Venezia in cucina
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Venezia in cucina

  1. 244 pagine
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Venezia in cucina

Informazioni su questo libro

Ecco un libro che si legge volentieri, che oscilla tra storia e gastronomia e che ha al centro Venezia, crocevia di culture, di commerci, impasto di esperienze islamiche e mitteleuropee, porto dove sbarcavano spezie, zucchero, caffè, merluzzi essiccati. Non è un libro di ricette ma la ricostruzione dettagliata e spesso, cosa che non guasta, spiritosa di circa 1500 anni, con pessimistiche riflessioni sugli ultimi che stiamo attraversando."Il Venerdì di Repubblica"La cucina veneziana è lo specchio dello stile della sua città, multietnica per vocazione storica. Carla Coco ne racconta il percorso in continuo divenire, dalle ostriche rinascimentali coperte d'oro alla moda seicentesca degli chef francesi, dalla cioccolata amara in tazza che impazzava nel Settecento all'aperitivo con lo spritz importato dagli austriaci. Tra ricette dal sapore antico, aneddoti, pagine di storia e ricettari, questo libro sprigiona a ogni pagina la miscela magica di una sapienza del vivere che resiste nel tempo.

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Informazioni

Argomento
Arte

1. Lo «spazio infinito della laguna

Tra terra e acqua, su isole molecolari avvolte in una cornice rosa opalino, prende forma la vita dei primi lagunari, annidati come uccelli palustri in uno spazio particolarissimo. Consegna alla storia questo universo senza tempo Cassiodoro di Squillace, ministro romano di re Teodorico. È il 537-538 e siamo nel bel mezzo di una carestia. Il senatore scrive ai Tribuni marittimi della Venezia allo scopo di ottenere aiuto nel trasporto delle derrate alimentari dall’Istria a Ravenna: olio e vino per l’esattezza. Le sue belle parole certificano l’esistenza di una popolazione stabile:
Voi viaggiate lungo ciò che possiamo solo chiamare le vostre strade, voi navigate nel paese dei vostri padri. Tutte le volte che la furia dei venti rende i mari inaccessibili voi aprite le rotte dei riparati lidi. I vostri barconi non temono le raffiche violente e approdano indenni e sebbene si arenino frequentemente non si rompono mai. Se da lontano non si riesce a vedere il canale dove stanno navigando si ha l’impressione che essi si muovano tra i campi. Le vostre case sono simili a quelle degli uccelli acquatici, ora sul mare ora sulla terra, voi siete ricchi di pesce, ricchi e poveri vivono insieme, in uguaglianza.
Quattro secoli e mezzo prima dell’anno Mille, senza differenze di censo, i veneti marittimi consumano lo stesso cibo e alternano l’attività fluviale al cabotaggio costiero e alle traversate in mare aperto. Senza terreno disponibile da destinare all’agricoltura o all’allevamento, la sola fonte di sostentamento deve essere cercata nell’elemento liquido. Ma è ancora una volta l’eloquente prosa latina di Cassiodoro a chiarire come viene superata l’innegabile essenzialità dell’ambiente: mentre gli altri fanno girare aratri e falci, i veneti triturano il sale e lo usano come moneta per acquistare il grano e gli altri generi che non ci sono in laguna. Tutti i loro sforzi si concentrano nel lavoro delle saline, da cui proviene ogni guadagno. Altro che vettovaglie, dal momento che possiedono un’autentica zecca del sale.
Perché perfino l’oro può essere più o meno richiesto, ma chi può fare a meno del sale che rende gratissimo ogni cibo?

