Invito alla televisione
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Invito alla televisione

Aldo Grasso

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Osservare il piccolo schermo con uno sguardo vigile e disincantato, aggirare i luoghi comuni per restituire alla televisione l'immagine di un medium complesso e sfaccettato. Questo libro-intervista ad uno dei più famosi critici televisivi italiani tocca nodi importanti: la sfida del digitale, la rete e le trasformazioni imprevedibili dell'informazione, i tormentati rapporti con la politica. Sullo sfondo, il racconto del mestiere del critico e del docente, tra storia, indagine scientifica e cronaca di un tema per lo più ridotto a chiacchiera.

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Capitolo nono
Televisione, serialità e racconto
La televisione viene spesso paragonata a uno specchio che riflette vizi e virtù di un periodo storico, dell’identità di una nazione. Funziona proprio così?
È vero che la televisione funziona come una sorta di “inconscio collettivo aperto” della società che la produce. Possiamo pensarla come una macchina che raccoglie, assorbe e trasforma le caratteristiche di un periodo e di un luogo, restituendo, seppur in modo sfuggente, tra le pieghe del flusso dei suoi programmi e nelle strutture mutevoli dei suoi generi, la fotografia di un paese e di un’epoca. Per esempio, è vero che sin dai primi passi mossi alla metà degli anni Cinquanta, la televisione italiana ha svolto una fondamentale funzione di rappresentazione, rendendo, forse per la prima volta, gli italiani “visibili” a loro stessi. L’idea che la diffusione del piccolo schermo abbia unificato il paese ben più di altri fenomeni istituzionali e di altre iniziative politiche ci aiuta a capire la rilevanza di questa funzione di “rappresentazione”. Come medium fondato sulla prossimità e sulla capacità di diffondersi in modo capillare e trasversale rispetto alle classi sociali, il piccolo schermo ha presto vinto la competizione con la letteratura (e anche con il cinema!) per la costruzione di un repertorio condiviso di immagini e discorsi comuni. La televisione ha raccontato l’Italia, tanto che la sua storia e quella del paese si sono intrecciate in nodi fitti e le vicende dell’una possono essere ricostruite a partire da quelle dell’altra. Lo ha fatto in modo molto più univoco e chiaro nella fase della sua storia in cui il piccolo schermo costituiva una specie di totem con pochi canali e programmi. Lo fa in modo più sfuggente oggi che sta vivendo un periodo di radicale trasformazione, di “abbondanza” dei programmi, delle piattaforme e dei contenuti indirizzati a specifiche e ben distinte nicchie di pubblico.
In questo scenario mutevole e in rapido cambiamento, c’è un genere televisivo che meglio di altri racconta il paese? La fiction italiana riesce ad assolvere a questo compito?
Credo che sia importante sfuggire alla risposta più scontata. La fiction televisiva italiana, spesso prigioniera di uno stile “agiografico” e di una modalità di racconto edulcorata, fatica a imporsi come il genere che meglio restituisce l’immagine del paese. Cerco di spiegare perché. Negli Stati Uniti è molto vivace il dibattito culturale sul ruolo della letteratura, e in particolare della tradizione del “grande romanzo americano” (penso ad autori come Don De Lillo, Jonathan Franzen, Philip Roth), nel fotografare il suo tempo e restituirlo nella sua complessità. L’aspetto più interessante di questo dibattito è che il termine di paragone che si evoca sempre per descrivere la raffinatezza dei romanzi ha coinvolto proprio la televisione, chiamata in causa nel suo genere più nobile, ovvero la serialità “di qualità” che si esprime con telefilm come I Soprano, Mad Men, Lost, Dr. House. Sono tutte serie che hanno avuto la capacità, come e forse più dei romanzi, di restituire la complessità del reale, di esplorare temi cruciali per la sensibilità condivisa, di costruire un “racconto-mondo”, un universo narrativo completamente ammobiliato e arredato. Proprio il formato seriale di questi testi, basato su archi narrativi ampi, che si sviluppano su più stagioni e permettono di indagare in profondità la psicologia dei personaggi, di mostrare i collegamenti tra temi ed eventi, si è trasformato da una sorta di trucco utilizzato per fidelizzare un pubblico popolare (pensiamo a come funzionava il romanzo d’appendice a puntate) in una risorsa narrativa ricercata e raffinata. Nelle forme espressive della serialità televisiva e del romanzo, la cultura americana ha trovato lo spazio ideale per dare forma di racconto a una visione sul mondo, per restituire un’immagine della società attraverso un impianto narrativo che racconta la sua complessità. È quello che la fiction italiana nella sua versione più generalista non si dimostra quasi mai capace di fare.
