Cosa Nostra Social Club
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Goffredo Plastino

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Cosa Nostra Social Club

Goffredo Plastino

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«I neomelodici sono il cancro di Napoli.» «I canti di malavita calabresi sono musicalmente insignificanti e vanno ben oltre l'apologia di reato.» Fin dagli anni novanta studiosi, giornalisti, politici, magistrati, scrittori e moralizzatori dichiarano che le canzoni «criminali» intonate in Campania e Calabria sono in grado di influenzare negativamente chi le ascolta, soprattutto i giovani, e quindi da bandire e dimenticare. In Italia, dunque, esisterebbe un'educazione musicale alla mafia impartita attraverso melodie e testi che, descrivendo comportamenti violenti, giustificano o determinano la violenza: un automatismo ancora indimostrato. Nonostante la censura culturale alimentata dai media, però, quelle ballate continuano a essere ascoltate. La trilogia dedicata alla Musica della mafia ha rappresentato un fenomeno discografico rilevante sia in Italia sia all'estero; autori e interpreti come Mimmo Siclari e Tommy Riccio vantano un nutrito seguito di fan irriducibili. Che si tratti di cd venduti nei vicoli o di video su YouTube, di neomelodici o di canzoni di carcere, la musica «criminale» intercetta una porzione di pubblico tutt'altro che trascurabile. Goffredo Plastino esamina le rappresentazioni della violenza individuale e del crimine organizzato nel canto popolare, nell'opera e nella popular music, riflettendo sul panico morale che circonda quei repertori musicali respinti come inaccettabili e sulla condanna che colpisce chi li esegue. Attraverso riferimenti ad autori quali Roberto Saviano e Leonardo Sciascia, a musicisti e cantanti come Fabrizio De André, i Giganti, Mina e Ornella Vanoni, Cosa Nostra Social Club per la prima volta descrive la nascita e la diffusione di un'«emarginazione musicale» ancora oggi pienamente in vigore.