Sale, saline, salinari

Terreni fangosi e notevoli spazi vuoti. La potenza erosiva del­l’acqua imbrigliata col marginamento delle terre ermerse, e, su queste terre, povere case dai tetti di paglia e di tavole. Tra le macchie di una vegetazione esuberante spuntano piccoli squeri o cantieri per la costruzione e la riparazione delle barche, un groviglio di vele, antenne, cordami che testimonia l’intraprendenza e la voglia di fare. Sugli argini, i muri delle saline si alternano alle ruote dei mulini, animati dal flusso delle maree.
All’inizio, dunque, è il sale. E le notizie, anche se incerte e frammentarie, di questi secoli pionieristici lasciano chiaramente supporre che fin dai tempi romani in laguna si pratica l’estrazione del prezioso elemento. Alcuni documenti del­l’VIII, IX e X secolo lo confermano. Nel marzo del 958 Pietro III Candiano cede a Martino Zancani una salina di Palazzo Ducale che si trova a Murano. Nel 1034 il pievano di Santa Maria e Donato di Murano dà a un tale Domenico la palude chiamata de umbrario per costruirvi ‘nuovamente’ due saline, riferimento evidente ad una precedente attività. Dieci anni dopo Stefano Candiano ne cede venti ad un gruppo di persone. Nel 1064 i fratelli muranesi Martino e Marino – già conduttori di 21 strutture – dichiarano di aver ricevuto da Pietro Foscari una certa acqua per impiantarvi una nuova attività.
Semplici ma efficaci le clausole che regolano questi primi accordi: pezzi di terreno ceduti per 29 anni ad uno o più consociati in cambio di un moggio per ogni salina o del pagamento di una somma di denaro. Importante la buona tenuta del­l’attività, che altrimenti torna al proprietario. Ma se tutto funziona a dovere, alla fine del periodo stabilito, il conduttore può anche vendere.
Pilastro della nascente fortuna commerciale, le saline nascono quasi contemporaneamente allo stanziarsi della prima collettività. Nel paesaggio lagunare, appena antropomorfizzato, queste rudimentali costruzioni nel volgere di alcuni secoli diventano sempre più perfette e comode da raggiungere. Tanto che Lorenzo De Monacis nel suo Chronicon scrive che erano veramente sorprendenti e magnifiche e una delle cose che più ammiravano i forestieri in visita.
Per impiantarle è necessaria una certa industriosità. Bisogna scegliere velme e paludi idonee, di sola creta. Arginare le aree con pali e muretti di mattoni. Svuotarle dell’acqua, spianarle e selciarle, aprire dei canali per consentire l’ingresso del­l’acqua che si vuole far evaporare. Si chiamano morari, cavedini, aie, gli spazi cintati utilizzati per la cristallizzazione, secondo la grandezza. L’insieme costituisce il fondamento. Sugli argini si erge il salàro, la casa del salinaio provvista di depositi. Tanti, e con varie mansioni, gli addetti ai lavori: capi e sensali per il commercio, sazadori, cioè ‘assaggiatori’, bastàzi o facchini per il trasporto.
Alla fine del XII secolo si contano 119 fondamenti: 76 sono nella laguna di Chioggia. Il solo monastero di San Zaccaria nel 1323 ne possiede 34 a «Solesedho», nei pressi di Pellestrina; 43 sono sparsi nella laguna settentrionale tra Murano, Torcello e Sant’Erasmo. Ma veramente sorprendente è il numero di quelli all’interno della stessa Venezia. Scrive Gino Luzzato che «Al principio del ’300 se ne trovano ancora ricordati a San Silvestro, a San Basso, ai Frari, a San Basilio; ma, un secolo più tardi, della maggior parte non resta che il ricordo nel nome di molte località». Fondamenti, piscine e paludi sono presenze remote che scompaiono man mano che cresce l’urbanizzazione.
Se il sale è la prima moneta di scambio, con l’affermarsi della potenza marinara diminuisce la necessità della fabbricazione locale e il prodotto comincia a giungere in ingente quantità da Comacchio, Cervia, Istria, Dalmazia. Più tardi, dalla Sardegna, Sicilia, Puglia, Candia, Corfù, e perfino dalle Baleari e dalla Tripolitania. Venezia acquista e rivende in tutta Europa, e lo fa così a basso costo che nessuno riesce a sostenere la sua concorrenza. In tal modo raggiunge una forma di monopolio.
Intorno al prezioso elemento il governo si organizza: se ne occupano fin dal 1243 i Salinieri del mare, che ne gestiscono il commercio. Trent’anni dopo, nel 1272, vengono creati i Provveditori al Sale. Sono in numero di quattro e hanno il compito di «governar tutto il negozio», dalla fabbricazione alla vendita, ai dazi, nonché di punire con pene severe i contrabbandieri.
Il sale è di due qualità: quello indigeno detto sal Clugiae, che proviene da Chioggia, e quello forestiero detto sal maris. Il prodotto, non solo grezzo ma portato ad un certo grado di raffinazione, viene conservato in grandiosi magazzini, per la maggior parte situati sull’estremità orientale dell’isola della Giudecca o alle Zattere, sulla Punta della Dogana. In questi enormi ambienti, viene separato in mucchi per evitare il sovrapporsi del prodotto vecchio – che va smerciato per primo – con quello appena arrivato. La vendita risulta quanto mai redditizia. Grandi quantità sono inviate nell’entroterra o esportate in Europa. Notevole il consumo che se ne fa nelle lagune sia per regalie – al doge, ai magistrati, alle personalità più in vista – che per uso domestico. Legittimo chiedersi a cosa serve tutto questo sale. Semplice la risposta. Serve, soprattutto, a conservare carne e pesce, una funzione importantissima in un’epoca che non ha la più pallida idea del frigo o della scatoletta.
Entra in scena, se così possiamo dire, il secondo pilastro della cucina ancestrale delle Venezie. E per parlarne dobbiamo ancora una volta tornare all’acqua, che non contiene solo il prezioso sale ma anche il pesce.

