Italiani poca gente
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Italiani poca gente

Il Paese ai tempi del malessere demografico

Antonio Golini con Marco Valerio Lo Prete

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Il Paese ai tempi del malessere demografico

Antonio Golini con Marco Valerio Lo Prete

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Le principali sfide delle società contemporanee, e dell'Italia in particolare, sono in larga parte causate da un mutamento profondo e spesso ignorato: il calo demografico, con le sue molteplici conseguenze in termini di economia stagnante e welfare a rischio collasso, instabilità politica e irrilevanza internazionale, conflitti generazionali e migrazioni epocali. Il nostro Paese ha raggiunto per primo la natalità più bassa fra gli Stati industrializzati, è stato il primo nel quale il numero delle morti ha superato quello delle nascite, sempre il primo a invecchiare tanto rapidamente da vedere sconvolti gli equilibri della propria popolazione. Al punto da essere ormai un caso studiato in tutto il mondo. Italiani poca gente espone i dati più aggiornati sul fenomeno, ne illustra le cause, chiarisce perché a lungo la demografia è stata argomento tabù in Italia, e avanza suggerimenti per superare una situazione in apparenza senza uscita.

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Information

Year
2019
ISBN
9788861053892

Capitolo 1

Il “caso Italia” e la demografia mondiale
“È accaduto in Italia per la prima volta. Correva l’anno 1995”. Inizia con queste parole il recente saggio intitolato “Lo storico capovolgimento delle popolazioni”, firmato da Joseph Chamie, uno dei più illustri demografi dei nostri giorni e già direttore della Divisione per la Popolazione delle Nazioni Unite. Lo “storico capovolgimento” di cui Chamie rintraccia le origini nel nostro Paese è il “punto di svolta demografico in corrispondenza del quale i ragazzi di una certa popolazione diventano meno numerosi degli anziani”. Tale svolta nella storia della società umana si è verificata per la prima volta in Italia, alla metà degli anni 90 del secolo scorso. Cinque anni dopo, toccò ad altri sei Paesi – Bulgaria, Germania, Grecia, Giappone, Portogallo e Spagna –, poi ad altri ventitré Paesi fino al 2015. Per avere un’idea della radicalità del mutamento in corso, si osservi che ancora 50 anni fa la popolazione mondiale contava 3,3 miliardi di persone, con una proporzione di oltre 7 ragazzi al di sotto dei 15 anni di età per ogni persona con più di 65 anni di età. Oggi, su 7,5 miliardi di persone che popolano il pianeta, la proporzione si è dimezzata: ci sono 3 ragazzi per ogni anziano. In Italia la medesima proporzione si è prima capovolta e poi ingigantita, al punto che oggi ci sono 0,6 ragazzi per ogni anziano (in altri termini, per ogni 3 ragazzi ci sono 5 anziani).
Che quello italiano potesse essere uno snodo chiave per capire gli andamenti demografici del pianeta lo avevano intuito all’inizio degli anni Ottanta anche gli studiosi di una delle più prestigiose riviste scientifiche del settore, la francese “Population et Societés”, che investigavano sulla natalità. “Que se passe-t-il en Italie?” (“Cosa succede in Italia?”) è il titolo di un saggio pubblicato nel 1983, nel quale – dati alla mano – si esortava il lettore ad abbandonare lo stereotipo dell’Italia “sorella latina” della Francia, dalle tradizioni familiari vive e dalla prolificità accentuata. Il calo delle nascite, osservavano gli autori, stava infatti diventando rapidissimo: “Ha portato alcune regioni del Nord-ovest ai livelli di natalità più bassi d’Europa. Nel 1979, quando il tasso di fecondità italiano era di 1,74 figli per donna, lo stesso indicatore si fermava a 1,45 in Piemonte, 1,40 in Toscana, 1,28 in Emilia Romagna e 1,17 in Liguria!”. Con tanto di punto esclamativo, fatto più unico che raro negli studi accademici. D’altronde la denatalità italiana era effettivamente sorprendente. Alla metà degli anni 90 toccò quello che all’epoca fu il record minimo mondiale: 1,19 figli per donna. Iniziava allora una tendenza che ha portato di recente a un altro record negativo della nostra storia: il più basso numero di nascite mai registrato, con 458mila nati nel 2017 (furono 576mila nel 2008 e più di 1 milione nel 1964)2. Nel frattempo altri Paesi ci hanno superato in quanto a bassa natalità: la Corea del Sud nel 2018 è arrivata a 0,96 figli per donna. Ma gli storici in futuro potranno dire di nuovo: “È accaduto in Italia per la prima volta”.