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Information

Publisher
Il Saggiatore
Year
2014
ISBN
9788865763575

1. Guida all’ascolto

Il brigante cattivo

Giuseppe Musolino nacque nel 1876 a Santo Stefano in Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria: figlio di Giuseppe, boscaiolo e poi oste, e di Mariangela Filastò, da ragazzo lavorava con il padre, nei boschi e in osteria. Il 27 ottobre 1897, entrato in una cantina del paese, Musolino si imbatté in Vincenzo Zoccali, un mulattiere con il quale aveva già litigato il mese precedente per motivi riguardanti la «protezione» da entrambi accordata ad altre due persone. Musolino era probabilmente già affiliato alla criminalità organizzata locale, la «picciotteria»:1 a lui si era infatti rivolto un altro mulattiere, Rocco Versace, per essere difeso da un lontano parente. Vincenzo Zoccali ironicamente offrì da bere del vino a Musolino, che lo rifiutò. Ebbe inizio una lite che continuò all’esterno del locale, dove i due si sfidarono con il coltello: Musolino, ferito seriamente alla mano destra e quasi sopraffatto, chiese aiuto a suo cugino Antonino Filastò, che sparò a vuoto contro Zoccali e le persone che lo stavano aiutando, tra le quali il padre, Carmine Zoccali. Musolino riuscì comunque a scappare minacciando di morte Vincenzo Zoccali, accorgendosi poco dopo di avere perduto il suo berretto. Secondo la leggenda il berretto sarebbe stato raccolto proprio da quest’ultimo.
Il 29 ottobre, alle 4 del mattino, mentre stava aprendo la porta della stalla Vincenzo Zoccali venne sfiorato da una fucilata e poi da quattro colpi di pistola. Dopo quattro ore denunciò il tentato omicidio al vicebrigadiere del paese, dichiarando di avere riconosciuto tra gli spari le voci che lo minacciavano: erano quelle di Musolino e di Francesco Filastò. Anche Rocco Zoccali e Stefano Crea affermarono di avere sentito quelle voci. Durante l’ispezione vennero ritrovati sul luogo dell’agguato il berretto di Musolino, un fucile che sembrava essere il suo e poi anche il berretto di suo cugino Filastò. Musolino venne arrestato l’8 aprile 1898, anche grazie all’aiuto fornito ai carabinieri dal sindaco di Santo Stefano e da un amico di famiglia, Alessio Chirico. Durante l’inchiesta il vicebrigadiere riuscì a scoprire che Musolino aveva perso il suo berretto due sere prima, che il fucile ritrovato non era il suo, ma anche che Musolino era inserito nella mafia locale: l’attentato a Zoccali non era stato probabilmente opera sua, ma un’iniziativa dei suoi amici affiliati alla «picciotteria». I magistrati, tuttavia, non credettero alla ricostruzione degli eventi fornita dal vicebrigadiere, e neppure all’esistenza della criminalità organizzata a Santo Stefano in Aspromonte.
Il processo si svolse a Reggio Calabria, nel settembre del 1898, e durò soltanto tre giorni, dal 24 al 27. Durante il dibattimento Musolino si rivolse più volte con rabbia contro Vincenzo Zoccali e la sua famiglia: «Se esco libero vengo a mangiarti il fegato», «voglio vendere la carne degli Zoccali come quella dei maiali». L’avvocato degli Zoccali gli gridò contro: «Ma stai zitto, mafioso».2 Dopo un breve dibattimento la giuria popolare condannò Giuseppe Musolino a ventuno anni, due mesi e quindici giorni, e Antonino Filastò a otto anni. Dopo avere ascoltato la sentenza Musolino urlò a Zoccali: «Se non muoio, quando uscirò di prigione ti mangerò il fegato. E se sarai morto, ammazzerò la tua famiglia». In risposta Stefano Zirilli, padre della fidanzata di Vincenzo Zoccali, gli disse: «Intanto rosicchiati queste ventuno ossa».
Musolino e Filastò evasero il 9 gennaio 1899 dal carcere di Gerace (Reggio Calabria), dove erano stati rinchiusi poco dopo la sentenza. Da quel giorno Musolino, determinato a vendicarsi dei torti che riteneva di avere subito, diede inizio a una lunga sequenza di omicidi, ferimenti e attentati. Da latitante, spesso protetto dalla gente comune, Musolino ferì Stefano Crea, uccise Francesca Sidari (convivente di Stefano Crea), ferì Michele Surace (che immaginava fosse Crea), uccise il pastore Carmine D’Agostino (che collaborava con i carabinieri), compì un attentato dinamitardo contro la casa di Carmine Zoccali, ferì Stefano Zirilli, uccise Pasquale Saraceno (che considerava una spia), ferì Stefano Romeo (anche lui ritenuto una spia), uccise Stefano Zoccali (fratello di Vincenzo), uccise Alessio Chirico, ferì Francesco Sinicropi (che scambiò per Raffaele Priolo, un confidente dei carabinieri), ferì Giuseppe Angelone (ex carabiniere), ferì Antonio Princi (che, pur avendolo aiutato nella latitanza, aveva poi tentato di farlo catturare), uccise il carabiniere Pietro Ritrovato, uccise Francesco Marte (colpevole, essendo un membro della «picciotteria», di non avere obbedito all’ordine della malavita di uccidere Antonio Princi), e infine insieme ad altri due mafiosi tentò di uccidere Stefano Zirilli, che rimase invece ferito per la seconda volta.3
Questa impressionante serie di violenze avveniva mentre l’Aspromonte era pattugliato dai carabinieri e dall’esercito; mentre il re d’Italia Vittorio Emanuele III si chiedeva come mai non fosse possibile catturare un latitante sul quale c’era una taglia di 5000 lire (una cifra enorme in quegli anni); e mentre il mito di Musolino, il vendicatore imprendibile, si diffondeva in tutta Italia attraverso la parola scritta e cantata.
