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Il teatro sociale e di comunità nel territorio mantovano

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Il teatro sociale e di comunità nel territorio mantovano

About this book

Tutto incominciò negli anni Novanta. Nel distretto di Viadana sbocciarono i primi progetti di teatro sociale e di comunità. Partendo dall'esigenza di trovare modi efficaci per integrare persone disabili nella scuola dell'obbligo e nella società, si scoprì, cammin facendo, che il disagio di pochi è in realtà il disagio di molti e che la causa principale del malessere e del malvivere è la caduta verticale della capacità e volontà di stare bene insieme, di cooperare per un vantaggio comune, di partecipare alla vita pubblica e civile. Si vide che per incrementare il benessere personale e per difendersi dai danni altrui, sia d'ordine ambientale che civile, sociale, economico, estetico etc., occorre accrescere il bene comune, il primo dei quali è il capitale sociale ovvero quanto si è disposti a fare per gli altri senza immediato ritorno, ma "a buon rendere".
Il teatro di comunità fa toccare con mano che più una collettività ha capitale sociale e più è economicamente florida, meglio amministrata, sicura, sana e viva. Scopo del teatro sociale è creare ritualità civile, fare comunità, stimolare la partecipazione di tutti al bene di tutti. Alcuni paesi del mantovano hanno maturato, in questi anni, esperienze e saperi che potrebbero e dovrebbero essere estesi ad altre realtà del territorio. C'è un patrimonio di conoscenze, di saperi, di pratiche, di persone, di legami, di idee, di arti che è forse il caso di non perdere né disperdere. È un patrimonio anzi da utilizzare e da incrementare. Come? Innanzitutto tornando a fare societas, tornando ad essere soci.
L'attuale questione sociale sta determinando un notevole cambiamento di prospettiva nelle politiche sociali perché le due vie maestre finora utilizzate, per quanto ottime e necessarie, si sono rivelate insufficienti. I diritti di cittadinanza infatti e l'erogazione di servizi (salute, lavoro, famiglia, etc.) non riescono a generare coesione, comprensione, armonia, rispetto, relazioni positive etc. nei cittadini. Il processo discendente o verticale degli interventi pubblici è poco incisivo o addirittura fonte di conflitto se non si promuove anche – e soprattutto – il processo orizzontale di incontro, legame, conoscenza, aiuto, scambio, partecipazione dei cittadini negli spazi, nei tempi del vissuto quotidiano, se non si incrementa il capitale sociale, se non si mette in piedi una liturgia di convivenza civile, un progetto di costruzione e ricostruzione del tessuto sociale.
Nessuna integrazione è possibile senza il protagonismo dei cittadini e delle associazioni. E come è possibile una coesione se tutti gli attori non hanno un campo di intesa tra loro? Come è possibile una reale integrazione se non si passa ai fatti, alle azioni che costruiscono relazioni, e più ancora a fare comunità e più ancora a decidere sul bene comune? Perché la partecipazione culturale è separata dalla partecipazione sociale ed entrambe da quella territoriale? E quale politica è vera partecipazione se non è fatta da tutti, dalla nonna al bambino, dallo straniero allo strapaesano?
Nelle pagine che seguono si troveranno molte risposte a queste domande. Le esperienze di teatro sociale e di comunità del mantovano, in questa prospettiva, appaiono non solo modello di integrazione sociale e di mirabile intesa tra ente pubblico, privati, cittadini e associazioni, ma l'annuncio di una nuova politica. Claudio Bernardi, Alice Chignola, Laura Aimo

