Storia della Germania
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Gustavo Corni

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La Germania è da sempre un enigma di non facileinterpretazione per gli altri popoli, nel bene e nelmale. Nell'epoca di Angela Merkel, all'ammirazioneper la «locomotiva d'Europa», fulcro del processodi integrazione continentale, è subentrato il timoreper una potenza in grado di tenere sotto scacco lealtre economie europee. Per districare i nodi delpresente e guardare con consapevolezza ai traumidel passato, Gustavo Corni propone di rileggere lastoria tedesca in un'ottica di lungo periodo.Il percorso che si apre con i brillanti successipolitico-diplomatici di Otto von Bismarck e giungefino alla caduta del muro di Berlino, alla riunificazionegestita da Helmut Kohl e alle sfi de del presente èstraordinario e drammatico al punto che si è parlatodi unSonderweg, una «via peculiare». Grazie a Bismarck, la Germania nacque sconvolgendo gli equilibrieuropei, ma unifi cando soltanto una parte dellepopolazioni di lingua e cultura tedesca. Da questeparticolari condizioni di partenza maturarono lepremesse dei tormentati eventi novecenteschi: l'imperialismo guglielmino, la Grande guerra, ildiktat di Versailles, l'occasione sprecata di Weimar, infine l'ascesa del nazismo. Solo andando alle radicisi possono comprendere il forsennato sogno di dominiodi Hitler, il suo «tragico successo» popolare, ildramma senza pari dell'Olocausto e il disastro dellaSeconda guerra mondiale. E proprio la capacità ditener desta la coscienza della barbarie nazista è trai fattori che hanno permesso alla Germania di risollevarsi, di sopportare la divisione lungo la Cortina diferro e di raggiungere la riunificazione.I protagonisti, le trame politiche – ufficiali e sotterranee–, le trasformazioni economiche, sociali eculturali: Storia della Germaniaè un punto di riferimentoinaggirabile per chiunque voglia conosceremeglio il «paese di mezzo», il più ammirato e insiemeil più temuto d'Europa.

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Information

Publisher
Il Saggiatore
Year
2017
ISBN
9788865765913
1. Il paese di centro. Le premesse dell’unificazione
I. Dal Sacro romano impero germanico agli stati territoriali
Alla vigilia dell’unificazione, sancita da una scintillante cerimonia a Versailles il 18 gennaio 1871, la Germania si trovava nella difficile situazione di essere un’entità geografica definibile in modo vago, ma una realtà linguistica e culturale consolidata e di prima qualità, e un’entità politico-statuale debole e frammentata. Dal punto di vista geografico la Germania era priva di sicuri confini naturali, che potessero delimitarne l’ambito; insediate nelle grandi pianure dell’Europa centrale, le popolazioni germaniche avevano ampi spazi a disposizione, segnati in modo insicuro da una rete trasversale di fiumi: Reno, Meno, Danubio, Elba e altri. Questa indeterminatezza dei confini aveva un duplice riflesso: per quanto riguarda la difesa, i territori germanici erano difficilmente difendibili di fronte a incursioni straniere. L’altra faccia della medaglia era ovviamente che i territori tedeschi potevano essere altrettanto facilmente dilatati a danno dei popoli circostanti, se solo si fossero presentate le condizioni favorevoli, con una grande potenza germanica insediata al centro del continente. Nel corso di una complessa vicenda storica, i popoli di lingua e cultura germanica avevano goduto di una fase piuttosto lunga di unione politica. Mi riferisco al Sacro romano impero germanico, al «Reich» ricostituito da Carlo Magno nel ix secolo, il cui centro di gravità si era poi gradualmente spostato dalla Francia verso l’area tedesca. D’ora in poi, userò questo concetto di «Reich» – non perfettamente traducibile in italiano – per indicare appunto i territori storicamente facenti parte del Sacro romano impero e successivamente inglobati dalla Prussia. Tuttavia, questo, che nel Seicento il giusnaturalista Samuel Pufendorf aveva definito un «mostro» dal punto di vista politico e istituzionale, era tutt’altro che espressione dell’organica unione dei tedeschi. All’interno dell’impero si trovavano infatti territori – per esempio nell’Italia centrale, nei Paesi Bassi, in Belgio ecc. – che di tedesco non avevano nulla.