«La biografia romanzata, sullo stile del feuilleton, […] teneva banco dal punto di vista editoriale. I racconti [su Musolino] non erano anonimi bensì firmati. Una vita del brigante raccontata da Luigi Fragna e Gino Froio apparve a puntate su il Cannone di Napoli; un’altra, affidata a un giornalista calabrese, venne pubblicata da una casa editrice toscana. Il successo che arride ai libri e alle dispense irrita i benpensanti, che lo considerano un segno del deterioramento dei costumi, un fenomeno deleterio e diseducativo. In un saggio sulla rivista La vita internazionale, Angelo Bartolini riferisce sbalordito che, secondo un rivenditore di giornali di Bari, le dispense sul brigante vanno a ruba: se ne vendono dalle duemila alle tremila per numero. Lo scrittore aggiunge: “I ragazzi giocano per istrada a fare il Musolino e il più audace e il più abile tra essi, col coltello alzato, è l’eroe: alcune perfette canaglie che infestano la città con certi loro organini di Barberia, cantano la canzone di Musolino piena di sottintesi, di spirito di compassione e di audacie mafiose e il pubblico dei vetturini e della ragazzaglia ascolta, ride e applaude l’istrione che canta del brigante”. Sdegnato, il giornalista denuncia: “Al teatro delle marionette, che non è il regno delle sincere, ingenue risate dell’infanzia, ma una scuola di incubazione della camorra se non di peggio, il Meschino e i Paladini di Francia hanno ceduto il posto al bandito d’Aspromonte”. Bartolini riassume, infine, così i principi fondamentali che pervadono canzoni e dispense: “L’innocente non può sperare nella giustizia e nell’autorità legale: la vendetta contro coloro che ci hanno fatto del male è giusta”.»4
Giuseppe Musolino, protagonista di romanzi popolari a dispense, era un «superuomo di massa»: l’eroe che esprime una legge che la società non accetta, che realizza una sua forma di giustizia,5 non essendo tra l’altro un personaggio di fantasia nel quale immedesimarsi ma una persona (quasi completamente, si potrebbe dire) reale. Musolino tra l’altro alimentava il suo stesso mito, essendo disponibile a farsi intervistare mentre era latitante. Durante il colloquio con il giornalista socialista Domenico Nucera Abenavoli, avvenuto dopo l’omicidio di Pietro Ritrovato, il celebre bandito affermò di essere dispiaciuto di averlo ucciso. Nel 1902, prima del suo ultimo processo, Musolino dichiarò a un perito che lo stava interrogando: «Io sono molto popolare».6
Musolino era anche il protagonista di narrazioni cantate,7 ritenute pericolose dalle autorità e contro le quali vennero esercitate la repressione e la censura. Il 16 agosto 1900 l’ispettore Umberto Wenzel, che era stato inviato a Reggio Calabria con l’ordine di catturare o fare arrendere Musolino (senza peraltro riuscirvi), fece arrestare ad Acquaro (Vibo Valentia)8 Francesco Sciotta, Federico Reraco e Carmela Martino, colpevoli di avere venduto per strada fogli volanti con melodie e versi sul latitante; due di loro furono condannati dal Tribunale di Palmi (Reggio Calabria) a due mesi di carcere e a 100 lire di multa. Alla fine dell’anno altri musicisti di strada furono condannati e incarcerati a Reggio Calabria e a Bari per avere cantato una canzone dal titolo ’O bbrigante Musulino:
Nfra sepe, massarie, muntagne e bosche / se trova stu bbrigante Musulino / Ma nun è ’nfame e manco n’assassino, / È n’omme e core e mmale non ne fa. / Cammina p’ ’a nennetta sulamente, / P’ ’e monte, sulo, e sempe ’e nu penziere. / E quanno ’ncontra guardie e carabiniere / L’ ’e dispiace se l’ha dda sparà.
Tra siepi, masserie, montagne e boschi / si aggira questo brigante Musolino / Ma non è un infame e nemmeno un assassino, / È un uomo di cuore e male non ne fa. / Va in giro soltanto per vendetta, / Per i monti, solo, con un pensiero fisso. / E quando incontra le guardie e i carabinieri / È dispiaciuto se deve sparargli.9
Musolino, che riusciva a sfuggire alle perlustrazioni in Calabria, fu infine catturato il 9 ottobre 1901 nei pressi di Acqualagna (Urbino). Venne arrestato da due carabinieri che lo consideravano un tipo sospetto e non immaginavano di avere a che fare con il «terribile brigante» calabrese. Il nuovo processo ebbe inizio a Lucca il 15 aprile 1902 e terminò l’11 giugno, con la condanna all’ergastolo – con i primi dieci anni di segregazione –, che Musolino scontò recluso al penitenziario di Porto Longone (isola d’Elba), poi all’isola di Santo Stefano (Ventotene), quindi presso il manicomio di Reggio Emilia e infine al manicomio di Reggio Calabria, città nella quale morì nel 1956. Nel 1933 Giuseppe Travia, un affiliato alla «picciotteria» di Santo Stefano in Aspromonte e amico di Musolino, aveva dichiarato negli Stati Uniti di avere esploso lui il colpo di fucile contro Vincenzo Zoccali. Quando nel 1946 Musolino uscì dal manicomio criminale di Reggio Emilia, ad aspettarlo c’era Vittorio De Sica, che avrebbe voluto fare un film su di di lui.10 A Lucca ancora oggi ai bambini vivaci si dice: «Sembri un Musolino».