È vero anche che telefilm come I Soprano, Mad Men, Lost, Dr. House possono contare su un budget molto elevato per la loro realizzazione, da cui la fiction italiana è molto lontana.
Naturalmente. Il sistema produttivo nel suo complesso riveste un ruolo fondamentale nell’indirizzare lo sviluppo dei generi televisivi: nel contesto americano hanno molto peso gli elevati investimenti economici e la libertà di sperimentazione, linguistica e tematica, resa possibile dal “contenitore” dei canali via cavo, che distribuiscono molte di queste serie. La fiction italiana, invece, situata in uno scenario del tutto differente, trova solo raramente quel guizzo espressivo che le permette di svincolarsi dalla semplice messa in scena semplificata di alcuni temi dell’agenda sociale condivisa, di cui spesso appiattisce l’ambiguità di fondo. Certo, ci sono esempi virtuosi, come la serie Romanzo criminale, che beneficiando della collocazione sulla piattaforma satellitare a pagamento, ha raccontato una fase della storia nazionale comprimendola in una forte matrice di genere, lavorando sugli archetipi del gangster movie e interpretando una sensibilità condivisa e diffusa, generando fenomeni di culto e commenti virali sul web.
Quali caratteristiche dei telefilm americani li rendono strumenti narrativi così raffinati e oggetto di grande passione da parte dei fan?
Bisogna dire che da quando in Italia le reti digitali hanno permesso di seguire con regolarità le serie televisive (considerate prima come un “riempitivo”, suscettibile di ogni alterazione in palinsesto), ci si è finalmente accorti che il telefilm è il genere che meglio d’altri rappresenta le molte spinte, contrastanti e spesso irrazionali, dei nostri giorni. Naturalmente, la straordinarietà di molti telefilm sta nella scrittura con cui queste vicende s’intrecciano e si dipanano, si sostengono e si rilanciano negli appuntamenti settimanali. Sorrette, in genere, da un’ottima sceneggiatura e da un ritmo calibrato, le storie presentano quasi sempre più risvolti: uno “esterno” e uno “interno”; uno pubblico, riguardante un tema che coinvolge la comunità, e uno più intimo. Gli americani non amano fare prediche sull’educazione civile, preferiscono mettere in scena i molti tormenti da cui sono afflitti, scelgono di renderli in questo modo casi esemplari, ricordi incancellabili, apologhi notturni. Da alcuni anni i telefilm raccontano storie affascinanti per parlare anche d’altro: le immagini non vogliono soltanto dire quello che mostrano ma vibrano in continuazione, rimandano ad alcuni significati inesauribili, a un altrove che non conosciamo. Proprio questo doppio binario li rende perfette macchine narrative e oggetto di una passione telefila.
Anche perché utilizzano tecniche narrative molto raffinate, per molti versi lontane dagli standard più semplici di racconto televisivo…
Credo che il dato più significativo sia proprio questo: i telefilm sono ricolmi non solo di citazioni attinte a piene mani dalla grande letteratura, dal grande cinema, dal grande teatro, ma trasudano strutture narrative, tecniche figurative, procedimenti “rubati” a modelli alti. Ripetizione, standardizzazione, ripresa, serialità: tutti fenomeni che non sono tipici della tv ma che attraversano da sempre la produzione letteraria mondiale e, se mai, rivelano ora nuove dinamiche della creatività, nuovi ritmi imposti dalla produzione industriale. È difficile che un ragazzo si accosti ancora alla grande narrativa ottocentesca, che affidi le sue pene d’amore a un libro di Stendhal, di Jane Austen, persino di Cesare Pavese, che cerchi di placare le sue angosce esistenziali con Henry James o Joseph Conrad o Franz Kafka. Ma è molto probabile che lo stesso ragazzo sappia tutto di The O.C., di Beverly Hills, di Dawson’s Creek ed è molto probabile che in queste serie trovi le tracce di soluzioni linguistiche tratte dagli autori appena citati (ben conosciuti dagli sceneggiatori). Stessa cosa per il cinema, per gli evergreen, per la moda. Succede insomma che l’educazione sentimentale degli adolescenti di tutto il mondo si faccia ora su quelli che si definiscono teen drama, ovvero telefilm di formazione, ben più che sui romanzi.
L’impressione è proprio quella che i telefilm costituiscano sempre più il riferimento obbligato nell’immaginario di molte generazioni, più del cinema, più della letteratura…