D’altra parte, i flussi di colonizzazione verso Oriente, sanguinose crociate lanciate contro il mondo degli slavi pagani, avevano portato migliaia e migliaia di tedeschi, nobili, mercanti e contadini, a stabilirsi in modo permanente in territori staccati dalla madrepatria. Basti pensare agli insediamenti di tedeschi nel Baltico orientale, in Romania, nella pianura ungherese, fino sulle rive del Volga in Russia. In alcuni casi, questi tedeschi avevano svolto importanti funzioni nella classe dirigente dei paesi che li ospitavano e vi si erano inseriti pienamente; in altri momenti, tuttavia, riemergeva il pericolo (per i popoli ospitanti) che fra i coloni tedeschi prevalesse il desiderio di ricongiungersi con la lontana madrepatria. Il Sacro romano impero germanico era perciò un contenitore del tutto insufficiente e inadatto a rappresentare gli interessi dei tedeschi. La dinastia degli Asburgo di Vienna, che a partire dal 1452 deteneva ininterrottamente la corona imperiale, aveva attuato una politica che privilegiava sempre più i suoi interessi dinastici e trascurava quelli dell’impero – dei tedeschi. Nella sua secolare e infine vittoriosa lotta contro i turchi, la casata viennese aveva notevolmente ampliato i suoi domini verso l’area danubiano-balcanica, riducendo di conseguenza la propria presa sui territori tedeschi. L’Austria asburgica non poteva perciò essere definita in senso stretto una potenza germanica, anche se la sua classe dirigente continuava a rimanere tedesca per cultura e nazionalità.
Gli Asburgo avevano vita più facile nei vasti territori dell’Europa orientale e sud-orientale, in cui, sconfitti i turchi, non esistevano ostacoli politico-militari rilevanti, piuttosto che nei territori dell’impero germanico, in cui dinastie principesche e (nel caso delle città imperiali e di quelle anseatiche) patriziati mercantili gelosi delle proprie prerogative e della propria autonomia contrastavano con successo i vari tentativi attuati dai sovrani di casa Asburgo per riformare in senso accentratore l’impero. A causa della loro specifica debolezza, accentuata dalla profonda lacerazione religiosa provocata dalla Riforma protestante, i territori germanici furono a lungo sballottati tra le grandi potenze confinanti: Francia, Russia, Svezia. Il momento in cui la debolezza della Germania come entità politico-istituzionale emerse con la massima chiarezza fu la guerra dei Trent’anni (1618-48). In quei terribili anni, descritti con straordinaria vivezza nel Simplicissimus di Hans Jakob von Grimmelshausen, i territori tedeschi furono saccheggiati e spogliati dagli eserciti in lotta, le varie dinastie tedesche strumentalizzate, mentre la miglior gioventù tedesca servì da mercenaria per le grandi potenze europee.
Non è un caso che stati territoriali tedeschi di una certa rilevanza, anche sul piano internazionale, si siano formati ai margini dell’impero, il cui centro era segnato da una frastagliata costellazione di centinaia di entità politiche, che andavano da stati territoriali dinastici di medie dimensioni (la Baviera, la Sassonia – per fare due esempi significativi) a territori minuscoli, le cosiddette Ritterschaften, costituite da qualche borgo rurale con talora poche centinaia di abitanti. Dell’Austria abbiamo già detto; dopo aver respinto l’attacco turco contro Vienna (nel 1683) e avere acquisito definitivamente l’Ungheria, la dinastia degli Asburgo aveva spostato il centro di gravità della sua politica verso Est. L’altra potenza, che fra Sei e Settecento emerse dal gran numero di insignificanti stati territoriali per assumere un proprio ruolo internazionale autonomo, era la Prussia. Lo stato territoriale prussiano si era costituito gradualmente, grazie a un’accorta politica matrimoniale e di alleanze attuata dalla dinastia degli Hohenzollern, una famiglia che proveniva dalla Germania sud-occidentale e che si era spostataa Est a seguito della già ricordata colonizzazione medievale verso Oriente. Partendo da un nucleo territoriale rappresentato dal Brandeburgo, gli Hohenzollern avevano via via acquisito una serie di domini sparsi su tutta l’area dell’impero e anche fuori da esso. Basti ricordare che la Prussia in senso proprio, quella che sarebbe diventata più nota come Prussia orientale, si trovava fuori dai confini dell’impero; era un territorio feudo dei re di Polonia, che era stato colonizzato nel corso del Medioevo dai cavalieri dell’Ordine teutonico. A seguito della laicizzazione dell’ordine, nel 1618 questo ampio territorio incuneato nel mondo slavo era stato acquisito per via ereditaria dagli Hohenzollern.