Tra pronunciata denatalità e conseguente rapido invecchiamento, il nostro Paese attraversa oggi – ancora una volta a mo’ di apripista – una delicatissima fase di transizione. Una fase nel corso della quale i singoli individui, la società nel suo complesso e la macchina statale faticano ad adattarsi a squilibri repentini e crescenti della popolazione, a volte fallendo miseramente e pericolosamente. Esempi di tali difficoltà non mancano: l’impatto dell’invecchiamento sull’innovazione e sull’imprenditorialità; il progressivo ridimensionamento della forza lavoro; il rischio di insostenibilità per previdenza e pensioni pubbliche in un Paese già gravato da un indebitamento record; le incognite legate ai flussi migratori in entrata soprattutto dal Sud del mondo e il depauperamento del capitale umano causato dalla nuova emigrazione; i mutamenti sociali e culturali che da tutto ciò discendono; i contraccolpi politici e l’indebolimento geopolitico; l’equilibrio mutevole tra diritti e doveri di ogni individuo. Quelle elencate sono soltanto alcune delle principali sfide che un Paese come il nostro, caratterizzato da scompensi demografici tanto originali quanto gravi, si trova a fronteggiare. A livello globale sta accadendo qualcosa di simile. Come illustrato da Scipione Guarracino nel suo libro “Allarme demografico”, “per tre secoli e più il pendolo delle paure demografiche ha oscillato fra i due poli, il deserto e il formicaio: l’invecchiamento, lo spopolamento e l’estinzione da una parte, le folle di affamati dall’altra. Si direbbe che ora non sappia più da che parte dirigersi, oppure che voglia toccare contemporaneamente entrambe le estremità”3. Oggi, e sempre di più nei prossimi anni, la sfida non sarà tanto quella posta dallo spopolamento che il pensatore francese Montesquieu registrava nelle sue “Lettere Persiane” del 1721 e riconduceva tra l’altro al dispotismo dominante in Europa, né quella opposta della crescita eccessiva della popolazione che il biologo americano Paul Ehrlich prevedeva nel suo bestseller “The Population Bomb” del 1968. La sfida contemporanea – come dimostra il “caso Italia” – è piuttosto quella incarnata dai rapidi squilibri demografici che si manifestano all’interno di singoli Paesi o dagli andamenti opposti ma simultanei che investono aree geografiche diverse. Di conseguenza lo stesso “caso Italia” non può essere compreso fino in fondo se non è collocato all’interno del più vasto e contemporaneo “scontro delle demografie” oggi in corso sul pianeta.
1.1 Lo “scontro delle demografie”
Nabi Tajima, nata il 4 agosto del 1900, è morta il 21 aprile del 2018 all’età di 117 anni: era l’ultima persona ancora vivente a essere stata registrata all’anagrafe nel XIX secolo. Al momento della sua nascita, la signora Tajima aveva intorno a sé 1 miliardo e 650 milioni di persone, quante ne popolavano la Terra a quell’epoca. Al suo cinquantesimo compleanno, gli abitanti della Terra erano aumentati di circa 1 miliardo di unità, diventando 2 miliardi e 536 milioni. Dopodiché Tajima ha dovuto aspettare soltanto 15 anni per vedersi circondata da un altro miliardo di abitanti. Quando poi è entrata nell’esclusivo club dei centenari – correva l’anno 2000 – la popolazione della Terra superava i 6 miliardi di unità. Nel 2018, al momento del decesso, la signora Tajima ha lasciato dietro di sé quasi 7 miliardi e mezzo di persone. In definitiva, nel corso della sua sola – seppur lunghissima – vita, la popolazione del pianeta è cresciuta di 6 miliardi di unità.
Questo strabiliante aumento è stato un successo o una catastrofe per l’umanità? Direi che è stato un successo. Si è offerta infatti a un numero crescente di persone la possibilità di vivere. D’altronde le nostre opportunità di fioritura personale e sociale non esisterebbero affatto se, prima di tutto, non esistessimo noi come persone. Da abitante del pianeta che ha avuto la fortuna di beneficiare di questa crescita spettacolare della popolazione, dunque, direi che quello cui abbiamo assistito in campo demografico è stato un successo. Da demografo, però, mi sento in dovere di aggiungere che si è trattato di un successo in buona parte casuale e, soprattutto, temporaneo. Non è detto dunque che esso debba ripetersi in futuro.
