Il corpo degli altri. Migrazioni, memorie, identità
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Il corpo degli altri. Migrazioni, memorie, identità

Monica Massari

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Il corpo degli altri. Migrazioni, memorie, identità

Monica Massari

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Il corpo, nella sua insopprimibile materialità e, al contempo, profonda valenza simbolica, costituisce il luogo dove appaiono maggiormente evidenti le ferite della violenza della Storia inferte dal tempo presente. Il corpo senza vita trasportato dalle onde durante l'ennesimo naufragio mediterraneo. Il corpo assediato, tenuto a distanza e respinto attraverso le frontiere europee. Il corpo esotico venduto e acquistato nei circuiti del sesso commerciale nelle strade delle nostre città. Il corpo temuto e, dunque, denigrato e vilipeso, perché assurto a simbolo di un'alterità inconciliabile con l'Occidente. E, ancora, il corpo sottomesso, subalterno, oltraggiato. Il corpo silente, tacitato, di chi si è trovato a misurarsi con la dimensione dell'orrore e dell'indicibile e che appare oramai denudato, oltre che dei diritti, di ogni valenza umana. Corpi apparentemente relegati negli interstizi più oscuri della nostra modernità che interpellano e inducono a guardare alle matrici storiche, politiche e sociali della sofferenza di cui sono emblema. Ma, allo stesso tempo, corpi che recano incise nella carne memorie scomode che scardinano orizzonti morali e culturali che pensavamo acquisiti. Partendo dall'esperienza di ricerca nel campo delle migrazioni maturata dall'Autrice nel corso degli ultimi quindici anni, il volume propone un affresco di largo respiro sui processi di costruzione dell'alterità nella società contemporanea attraverso una prospettiva che coniuga l'analisi dei fenomeni e delle storie – a partire da alcuni casi-studio – con la riflessione teorica a carattere sociale.