Il brigante buono

La storia di Giuseppe Musolino riassume i temi di cui si occupa questo libro: la violenza individuale e il crimine organizzato, le loro rappresentazioni in versi e in musica, il panico morale nei riguardi di questi repertori musicali, la criminalizzazione dei canti sulla malavita e dei loro esecutori. La distanza temporale e culturale che ci separa da Musolino e dai suoi atti violenti ci permette di osservarli con il necessario distacco: né la sua figura né le canzoni a lui dedicate ci sembrano ora così inquietanti come apparivano ai suoi contemporanei. È impossibile immaginare oggi che un cantante possa andare in prigione per aver cantato una ballata sullo spietato latitante. Il gruppo folk rock calabrese Kalamu, per esempio, ha in repertorio un brano il cui testo dice: «Arriva lu brigante Musolino / non chiedere perdono a li tuoi santi / che pe’ li tuoi peccati non c’è scampo».11 Le canzoni sulle gesta di Musolino sono adesso valutate positivamente e in contrapposizione ad altre ritenute più atroci, come quelle calabresi di malavita, perché: «Una cosa è il brigante buono, il Musolino che fugge braccato dalla legge, un’altra è lo ’ndranghetista che non fugge e che non ha torti da vendicare, ma si camuffa e colpisce nell’ombra».12
Chi alla fine dell’Ottocento e nei primi anni del secolo scorso era considerato il delinquente pluriomicida italiano per eccellenza, quelle canzoni che all’epoca sembravano ai benpensanti sdegnati musicalmente irrilevanti e piene «di audacie mafiose», e che aprivano le porte del carcere a chi le intonava: tutto ciò oggi è capovolto nel suo contrario. Questo radicale mutamento di prospettiva è stato reso possibile da un lavoro interpretativo volto a convertire in apprezzamento il disgusto (provato da un certo tipo di pubblico middle class e high brow) per la violenza nei canti sui malviventi, trasformandoli in un prezioso patrimonio accademico, politico, controculturale. Per spiegare il motivo del fascino sugli ascoltatori delle nefandezze narrate nelle ballate su quei briganti le cui azioni dimostrano «un surplus di violenza in larga misura non previsto e non tollerato normalmente», che «uccidono anche quando non è necessario, torturano le loro vittime, si compiacciono sadicamente dei loro delitti», è stato sostenuto che «le vittime dei ricatti, delle prepotenze e delle violenze dei briganti non appartengono mai alle classi popolari; anche se non aiuta i deboli, gli sfruttati e gli oppressi, il brigante quasi mai reca loro offesa; […] nel torbido compiacimento con cui le masse popolari gustavano il racconto di questi delitti c’era dunque un odio di classe che trovava una momentanea soddisfazione».13 Pertanto, «in questo tipo di componimenti musicali e poetici, siano essi semplici o evoluti, la figura del bandito si definisce sempre, sullo sfondo di un fiammeggiante scenario di violenza, di crudeltà e di sangue, nei limiti manifesti di un sentimento sincero di simpatia, di comprensione, persino di ammirazione. Gli atti feroci dei briganti, le loro azioni criminose, i loro gesti sanguinari escono in tal modo dalle regole della moralità (e dal codice penale) per configurarsi in un nuovo ordine di valori che trovano la loro giustificazione nel consumante desiderio degli oppressi e degli umili per un rinnovato sistema dove le parole libertà e giustizia assumano infine il loro naturale significato».14
Ma ritorniamo a Musolino. Orazio Strano (1904-1981) è stato uno dei più grandi e più noti cantastorie siciliani del secolo scorso. Cominciò a suonare a dieci anni: dopo una malattia contratta durante il servizio militare intraprese la carriera di cantastorie, grazie alla quale viaggiò intensamente in Sicilia e in Calabria. Nel dopoguerra Strano divenne celebre in Italia e all’estero;15 la sua morte fu commentata dai media italiani, a conferma di una notorietà che aveva valicato i confini regionali.16 Strano era infaticabile (era in grado di esibirsi dal vivo anche per quaranta giorni di seguito), e si documentava puntigliosamente sulle storie che traduceva in versi e musica. Il testo che segue è una trascrizione da un’esecuzione registrata della storia di Musolino cantata e narrata da Strano,17 e riguarda l’omicidio di Stefano Zoccali, avvenuto il 7 agosto 1899.18