Nel segno dei pesci. Barche «da miracolo», «compravendi» e «sbazzegari»

Da oltre mille anni, l’autorevole personalità dell’abbadessa Petronia del monastero di San Zaccaria vive con nitidezza nel mondo cartaceo del Dogado. Siamo solo all’inizio dell’estate del 997, quando la religiosa stipula un contratto di livello con i fratelli Orso, Giovanni e Martino, figli di Marconi Barbalongolo, ai quali concede acque e paludi in Poveglia per «piscare et aucellare» ed esercitare «omnem venacionem».
Il livello è un contratto molto diffuso nell’antichità, simile a quello d’enfiteusi, e dà il diritto di godere un fondo altrui per almeno vent’anni, con l’obbligo di apportarvi migliorie e di corrispondere periodicamente un canone in denaro o in natura. Nell’accordo di Petronia, il censo che i fratelli devono annualmente è di «pisces mugilles mille et aucellas maiores paria duodecim et anguilas centum».
Cefali e anguille (oltre ai volatili) cominciano col venir fuori dall’acqua. Altri pesci e altri attori compaiono a cavallo dell’anno Mille, come ad esempio la concessione per quattro anni di un tratto d’acqua con mulino, stipulata, nel 1169, dal­l’abbadessa Sicara Caroso del monastero di San Lorenzo di Venezia, in cambio di un canone annuo di mille cefali che devono essere consegnati in settembre e di quindici paia di uccelli palustri a San Martino.
Si ritrova quella grande varietà che aveva colpito Cassiodoro. Branzini, rombi, orate, triglie, ombrine, dentici, sgombri e i gettonati cefali – soprattutto i ricercati lotregani e verzelate –, che sembrano quasi una moneta di scambio tanto compaiono frequentemente. La congregazione dei pescatori Nicolotti ne deve consegnare 2400 ai Giudici del Proprio e 200 al doge, insieme ad un più ristretto numero di gamberi.
Una pietra miliare per ricostruire l’antica storia gastronomica veneziana è lo statuto annonario del doge Sebastino Ziani, De edulis vendendis, et de ponderibus, et mensuris. Fissando – in soldo veronese – il prezzo massimo delle derrate, oltre il quale nessuno deve avere l’ardire di vendere, sappiamo quali pesci si consumano esattamente nel 1173:
Pisces autem nullus ultra hunc ordinem aliqua ratione vendere presummat, videlicit libram sturionis et trote et rumbi non plus de tribus veronensibus, libram varioli et aurate et megle et barbonum et scorpenum et de lusernis et de grandis passeris atque de sfolliis seu de grandis anguillis non plus de duobus veronensibus, libram de grandis luciis cavedagnis friskis et salavadis non plus de duobus veronensibus, duas libras de grandis tenkis non plus de tribus veronensibus, reliquorum autem omnium piscium aque salse et dulcis libram non plus de uno veronense vendere presumat.
Storioni, trote, rombi si vendono a non più di tre soldi e mezzo la libbra; spigole (varioli), orate, cefali (megle), barboni, scorpene, lucerne, passere, sogliole, anguille non oltre i due soldi. Lo stesso vale per i grandi lucci freschi e salati. Due libbre di grandi tinche non vanno a più di tre soldi. Ogni altro pesce, d’acqua dolce e salata, deve rimanere contenuto entro un soldo.