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Pensieri

Sognando un altro gioco.
Teatro e lavoro sociale

di Mauro Ferrari

1. Conclusioni. Un’altra visione?

Inizio dalla fine.
Se provo a immaginare un uomo contemporaneo lo vedo così.
Nella prima figura è rappresentato un soggetto teorico, in cui testa e corpo, dimensioni degli arti, una leggera radiografia del cervello mostrano una certa proporzione (cfr. infra, Fig. 1).
Un essere pre-socializzato, pronto alla vita.
Ben presto, però, il processo di socializzazione così come lo conosciamo nel cosiddetto mondo occidentale mostra i suoi effetti.
Il nuovo essere si forma con una marcata ipertrofia di alcune componenti del corpo, su più dimensioni:
– Oculare: quanto tempo passiamo davanti agli schermi. Certo, la tv, ma anche le chat, i social network; strumenti che condizionano le relazioni (non determinano, ma influenzano; compresi gli aspetti positivi dell’esplorare, conoscere, del viaggiare stando fermi).
– Auricolare: stiamo diventando, tutti, grandi ascoltatori. Quante notizie, messaggi, rumori, inquinamenti acustici inclusi, ci pervadono.
– Verbale: le forme con cui ci frequentiamo in pubblico sono quasi sempre imprigionate nello schema docente-discente: qualcuno – un esperto – che parla, gli altri che ascoltano. Conquistare il “turno di parola”1 diventa la priorità per mettersi in mostra; la velocità e la prontezza nell’intervenire (i fast thinkers di cui parla Bourdieu2); lo schema del combattimento rituale si svolge sovente anche durante le assemblee, le riunioni che assumono modalità più orizzontali; come sono pre-disposte le aule in cui si fa lezione?
– Cerebrale: nella vita quotidiana e nei processi formativi, oltre che nelle modalità di reclutamento e di gestione delle organizzazioni entro cui lavoriamo, assistiamo e contribuiamo all’esaltazione della componente razionale, trascurando le emozioni, le relazioni, e, potremmo aggiungere, confermando i privilegi acquisiti dalla parte maschile dell’umanità.
– Corporale: i corpi tendono a rimanere sullo sfondo, i contatti sembrano imbarazzanti. Gli incontri, le riunioni, hanno quasi sempre un tavolo che separa fra loro gli interlocutori. A questa pratica se ne aggiunge un’altra, contemporanea, quella dei contatti virtuali, che in una accezione veloce mettono al riparo da possibili contaminazioni. Aggiungerei soltanto che il tema ha a che fare con le dinamiche di purezza e pericolo già esplorate ad esempio da Mary Douglas3.
La figura 1 rappresenta le insidie comprese nel processo di socializzazione. Come nei cartoni animati di qualche tempo fa la società occidentale ci “lancia i componenti”(sì, proprio come nei cartoni animati: qualcuno ricorderà i vari Atlas Ufo Robot), amplificando le funzioni – e le dimensioni – di alcune nostre parti.
001.tif
Fig. 1 – L’esito di questo assemblaggio potrebbe essere quello della figura 2, dove un corpo ben più esile del primo si ritrova “appiccicati” organi, funzioni, sovradimensionati.
002.tif
Fig. 2 – Un soggetto squilibrato. Eppure teorizzato, e praticato, quotidianamente.
Pensiamo ad Habermas e alla sua “democrazia deliberativa”4. Nulla da eccepire, e ci mancherebbe, sull’importanza che possono assumere luoghi e tempi in cui soggetti diversi, portatori di medesimi diritti e opportunità possono, in una sfera pubblica, confrontarsi, discutere (appunto). E partendo da “accordi e disaccordi”(giusto per citare Woody Allen) questi stessi soggetti possono raggiungere intese, confliggere e condividere temi, questioni, progetti. Non è questa la sede per approfondire la complessa costruzione teorica che fa da fondamento a questa dichiarazione, e tantomeno è intenzione di chi scrive confutare un’impostazione che costituisce una premessa fondamentale per l’esercizio della democrazia. Interessa piuttosto riflettere come ciò che Habermas, tra gli altri, sostiene, non sia che una pre-messa a un percorso di confronto, una premessa che però non fa che rinforzare gli squilibri (e le solitudini) dell’uomo contemporaneo così come lo conosciamo in Occidente. Quel che intendo dire è che la stessa democrazia deliberativa – peraltro assai difficile da realizzare in pratica, ad esempio a causa dei giochi di potere fra gli attori, o a causa del mancato decentramento dei meccanismi decisionali5 – innanzitutto spesso si arena prima della sua attuazione pratica, cioè prima che le arene deliberative si costituiscano; in secondo luogo, anche quando ha luogo, si manifesta attraverso la superiorità del linguaggio parlato rispetto agli altri linguaggi6. Ammesso che vengano realizzati ambienti e modi di esercizio democratico7, insomma, i modi concreti che siamo abituati a incontrare tendono a riprodurre lo schema dell’uomo sbilanciato che abbiamo visto sopra.
Come disse profeticamente Melucci: «La cultura occidentale dell’epoca moderna ha progressivamente cancellato la dimensione corporea e ha trasformato le relazioni fra gli esseri umani in rapporti di ruolo, cioè in un incontro fra menti regolate da comuni riferimenti normativi: rapporti neutralizzati e asettici, privi per quanto possibile di ogni riferimento a un corpo ingombrante e inopportuno, se non laddove il corpo è istituzional­mente necessario per la definizione del ruolo stesso (lo sportivo, la ballerina, il paziente, la prostituta e così via)»8.
Se questa ipotesi è fondata, allora tocca cominciare a immaginare, o a valorizzare dove già ci sono, processi generativi di uomini (e donne, e bambini, e anziani, e disabili, e migranti, e...), completi, interi, multisensoriali, capaci di confrontarsi mescolando menti e corpi, questioni ideali e vita quotidiana, praticando l’ascolto attivo, mettendo in scena relazioni ed emozioni9.
Ecco perché facciamo teatro, ecco perché ci interessiamo al teatro sociale.