Poiché l’unificazione della Germania avvenne all’insegna del dualismo fra Austria e Prussia, converrà ora dedicare un’analisi più ravvicinata, anche se sintetica, alle caratteristiche storiche di questi stati territoriali. Le vicende storiche dell’Austria sono inestricabilmente legate alla dinastia degli Asburgo, che – come abbiamo visto – detenne per secoli la corona imperiale. L’acquisizione per mezzo di una serie di guerre contro il minaccioso impero ottomano di vasti territori al di fuori dei confini orientali dell’impero germanico spostò gradualmente il fulcro della politica austriaca. Dopo la sottomissione dei ceti di fede protestante, la cattolicissima dinastia degli Asburgo si erse a difensore dell’Europa cattolica e della sua civiltà contro la minaccia turca. La politica austriaca assunse un marcato dualismo, che finì per paralizzarla: da una parte, per cultura e nazionalità l’Austria era un territorio tedesco; la dinastia e la classe dirigente, formata da un solido ceto burocratico e nobiliare, erano proiettate verso il mantenimento dell’egemonia in seno all’impero e anzi verso una sua riforma in senso accentratore. D’altra parte, le vittorie militari e lo spirito quasi missionario che pervadeva la politica asburgica verso l’Oriente slavo spingevano in direzione opposta. Il risultato di queste contrastanti tensioni fu una politica non priva di oscillazioni, che puntava a consolidare la grande potenza asburgica su tutti gli scacchieri disponibili: Germania, Europa sud-orientale, ma anche Italia. Tuttavia, per una politica a tutto campo mancavano le risorse materiali, in primo luogo economiche. Entro i domini asburgici si trovavano infatti territori con gradi di sviluppo economico e sociale molto diversi; al nucleo occidentale, più preparato allo sviluppo industriale che si sarebbe poi verificato nel corso dell’Ottocento, si contrapponevano territori orientali, fortemente arretrati dal punto di vista economico, culturale e sociale. Mentre a Vienna e nei territori occidentali del vasto impero (in particolare nella Lombardia dei Verri e dei Beccaria) la burocrazia realizzava, all’insegna dell’assolutismo illuminato, importanti riforme (i catasti, il distacco fra chiesa e stato, codici giuridici moderni), la maggior parte dei territori orientali era ancora immersa nel feudalesimo più profondo.
Anche la Prussia, al momento della sua rapida ascesa al rango di potenza continentale, presentava una notevole varietà di caratteri fra i suoi territori, che si estendevano, con molte interruzioni, dal Reno alla Prussia orientale. Mentre nelle zone occidentali (ducati di Jülich, Berg, Mark e Ravensberg) vigeva una struttura fondiaria in cui predominava la piccola e media coltivazione contadina, con uno sviluppo incipiente di manifatture tessili grazie ai legami con i mercati olandesi e fiamminghi, nel cuore dei possedimenti prussiani, che si estendevano oltre il fiume Elba, predominava una struttura agricola fondata sulle riserve gestite direttamente dal ceto nobiliare degli Junker. Si può dire che l’essenza della monarchia prussiana sia rappresentata appunto dallo stretto legame tra sovrano e nobiltà proprietaria terriera, generalmente nota come «Junkertum». Questa nobiltà, che per i parametri europei non può essere considerata particolarmente ricca, era insediata ormai da secoli in quei territori. Tra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento, grazie all’abile e decisa opera del granduca Federico Guglielmo (1640-88) e dei re Federico Guglielmo i (1713-40) e Federico ii, detto il Grande (1740-86), la dinastia si assicurò la incondizionata fedeltà e i servizi degli Junker, ai quali vennero affidate le posizioni di vertice nel corpo ufficiali e nella burocrazia civile. In cambio, la nobiltà ottenne il riconoscimento dei suoi domini nelle campagne su una popolazione contadina ridotta in condizioni di quasi servaggio. L’alleanza fra re e Junkertum rappresentò da quel momento il perno su cui la Prussia poté costruire le sue fortune.