Sì, sono in molti ormai a riconoscere ai telefilm tutta la dignità “artistica” che meritano. In fondo, anche il telefilm seriale si propone come uno specchio ideale nel quale gli autori riflettono la loro stessa immagine, innanzitutto mentale, e attraverso il quale emergono le loro pulsioni nascoste e le derive dell’immaginario. Probabilmente, poi, è proprio la varietà di storie raccontate dai telefilm, che sono una forma espressiva tipicamente postmoderna, caratterizzata dal pastiche e dalla contaminazione, a saper metaforizzare al meglio le molteplici spinte, contrastanti e spesso irrazionali, dei nostri giorni. Dalla fantascienza al dramma ospedaliero, dai sobborghi della periferia americana alle metropoli più avanzate del pianeta, dalla vita d’ufficio a quella delle famiglie medie. È proprio quello che avviene nei casi dei telefilm più riusciti, come I Soprano o come Six Feet Under (i “sei piedi” del titolo sono la misura dell’interramento della cassa da morto).
Per quali motivi i telefilm meritano un’attenzione speciale da parte del critico?
Direi che sono almeno tre. Il primo è che il telefilm cerca di mettere un po’ di ordine nel disordine spesso caotico del flusso televisivo. Riesce a farlo grazie a quello che potremmo definire come il potere della forma, quella lunga e spesso complicata operazione di sceneggiatura, recitazione, regia, montaggio che permette di dare a una massa informe di idee e di azioni un profilo, una fisionomia. E infatti, la fiction è una delle ultime riserve televisive dove è possibile incontrare una figura di autore intesa in senso tradizionale: penso all’importanza di “firme” come quella di Steven Bochco, J.J. Abrams o Aaron Sorkin nella serialità americana contemporanea. Il secondo è che il telefilm mette comunque in scena un sistema di valori cui fare riferimento: la fiction è sempre un punto di riferimento rispetto, ad esempio, ai talk show o ai reality dove non c’è mai gerarchia di valori, dove una chiacchiera vale l’altra, dove si può dire tutto e il contrario di tutto. Il telefilm suscita nostalgia per un mondo nel quale, generalmente, i cattivi finiscono in prigione, l’amore trionfa, un malato guarisce. In questo senso, la fiction supplisce a un bisogno di affetti. Il terzo motivo, infine, riguarda i modi in cui i telefilm accendono le passioni non solo dei loro protagonisti ma anche dei loro spettatori più fedeli. Il telefilm traccia infatti dei percorsi passionali, delle vie obbligate al sentimento: lo spettatore viene preso per mano e trasferito d’incanto in una dimensione emotiva che, in qualche modo, lo risarcisce dell’aridità della vita quotidiana.
Mi sembra che parte del successo di questi telefilm sia dovuta alla loro capacità di costruire “mondi ammobiliati”, universi narrativi saturi di oggetti e dettagli.
È vero, come tutti i racconti di finzione, la serialità televisiva americana costruisce mondi di invenzione. Ogni finzione narrativa vive di un’ambivalenza di fondo: mentre fabbrica un mondo concluso e ammobiliato, con i suoi personaggi, i suoi eventi e i suoi oggetti, ne racconta in realtà solo una parte, che lo spettatore è chiamato ad arricchire e completare, aggiungendo i tasselli mancanti con un processo di proiezione fantastica. Lentamente ci costruiamo una crescente intimità con il mondo raccontato dal telefilm che diventa sempre più uno spazio di cui ci appropriamo, un luogo che possiamo visitare infinite volte, confortati dal ciclico ritorno dell’identico. Nel susseguirsi delle puntate si accumulano i personaggi, i dettagli, gli ambienti, gli oggetti. La narrazione si fa ricca e complessa, l’arredo di serie ricolmo, saturo di particolari che s’impara a riconoscere e associare indissolubilmente a un telefilm. Il giubbotto di pelle di Fonzie in Happy Days, i cercapersone dei medici di E.R., il nastro che delimita la scena del crimine di C.S.I., gli smartphone di Gossip Girl. I migliori telefilm si esaltano nella sceneggiatura, nella regia, nella recitazione degli attori, ma soprattutto nell’ambientazione, nella ricchezza sovrabbondante di rifiniture che rendono il mondo di invenzione un universo noto e conosciuto, traducendosi in uno stile visivo inconfondibile. Spesso in questi telefilm lo sfondo diventa un dettaglio fondamentale: traboccante di particolari, è ciò che l’occhio dello spettatore cattura di sfuggita, senza intenzione, perché concentrato sui protagonisti, sui dialoghi, sulla trama. Poi dal fondale si “ritaglia” un dettaglio minore, si sposta l’attenzione dai protagonisti a un oggetto: penso ai grembiuli da cucina di I love Lucy e The Honeymooners, le prime sitcom familiari ispirate alla classe media americana. Al diario di Laura Palmer ne I segreti di Twin Peaks, oggetto affettivo di un’adolescente qualunque ma anche strumento che apre ipotesi inquietanti