In estrema sintesi, il XX secolo che ci lasciamo alle spalle è stato il “secolo della bomba demografica” della quale però siamo riusciti a contenere gli effetti più distruttivi. Addirittura in alcuni Paesi, come l’Italia, la diminuzione delle nascite – che è seguita al loro boom – è un fenomeno talmente radicale da obbligarci a ribadire l’ovvio: la demografia si occupa di popolazioni, ma la popolazione è anche elemento costitutivo e fondante di una società; e se scompare una popolazione, scompare anche la società legata a quella popolazione. Il XXI secolo che ci troviamo davanti, invece, ha iniziato a caratterizzarsi come il “secolo dell’invecchiamento demografico” di cui ancora non siamo in grado di prevedere tutte le conseguenze, siano esse negative o positive.
Tuttavia anche una simile definizione sarebbe riduttiva: l’invecchiamento, nella percezione di molti, è dotato di una confortevole linearità che normalmente associamo all’allungamento della vita media. L’evoluzione demografica in corso nel pianeta, al contrario, è tutt’altro che lineare se considerata nel suo assieme. A mettere a rischio la complessiva stabilità geopolitica, economica e sociale del mondo è la natura differenziata – per tempo di insorgenza e velocità del processo – degli sviluppi demografici che determinano la diversa età dei popoli. Questa asincronia si traduce in una presenza altrettanto differenziata di giovani, adulti, anziani, vecchi che possono diventare rivali tanto all’interno di un singolo Paese, quanto a livello internazionale. Sulla rivalità interna, si è già accennato per esempio all’aggravarsi della “questione generazionale” in Italia, con tutte le sue conseguenze in termini economici, welfaristici e politici. Quanto all’agone internazionale, si può immaginare la portata ideologica, economica e militare di una competizione tra un Paese o un gruppo di Paesi in uno stadio molto avanzato dello sviluppo demografico, quindi Paesi “anziani”, e altri Paesi invece molto “giovani”. Confronti tra Stati e aree a demografia divergente sono sempre più frequenti all’epoca della globalizzazione e dell’annesso restringimento delle distanze spazio-temporali. Non a caso il politologo americano Samuel Huntington, nel suo libro “Lo scontro delle civiltà” pubblicato nel 1996, dedicava ampie riflessioni al tema:
Dal punto di vista quantitativo, gli occidentali rappresentano una minoranza sempre più esigua della popolazione mondiale. Anche dal punto di vista qualitativo, tuttavia, gli equilibri tra l’Occidente e le altre popolazioni stanno mutando. I popoli dei Paesi non occidentali stanno diventando più agiati, più urbanizzati, più alfabetizzati, meglio istruiti. (…) Questi mutamenti nei livelli di alfabetizzazione, istruzione e urbanizzazione hanno creato popolazioni socialmente mobili con maggiori capacità e aspettative, le quali possono essere mobilitate a fini politici in modi impensabili ai tempi dei contadini analfabeti. Una nazione con un alto tasso di mobilità sociale è più potente. Nel 1953, quando in Iran la percentuale di alfabetizzazione era inferiore al 15% e la popolazione urbana non raggiungeva il 17%, Kermit Roosevelt e un gruppetto di funzionari della CIA soppressero con relativa facilità un’insurrezione scoppiata in quel paese e reinsediarono lo Shah sul trono. Nel 1979, quando il 50% degli iraniani era istruito e il 47% viveva in città, nessun dispiego di potenza militare americana avrebbe potuto mantenere lo Shah sul trono. Un significativo divario separa ancora oggi cinesi, indiani, arabi e africani da occidentali, giapponesi e russi. Esso tuttavia si sta rapidamente colmando. Al tempo stesso, un nuovo e diverso tipo di divario sta oggi prendendo forma. L’età media di occidentali, giapponesi e russi si mantiene costantemente stabile, e la maggior percentuale di popolazione che ha smesso di lavorare impone un onere sempre più gravoso sulla parte produttiva della popolazione. Altre civiltà sono oberate da un gran numero di bambini, ma i bambini sono futuri lavoratori e soldati.4