La politica di Federico il Grande, ammirato da Voltaire e dai principali intellettuali del suo tempo come esempio più alto dell’assolutismo illuminato, risentì di questo compromesso strutturale; le pur significative riforme avviate dal sovrano, in campo giudiziario, sociale, militare, non indebolirono il ruolo egemonico della nobiltà proprietaria terriera, anzi lo esaltarono. La politica dei sovrani prussiani nel corso del Settecento puntò a massimizzare le modeste risorse di cui il loro stato disponeva (la popolazione prussiana non superava gli 8 milioni di abitanti – alla metà del secolo – contro i 22 della Francia, i 20 dell’impero asburgico, gli oltre 15 dell’Italia). Nell’agricoltura, per iniziativa dello stato, furono attuate tempestivamente riforme in campo agronomico a cui gli Junker seppero in generale adattarsi bene; nel campo manifatturiero fu ancora lo stato ad attuare una politica interventistica, e un analogo discorso può essere fatto per l’ambito educativo e scolastico. Ma fu soprattutto in campo militare che la Prussia compì i progressi più eclatanti. Il re Federico Guglielmo i creò un esercito, piccolo in termini assoluti, ma ampio rispetto alle dimensioni della popolazione e assai ben addestrato, tenuto insieme dall’impegno incondizionato della nobiltà, che ne monopolizzava il corpo ufficiali. Basti ricordare che, alla morte di Federico il Grande, dal grado di maggiore in su troviamo 689 nobili contro 22 borghesi. Fu proprio Federico il Grande, un sovrano intriso di cultura illuministica, ma anche di un forte e cinico senso dello stato, a servirsi di questo moderno strumento di guerra. Attraverso una serie di abili campagne militari, Federico strappò la Slesia ai domini asburgici e la Pomerania citeriore alla debole Polonia. La partecipazione della Prussia, con Austria e Russia, alle tre successive spartizioni, che determinarono la scomparsa dello stato polacco (1772-95), sancì l’ascesa del piccolo stato fra le potenze militari e politiche di primo rango in Europa. Il dualismo fra Austria e Prussia avrebbe determinato i destini della Germania nel secolo seguente.
II. Restaurazione, liberalismo e sviluppo economico nel «Vormärz»
Il termine «Vormärz» si riferisce al marzo 1848, quando in Germania esplose la rivoluzione liberal-borghese; esso è impiegato comunemente nella letteratura tedesca come equivalente del nostro Risorgimento. L’impatto della Rivoluzione francese sulla Germania fu forte, da molti punti di vista. I contatti con le idee della rivoluzione lasciarono germi significativi in settori della nobiltà, ma soprattutto della borghesia: l’idea di nazione, di rappresentanza dei cittadini al di là delle distinzioni di ceto, fu esportata dagli scritti dei rivoluzionari francesi non solo a Magonza, unico significativo caso di repubblica esemplata sul modello francese (1792-93). Un impatto ancora più forte lo ebbe il trascinante esempio dai successi militari della Francia rivoluzionaria e, poi, napoleonica. Le grandi vittorie di un esercito di massa, fondato sull’idea di «nazione in armi», misero a nudo i limiti dell’assolutismo illuminato austro-prussiano. La difesa tenace da parte dei sovrani di casa Asburgo e di casa Hohenzollern delle gerarchie sociali esistenti risultò arretrata di fronte alla nuova epoca storica, aperta dalla Rivoluzione francese.
Ma l’impatto degli eventi d’Oltralpe fu forse ancora più forte in senso indiretto, per reazione. Le sconfitte militari, che decretarono la riduzione della Prussia e dell’Austria – per non parlare degli stati territoriali minori – al rango di vassalli dell’imperatore dei francesi, determinarono per reazione una rinascita dello spirito nazionale. I «Discorsi alla nazione tedesca», tenuti dal filosofo Johann G. Fichte a Berlino, nel 1807-08, rappresentano il più noto esempio di un ragionamento politico nuovo per la cultura tedesca, imperniato sull’esaltazione della nazione, delle sue peculiarità, per non dire della sua superiorità rispetto alle altre nazioni. Il riferimento in negativo per Fichte, e per i molti altri intellettuali che si mossero in quegli anni sulla sua scia, era ovviamente quello della nazione francese. Ma non si deve dimenticare che i discorsi di Fichte erano stati preceduti dalla ricca produzione letteraria di Goethe e di Schiller, esaltati in quel periodo come gli araldi della libertà tedesca. A ben vedere, questi e altri intellettuali del tempo guardarono con forti aspettative allo stesso Napoleone, giudicando con un misto di ammirazione e dispetto colui che aveva spazzato via l’antiquata struttura dell’impero, lasciando campo libero alle forze della modernità. In effetti, tra il 1803 e il 1806 l’imperatore vittorioso impose la cancellazione dalla carta geografica di un centinaio delle più piccole entità dell’impero, consentendo ai maggiori stati territoriali di ingrandirsi, e abolì definitivamente il Sacro romano impero (nel 1806). Francesco ii d’Asburgo assunse da quel momento il titolo ufficiale di imperatore d’Austria.