sulla dimensione più misteriosa della serie. Alle tazze colorate del Central Park Cafè in Friends, che celebrano i valori di una serie basata sulle conversazioni tra amici – meglio se di fronte a un caffè – sulla ricerca di un interlocutore con cui spartire lo spleen esistenziale, tipica della generazione dei trentenni degli anni Novanta. Alle Manolo Blahnik di Carrie in Sex and the City, che inaugurano un uso molto innovativo dei costumi di scena nei telefilm: gli abiti non sono solo la diretta espressione delle quattro amiche, ma la moda diventa quasi un personaggio a sé, la quinta protagonista della serie. E ancora, Sex and the City sarebbe la stessa cosa senza i taxi gialli che sfrecciano per le strade di Manhattan, senza i Cosmopolitan delle quattro amiche, senza il Mac di Carrie sempre acceso nel suo salotto? Credo di no.
Quali sono i telefilm che meglio incarnano questa capacità sofisticata di raccontare e rappresentare?
Il panorama è ricchissimo: vorrei citare solo due esempi, uno prodotto da un canale via cavo (sono quei canali che si basano sulle sottoscrizioni di abbonamenti e sono quindi più liberi dai diktat degli inserzionisti pubblicitari, potendo così sperimentare linguaggi espressivi e tematiche “forti”) e l’altro da un network (che grossomodo coincidono con la nostra tv generalista). Il primo telefilm è Mad Men, trasmesso dalla rete AMC, che racconta la vita dei pubblicitari di un’agenzia newyorkese degli anni Sessanta e nel frattempo mette in scena un ritratto formidabile dell’America del periodo, sospesa tra sogno e disprezzo, fra “persuasori occulti” e il sacrosanto bisogno di lasciarsi persuadere, fra sviluppo economico ed emancipazione sociale e personale. È un telefilm di rara raffinatezza, che usa il mondo della pubblicità per scandagliare l’animo umano come raramente letteratura e cinema oggi sanno fare. Il secondo esempio è Lost del canale ABC, uno dei casi più interessanti degli ultimi anni per la sua complessità narrativa, per i fenomeni di culto che ha generato nei suoi spettatori e per gli elevati standard di realizzazione. Lost mette in scena uno dei topos della grande letteratura (pensiamo a Omero, Boccaccio, Campanella, Shakespeare, Swift) e anche del cinema: il naufragio. La storia è ben conosciuta: a seguito di un tremendo disastro aereo quarantotto superstiti sono scaraventati su un’isola deserta. Ogni superstite è portatore di una storia (recuperata in flashback) che va a intrecciarsi con altre storie, generando incroci, tensioni, scontri, allegorie. E che, soprattutto, va a inserirsi in un ambiente sconosciuto, ostile, inquietante. Per riflettere su di sé, la nostra società ha bisogno di inventarsi un luogo estremo (l’isola sperduta), una metafora esistenziale (il naufragio), una condizione inusuale (la sopravvivenza). Nel racconto non c’è un attimo di tregua e ogni inquadratura è un’occasione per esaltare la sceneggiatura e la regia. Lost è anche la serie che ha ridato dignità espressiva al flashback, il più sfruttato ed esausto degli artifici retorici della fiction, e che ha osato sperimentare il racconto in flashforward, giocando su più livelli temporali.
Il rischio di questi prodotti seriali è però quello di poter parlare solo a un pubblico competente e “avanzato”, mentre la maggior parte degli spettatori continuano a preferire generi televisivi più dimessi e quotidiani: il talk, il reality, il quiz…
Sì, credo si possa sostenere che la tv americana (e di conseguenza quella italiana) è come spaccata in due e che quindi manifesta due “anime”. Da una parte c’è la tv generalista, free, che ha eletto il talk show e il reality come i suoi due generi privilegiati per “far vedere” la realtà. Anzi per far entrare la realtà in corto circuito con la tv: si chiede ai protagonisti, gente comune in carne e ossa, di essere co...

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Grasso, A. (2013). Invito alla televisione ([edition unavailable]). La Scuola. Retrieved from https://www.perlego.com/book/1080394/invito-alla-televisione-pdf (Original work published 2013)

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Grasso, Aldo. (2013) 2013. Invito Alla Televisione. [Edition unavailable]. La Scuola. https://www.perlego.com/book/1080394/invito-alla-televisione-pdf.

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Grasso, A. (2013) Invito alla televisione. [edition unavailable]. La Scuola. Available at: https://www.perlego.com/book/1080394/invito-alla-televisione-pdf (Accessed: 14 October 2022).

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Grasso, Aldo. Invito Alla Televisione. [edition unavailable]. La Scuola, 2013. Web. 14 Oct. 2022.