(Parlato) Ma lu pinzeri soi // (cantato) era pessatu a Zocculi nnimicu troppu astutu / ca d’un latu curreva a n’autru latu / sperannu di scansari lu tabbutu / e a Melito ’nta dd’ura si truvava / unni carbuni e ligna cummerciava / Musulinu ammucciatu l’aspettava / ’nta lu stratune quann’è ca veneva / ma ’nveci d’iddhu ’u so frati spuntava / ca ccu ddu muli a lu paisi ieva / Peppinu lu chiamau: «Zocculi caru / unn’è ca vai cu ’sti muli a paru?». // (Parlato) «A lu paisi, sugnu carbunaru. E vui cca cu vi ci porta ’ngiru?» // (Cantato) «Aspettava a to frati mi ci sparu / ma mentra ca non spunta a ttia m’ammiru»; / e senza diri cchiù menza parola / ci tira unu corpa di pistola. // (Parlato) Cascau mortu lu giuvini carbunaru e Musulinu dissi: «Haiu levatu n’autru ’nfamuni! Ma ci avissi provatu cchiù piaciri ammazzannu a so frati Vicenzu».
(Parlato) Ma il suo pensiero // (cantato) era fisso su [Vincenzo] Zoccali, nemico troppo astuto, / che correva da una parte all’altra / sperando di evitare la cassa da morto, / e si trovava a Melito in quel periodo, / commerciando legna e carbone. / Musolino nascosto aspettava / che arrivasse per la strada: / ma al suo posto spuntò suo fratello / che andava al paese con due muli. / Peppino lo chiamò: «Zoccali, caro, / dove vai con questi due muli?» // (Parlato) «Al paese, sono carbonaro. E voi, che cosa vi porta da queste parti?» // (Cantato) «Aspettavo tuo fratello per sparargli / ma, dal momento che non viene, sparo a te»; / e senza dire più una mezza parola / gli tira un colpo di pistola. // (Parlato) Il giovane carbonaro cascò morto e Musolino disse: «Ho eliminato un altro infamone! Ma avrei provato più piacere uccidendo suo fratello Vincenzo».
La «verità» della storia di Musolino cantata da Strano è il risultato di un’opera di mediazione ideologica e di messinscena delle vicende reali. Agguato, dialogo, omicidio: tutto è organizzato in forme narrative e musicali che rendono comprensibili gli eventi riferendoli a un contesto culturale nel quale la «giustizia» si raggiunge individualmente. Non è possibile produrre una completa rappresentazione sulla pagina dell’elaborazione musicale di tale narrazione, del rapporto tra stili vocali, immedesimazione ed estraniazione, e bisognerebbe comunque ascoltare il testo qui citato nell’esecuzione registrata da Strano. Nondimeno, anche nella riduzione della performance a testo scritto appare un elemento ineliminabile: la violenza insopportabile di Musolino, nella quale non c’è alcuna traccia di odio di classe. Se noi veniamo a patti con essa, se riusciamo a riportare all’interno di un’esperienza estetica un’odiosa rappresaglia trasversale, un’imboscata, il reale assassinio di un innocente e la soddisfazione dell’omicida, è perché abbiamo elaborato una serie di norme interpretative in base alle quali crediamo di sapere come questo tipo di storie venivano ascoltate e giudicate dal pubblico di Strano. E dal momento che sono diventate un discreto capitale culturale (anche accademico), le possiamo ascoltare, leggere, esaminare e far studiare senza timore. Adesso che siamo sicuri di capire queste «favole dell’ultraviolenza»,19 il «terribile brigante» è diventato umano, nonostante l’evidenza del contrario.
Questo libro si occupa di un atteggiamento culturale dell’Italia contemporanea: la legittimazione o la riprovazione di repertori musicali marginali, scabrosi, intollerabili, il cui ascolto è da evitare o approvare, da censurare o approfondire e pubblicizzare a seconda di chi parla o scrive, dei criteri sociali, accademici ed economici di riferimento, e del gruppo sociale o della collettività a cui ci si rivolge. Perché poi si sa: il brigante buono è sempre quello che piace a te e a quelli come te, tutti gli altri sono cattivi.

Le commissioni di vigilanza e garanzia

Di recente è tornato a farsi sentire in Italia lo sdegno nei riguardi delle «audacie mafiose» di alcune canzoni e sono riemersi il disprezzo e l’indignazione verso determinati repertori musicali descritti di nuovo come una «scuola di incubazione della camorra». Dalla fine degli anni novanta un’ondata di panico morale20 si è sollevata nella società italiana contro le cosiddette «ballate criminali» della ’ndrangheta calabrese: l’intensità delle reazioni contro ciò che è stato valutato come ...

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