Se la cucina è una pratica culturale che obbedisce a imperativi geografici, dove abbondano il pesce e il sale si ricorre alla tecnica della salatura. La pesca è un’avventura che non tutti i giorni dà gli stessi frutti e, quando si prende in eccesso, conviene conservare per i momenti di magra. I pesci si sistemano nei caratelli e si ricoprono di sale, ma prima di far questo i pescatori devono andare alla Camera della Giustizia Vecchia e chiedere che un fante vada a constatare la buona qualità del prodotto. Si conciano anguille, sardelle, cefali, sgombri, ma anche pesci d’acqua dolce che è vietato portare fuori Venezia. Si mantengono sapori e alimenti, e il genere dei salumen è talmente apprezzato da entrare a far parte dei testamenti come eredità.
In un luogo intrinsecamente connesso all’elemento liquido e al gesto misurato del remo, la fraterna dei pescatori è una delle prime forme di vita comunitaria. Sebbene le notizie relative alle organizzazioni di arti e mestieri siano frammentarie, concessioni di privilegi relative alla pesca esclusiva nelle zone limitrofe alle loro isole sono databili al 792 per i pescatori di Chioggia e all’836 per quelli di Poveglia. Un’altra antica comunità, che ha il diritto di pesca su tutte le acque del Dogado, è quella dei Nicolotti. Vi fanno parte solo i nati e i residenti entro i confini di due parrocchie – San Nicolò e l’Angelo Raffaele dei Mendicoli. Altre associazioni operano a Cannaregio e alla Giudecca e, nelle isole, a Murano, Burano, Torcello, Mazzorbo, Malamocco, Pellestrina, Chioggia.
È un mestiere umile, quello del pescatore d’allora. Un mestiere che non richiede praticantato ma che si impara da piccoli, alle intemperie e nei pericoli. Dura è la lotta per il possesso di graticci e reti, per seminare in peschiere, o per affittare valli da pesca. Il governo pratica una severa politica ambientale per la conservazione e la difesa del patrimonio e s’ingerisce per disciplinare il commercio e far pagare i dazi. È vero che le istituzioni non sottovalutano l’esperienza acquisita, tant’è che «i più sensati vechi et pratici pescadori» partecipano alle sedute del Collegio lagunarum, quando vengono discussi problemi attinenti alle acque.
Sono piccoli onori che ripagano di una vita passata a lottare contro le punture di pesci velenosi, ritenuti anime di naufraghi erranti che riappaiono come specie ittiche con una forma di strana metempsicosi. O contro le trombe marine, forze nemi...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Lo «spazio infinito della laguna
  3. 2. Geopolitica culinaria a oriente di Venezia
  4. 3. Per un pugno di spezie
  5. 4. L’avventura dello zucchero
  6. 5. Navi, naufragi e baccalà
  7. 6. La fede tra i fornelli
  8. 7. Orti della Pianura liquida
  9. 8. Un happy hour a bordo di Venezia
  10. 9. La geometrica potenza della Serenissima
  11. 10. La cucina del lusso
  12. 11. La botanica del palato
  13. 12. Al crocevia della storia
  14. 13. Il borghese in cucina
  15. Bibliografia
  16. Glossario