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Information

Publisher
Orthotes
Year
2019
ISBN
9788893141789
Cinque
Le altre donne:
islam, relazioni di genere
e costruzioni sociali della modernità
Narrazioni trasversali della modernità
Con l’avvio del dominio coloniale e la diffusione del sapere orientalista, la questione femminile ha costituito un elemento centrale dell’incontro/scontro fra Europa e islam. Il processo di costruzione degli altri, delle altre in termini dispregiativi si è basato, infatti, sulla definizione di una distanza temporale, cronologica fra Oriente e Occidente – l’uno considerato indietro rispetto all’altro – che ha sempre fatto un largo uso delle metafore di genere.1 Il riferimento più immediato è all’icona della femme arabe: una donna sensuale, lasciva, raffigurata in atteggiamenti ammiccanti sotto il profilo sessuale come nei quadri ottocenteschi di ispirazione orientalista.2 Ma, all’estremo opposto, in epoca più recente, troviamo ugualmente l’immagine della donna musulmana dell’era postcoloniale: per lo più velata, contrita, vittima oppressa, ritratta secondo il cliché della sottomissione al dominio maschile. Queste rappresentazioni, volutamente antitetiche rispetto a quelle delle donne occidentali, oltre a scavare un solco profondo nell’immaginario europeo, sono risultate funzionali al sostegno e alla legittimazione di precise gerarchie economiche, sociali, politiche, culturali, di cui si sente l’eco tuttora nella nostra contemporaneità.3
Il senso di questa distanza nei confronti dell’islam si è espresso, inoltre, nel ricorso forzato a due coppie di termini, modernità/modernizzazione e Occidente/occidentalizzazione, spesso utilizzate in maniera interscambiabile alla stregua di sinonimi. Per quanto la tradizione sociologica abbia ben messo in evidenza il carattere ambivalente e, talvolta, contraddittorio dei processi che hanno dato forma e sostanziato il progetto della modernità occidentale, è indubbio che soprattutto a partire dagli anni Sessanta del Novecento, con l’avvio degli studi sui cosiddetti paesi in via di sviluppo, l’accento si sia spostato verso i percorsi di modernizzazione e sui processi e le caratteristiche che rendevano Paesi e popoli propriamente moderni. Fra questi rientravano tutta una serie di elementi – fra i quali la razionalizzazione, la differenziazione funzionale, l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la secolarizzazione, la democrazia, il pluralismo sociale e politico, per citarne alcuni – che, considerati universali in Occidente, risultavano del tutto carenti nelle società tradizionali: una categoria onnicomprensiva, quest’ultima, in cui far confluire il resto del mondo. E la religione ha indubbiamente costituito uno degli ambiti cruciali nella definizione di ciò che moderno non era.4
Non è possibile qui soffermarsi su una disamina critica di questo dibattito che, letto oggi da una prospettiva consapevole del carattere situato dei nostri strumenti concettuali, rivela la pervasività di alcuni pregiudizi che hanno influenzato anche in epoca recente il pensiero sociologico occidentale.5 Uno fra tutti quello secondo cui l’Occidente poteva compiutamente rappresentarsi come il punto di arrivo della storia dell’umanità, mentre l’islam si configurava come altro costitutivo rispetto alla modernità, sia in quanto universo religioso, che come fenomeno sociale collocato fisicamente e simbolicamente al di fuori dei confini dell’Europa e, in generale, dell’universo occidentale. Ma è indubbio come la critica alle teorie della modernizzazione nordamericana e il dibattito che ne è seguito poi in seguito abbiano generato un rinnovato interesse teorico nei confronti della modernità e della sua presunta crisi, così come nei riguardi di tutto ciò che da questo progetto è stato a lungo espunto, tenuto ai margini, se non addirittura negato.6 Scrive, a questo proposito Iain Chambers: «la modernità ha sempre litigato con se stessa, e la sua superficiale affermazione del “progresso” è sempre stata accompagnata da una serie di eventi che parlano d’altro e hanno altra origine».7 Ciò ha ovviamente contribuito a complicare il quadro, inducendo a collocare la questione della modernità all’interno di un contesto globale e in un quadro di connessioni di lunga se non lunghissima durata.8
I processi di globalizzazione, lungi dall’abolire territori esterni e culture percepite come estranee, hanno richiamato l’attenzione sulle continuità e differenze esistenti fra vecchie e nuove forme di demonizzazione dell’altro/a.9 L’inferiorizzazione delle popolazioni sottomesse, attraverso i dispositivi della razzizzazione, che in passato aveva fornito una legittimazione allo sfruttamento coloniale, ritorna nelle esperienze dei migranti globali di oggi e di coloro che, in qualche modo, vengono percepiti come tali.10 Si tratta di dispositivi che esprimono la loro dirompenza nelle pratiche di controllo sociale, esclusione, discriminazione e disumanizzazione attuate negli spazi pubblici come in quelli della quotidianità. Ogni giorno disponiamo di puntuali resoconti che ne confermano la tragica attualità. Ma le dimensioni plurime di questa violenza hanno modo di esprimersi, talvolta in maniera ambigua e trasversale, soprattutto a livello immateriale, attraverso la costruzione di immagini degradanti, rappresentazioni subdole ed essenzializzate dell’altro, dell’altra.
Le donne si trovano spesso al centro di queste costellazioni. Le donne musulmane, in particolare, con la loro evidenza corporea, oltre che simbolica, sembrano occupare un posto emblematico all’interno di narrazioni e pratiche dove la questione dei simboli religiosi è divenuta il nodo politico cruciale delle tensioni tra islam e Occidente, musulmani e culture politiche europee.11 Raffigurazioni di queste donne in termini degradanti, quali vittime oppresse dal dominio maschile, sottomesse a una tradizione religiosa considerata retrograda, oppressiva e inconciliabile con la modernità emergono con forza nel dibattito pubblico europeo. Il corpo femminile appare spesso trasformato in una sorta di corpo emblema di un discorso politico più ampio che, non di rado, alimenta forme di misconoscimento dell’altro/a.12
Eppure, analisi attente delle modalità attraverso cui queste donne negoziano le proprie appartenenze multiple e ricostruiscono il legame sociale fra soggettività e spazio pubblico sembrano rimandarci, oggi, un quadro sempre più polifonico, fatto di sovrapposizioni fra narrazioni, strategie e tecniche del sé difficilmente riducibili a unità.13 Se si rivolge lo sguardo alle rappresentazioni di sé e della propria identità da parte di donne musulmane di diversa origine ed estrazione che vivono attualmente in Europa e in Italia – come fanno alcune ricerche realizzate soprattutto nel corso degli ultimi dieci anni – le raffigurazioni statiche della categoria astratta ed essenzializzata della «donna musulmana» lasciano il campo a tutta una serie di strategie concrete di contro-narrazione e di resistenza attuate da queste donne negli spazi della quotidianità.14
De-essenzializzare la differenza
La crescente visibilità delle donne musulmane in Europa – evidenziata dal ritorno di simboli come il velo a cui viene attribuito un significato sempre più polisemico – e il loro crescente protagonismo costituiscono una sfida alle logiche dicotomiche retaggio del passato – Europa vs. islam, secolarizzazione vs. religione, emancipazione vs. oppressione – di cui si trova spesso traccia nel tempo presente.
La localizzazione spaziale di queste donne – che si trovano appunto in Europa – è assolutamente rilevante. Si tratta di donne che vivono in un contesto dove, seppur la religione musulmana sia divenuta nell’arco di pochi decenni la seconda religione per ordine di importanza, dopo quella cristiana, siamo ben lontani dal vivere in situazioni in cui il fatto sociale musulmano influenza e tende a permeare di sé tutti gli ambiti della vita politica, sociale, culturale, famigliare – come invece avviene in molti Paesi storicamente caratterizzati da una tradizione musulmana.15 Se, da un lato, una parte di esse viene ricondotta all’interno della generica categoria delle cosiddette «donne immigrate», dall’altro lato assistiamo a un crescente protagonismo di donne musulmane che in realtà non si sono mai spostate, che non provengono da alcun altrove, ma, in quanto figlie o nipoti di immigrati che sono giunti nei Paesi europei nel corso dei vari cicli migratori avviati a partire dagli anni Sessanta, sono oggi cittadine europee a tutti gli effetti. In Francia e Germania, ad esempio, la maggioranza dei musulmani che vive sul territorio nazionale possiede la cittadinanza del Paese di residenza (grazie anche a una legislazione favorevole in tal senso).16 Se nelle aree di più antica immigrazione ci troviamo già all’esistenza di una cosiddetta «terza generazione» discendente dai primi migranti – cittadini a tutti gli effetti del Paese europeo in cui sono nati e cresciuti –, in Italia e negli altri Paesi dell’Europa meridionale la consistenza delle generazioni più giovani assume una visibilità crescente.17
Da un islam che si configurava come fenomeno religioso strettamente legato al processo migratorio, trapiantato in terra europea, stiamo oggi assistendo, non senza conflitti, tensioni, scontri e incomprensioni reciproche, alla crescente affermazione di un islam post-migratorio, endogeno, autoctono, europeizzato, europeo, transnazionale.18 Un islam che non è semplicemente uscito fuori dalla sua geografia culturale tradizionale, ma che si trova ad essere protagonista, come emerge sin dai primi studi sul tema, di un vero e proprio «processo di creazione sociale», risultato dell’azione di costruzione dei protagonisti che si definiscono e ridefiniscono come musulmani in uno spazio sociale, culturale, politic...

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