diffondendo i germi della Rivoluzione francese, si delineò la costellazione nella quale troverà posto il tipo dell’intellettuale moderno. Con i loro argomenti affinati dalla retorica, gli intellettuali possono influire sul formarsi delle opinioni soltanto quando sono ben collegati a una opinione pubblica vigile e informata, capace di farsi cassa di risonanza. Necessitano di un pubblico dall’orientamento più o meno liberale, e già per questo devono poter confidare su uno Stato di diritto abbastanza funzionante, dacché nella lotta per verità represse o diritti negati devono potersi appellare a valori universalistici. Appartengono a un mondo dove la politica non si risolve nell’attività statale; il loro mondo è una cultura politica della contraddizione, nella quale possono essere scatenate e mobilitate le libertà di comunicazione dei cittadini.
È semplice schizzare il tipo ideale di un intellettuale che scopre temi importanti, formula tesi fruttuose e amplia lo spettro dei relativi argomenti, sì da migliorare il deplorevole livello del dibattito pubblico. D’altro lato non dovrei sottacere l’occupazione favorita degli intellettuali: essi indulgono sin troppo nel comune lamento di rito sul tramonto «dell’» intellettuale. Confesso di non andarne del tutto esente neppure io.
Non sentiamo forse la mancanza dei diverbi e dei manifesti del Gruppo 47, degli interventi di Alexander Mitscherlich o di Helmuth Gollwitzer, delle prese di posizione politiche di Michel Foucault, Jacques Derrida e Pierre Bourdieu, degli incisivi testi di Erich Fried o di Günter Grass? Dipende realmente da Grass se la sua voce oggi non trovi quasi ascolto? O di nuovo si sta attuando nella nostra società mediatica un mutamento strutturale della sfera pubblica, che fa male alla classica figura dell’intellettuale?
D’altro lato, la conversione della comunicazione dal libro stampato e dalla stampa di giornali e periodici alla televisione e a internet ha portato a un ampliamento inaudito della dimensione mediatica pubblica e a un’intensificazione senza eguali delle reti di comunicazione. La sfera pubblica nella quale gli intellettuali si sono mossi come pesci nell’acqua si è fatta più inclusiva, lo scambio è divenuto intenso come non lo è mai stato in precedenza. Per un altro verso gli intellettuali, di fronte all’esondazione di questo corroborante elemento, sembrano affogare come travolti da un’overdose. L’abbondanza pare trasformarsi in maledizione. I motivi sono a mio avviso da ricercare in una de-formalizzazione della sfera pubblica e in una de-differenziazione dei ruoli corrispondenti.
L’impiego di internet ...

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