Da tutti questi fattori discende la comprensibile percezione della demografia come di una forza che, specie in prospettiva, può sconvolgere gli equilibri, spesso assai precari, fra diversi popoli e aree del mondo, rischiando di mettere in moto una catena di reazioni pericolose, se non addirittura distruttive. È proprio lungo le linee di faglia che dividono le popolazioni sulla base dei rispettivi ritmi di cambiamento demografico – linee che possono correre a volte dentro e a volte fuori dei confini nazionali – che si verificano alcuni dei fenomeni più problematici della nostra epoca: dagli squilibri numerici della forza lavoro alla crisi dello Stato sociale, dall’immigrazione all’urbanizzazione, passando per le tensioni geopolitiche. Per analizzare tali fenomeni compiutamente, torna utile la cassetta degli attrezzi del demografo, ed è imprescindibile cimentarsi con questo sviluppo dinamico – tutt’altro che sincronizzato – che riguarda le popolazioni del pianeta.
1.2 I numeri della “bomba”
Nella sua lunga vita, durata 118 anni, la signora Nabi Tajima è stata testimone – magari inconsapevole – di uno dei fenomeni più importanti della storia dell’uomo. Il progressivo affollarsi della terra attorno a lei, l’aggiungersi al pianeta di 6 miliardi di persone nell’arco di una singola vita, è la dimostrazione lampante di quello che ho definito il “successo” demografico nel XX secolo. Lo stesso fenomeno, secondo altri osservatori, ancora negli anni 70, costituiva invece un rischio esiziale per l’umanità. Mi riferisco a studiosi come Ehrlich, professore all’Università di Stanford, autore nel 1968 del successo editoriale “The Population Bomb”. Il testo si spingeva fino a prospettare carestie imminenti, ovunque nel mondo, da addebitare alla sovrappopolazione.
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Figura 1 - Andamento della popolazione mondiale negli ultimi 12.000 anni (in miliardi)
Si possono dunque avere giudizi di valore diversi su quanto avvenuto, ma la metafora dell’ordigno bellico di tipo esplosivo, effettivamente, si presta bene per descrivere l’andamento della popolazione umana a partire dalla Rivoluzione industriale e in particolare per gran parte del secolo scorso. Ricordo infatti che probabilmente l’uomo è comparso sulla Terra circa quattro milioni di anni fa, nella forma di ominide eretto dotato di una piccola massa cerebrale. Si valuta che dopo un lunghissimo periodo di tempo, in corrispondenza della nascita di Cristo, tutta la terra fosse popolata da 300 milioni di esseri umani, poi diventati 550 nel 1650. È solo dopo la rivoluzione industriale, cioè a partire dal XVIII secolo, che la popolazione ha iniziato ad aumentare con continuità, dapprima lentamente e poi molto rapidamente. Per arrivare al traguardo del primo miliardo di abitanti, che si stima sia stato raggiunto nel 1804, sono occorsi quindi centinaia di migliaia di anni; per passare dal primo al secondo miliardo sono bastati 123 anni; poi dal quinto al sesto miliardo, così come dal sesto al settimo, di anni ne sono stati sufficienti 12. Un’esplosione, insomma, come si evince dal grafico e dalla tabella (vedi Figura 1 e Tabella 1). Solo più avanti in questo XXI secolo, i tempi, per ogni miliardo aggiuntivo di persone, torneranno, sia pur lentamente, a dilatarsi.
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Restringendo il campo di osservazione al solo XX secolo, si può affermare che l’“esplosione” si è manifestata in tutto il mondo, ma in modo non omogeneo nel tempo e nello spazio. Il tasso di accrescimento della popolazione mondiale, debole nei primi decenni, è aumentato fino a toccare il suo massimo nel quinquennio 1965-1970, con un valore pari a 2,05%; se questo ritmo fosse perdurato nel tempo, avrebbe comportato un raddoppio della popolazione in soli 35 anni. Nel quinquennio 2010-2015, il tasso di accrescimento della popolazione mondiale è sceso a 1,19%; con questo ritmo, per avere un raddoppio della popolazione, di anni ne servirebbero 63. Per l’attuale quinquennio, 2015-2020, il tasso di crescita della popolazione atteso è 1,09%. In termini assoluti, oggi la popolazione mondiale aumenta di 84,5 milioni di persone all’anno, come se ogni 365 giorni si aggiungesse sul nostro pianeta un Paese con lo stesso numero di abitanti della Germania; trent’anni fa aumentava di 87,3 milioni di persone all’anno.
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Il tasso di crescita della popolazione è stato, e continua a essere, molto differenziato anche dal punto di vista territoriale. Secondo le stime più aggiornate delle Nazioni Unite, tra il 2010 e il 2015, meno di un quinto dell’umanità (i Paesi ricchi e industrializzati del mondo: Europa, America del Nord, Australia/Nuova Zelanda e Giappone), ovvero i...

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