2. Due storie

Adesso faccio i compiti, pro-messo.
La prima storia è quella che prende il via a Cremona, con un primo progetto, “Stradevarie”, che gioca con il cognome del più famoso liutaio cittadino per introdurre nelle scuole un modo di fare teatro che sostituisca gli sporadici interventi in classe di esperti con un processo di formazione dei formatori. Vale a dire che intorno alla metà degli anni ’80 del secolo scorso – ancora non sapevo che sarebbe nato mio figlio – un Claudio Bernardi ricercatore irrompe sulla scena locale come consulente dell’Assessorato alla cultura della Provincia10, e sconvolge le routine dei diversi gruppi teatrali locali che fino ad allora si accontentavano di dividersi il monte ore disponibile intervenendo nelle varie scuole della provincia. A ciascuno toccava cioè un certo numero di classi, ogni laboratorio vedeva il coinvolgimento diretto degli studenti, e un saggio finale concludeva il percorso. Punto. Le resistenze iniziali furono notevoli, ma la nuova organizzazione cominciò a marciare con l’individuazione di un insegnante referente per ogni distretto, a cui competeva la cura della formazione dei propri colleghi e l’attenzione alla realizzazione pratica dei singoli laboratori, stavolta promossi direttamente dalle scuole con interventi di supervisione da parte degli esperti. Un cambio di paradigma, che nel corso del tempo ha portato alla creazione di un vero e proprio circuito: non più singoli laboratori separati, monadi, ma la possibilità di confrontarsi sia con il proprio pubblico (studenti, colleghi, genitori) che con le altre esperienze in corso, in cornici-eventi di volta in volta chiamati festa delle scuole, giornate dell’albero, e così via.
Da qui in poi questo primo seme ha generato molte e diverse esperienze, che a partire dalle scuole dell’obbligo ha coinvolto molte scuole superiori e diversi servizi coinvolti nella cura del disagio fisico (teatro e disabilità), psichico (l’Accademia della follia), delle dipendenze (un reparto di alcologia). Ciascuna di queste esperienze ha realizzato la trinità bernardiana laboratorio-spettacolo-festa, e persino qualcosa di più, se pensiamo ai diversi convegni che hanno per così dire celebrato le riflessioni teoriche che accompagnavano i percorsi11.
Alcune incursioni in altri campi hanno dato vita a iniziative poi ...

Table of contents

  1. Sommario
  2. Introduzione
  3. Pensieri
  4. Parole
  5. Azioni
  6. Appendice
  7. Chi siamo
  8. Bibliografia