In questo contesto di impetuosa rinascita nazionale si colloca il fenomeno dei cosiddetti «corpi franchi» (Freikorps), gruppi di volontari che accorsero nelle fila dell’esercito prussiano per combattere contro l’odiato invasore francese. Malvisti dagli ufficiali di carriera, questi volontari erano perlopiù giovani, in gran parte studenti, appartenenti sia alla nobiltà che alla borghesia. In seno ai corpi franchi si cementò un nuovo spirito nazionale, insofferente nei confronti dell’eredità del passato e desideroso di superare i particolarismi, che tanto avevano danneggiato la nazione tedesca nel passato. La grande vittoria di Lipsia degli alleati anglo-austro-russo-prussiani contro Napoleone, nell’ottobre 1813, venne non a caso definita come «battaglia dei popoli», nonostante fosse combattuta ancora sotto le tradizionali bandiere delle dinastie regnanti. Era cambiata la mentalità in vasti settori dell’opinione pubblica. Le timide riforme attuate in Prussia dai ministri Heinrich von Stein e Karl August von Hardenberg, nel primo quindicennio del secolo, furono sì in parte boicottate o svuotate dall’opposizione nobiliare, tuttavia, servendosi di una burocrazia come sempre efficiente e disponibile a operare per il bene dello stato, Stein e il suo successore attuarono una serie di incisivi interventi. Segnalo in particolare la riforma delle amministrazioni municipali e degli ordinamenti corporativi in campo manifatturiero, la ristrutturazione del gabinetto regio in un moderno governo di specialisti e, infine, la legislazione di riforma fondiaria, di cui parleremo diffusamente più avanti.
Questo tipo di riforme venne attuato con modalità abbastanza simili negli altri principali stati territoriali, in cui la politica di graduale adattamento ai tempi nuovi venne messa in atto da una burocrazia ancora fortemente permeata dai valori dell’assolutismo illuminato, ma che non era stata immune dagli influssi della Rivoluzione francese. Anche nell’Austria governata da Klemens von Metternich non si può parlare di una restaurazione in senso stretto.
Il periodo successivo al 1815 fu in tutta la Germania – beninteso, con notevoli differenze fra territorio e territorio – una fase di incubazione dei nuovi fermenti del liberalismo. La Germania era formata in questo periodo da 35 stati territoriali dinastici, ai quali si aggiungevano quattro «città libere» di antica discendenza dalla Lega anseatica (Amburgo, Brema, Lubecca e Kiel). La carta geopolitica della Germania si era così notevolmente semplificata rispetto al passato, anche se rimaneva un intricato puzzle di interessi contrapposti. Sparito l’impero, nel corso del congresso di Vienna venne istituita una confederazione (Deutscher Bund), presieduta dall’imperatore d’Austria. Si trattava comunque di un’entità politica di modesto spessore, che ancor meno dello scomparso impero era in grado di determinare una politica comune tedesca. Questa inadeguatezza fu avvertita ancor più che in passato da un ceto borghese preoccupato per la mancanza di uno stato tedesco unito. Un’accresciuta, e anzi tormentata sensibilità dovuta in primo luogo al già ricordato influsso della Rivoluzione francese. Oltreché indiretto, questo influsso era stato diretto in alcune regioni occidentali, che erano state soggette al dominio francese (nel cosiddetto Regno di Westfalia, istituito nel 1807 e affidato a Gerolamo Bonaparte). Ma non va sottovalutato il peso crescente dei fattori economici. Il blocco continentale, voluto da Napoleone in chiave anti-inglese, aveva favorito un certo sviluppo; dopo la caduta dell’imperatore si erano stretti i legami con la Gran Bretagna, che grazie al suo anticipato sviluppo economico era divenuta importatrice di prodotti agricoli e semilavorati dalla Germania stessa. L’osservazione dello sviluppo britannico e la constatazione della superiorità economica di paesi come la Francia e il Belgio misero in moto riflessioni di economisti e di intellettuali sull’importanza dell’unità politica come presupposto per lo sviluppo economico. In terzo luogo, va ricordata l’influenza dei nuovi miti nazionali e la diffusione delle prime forme di «nazionalizzazione delle masse» – secondo la fortunata definizione dello storico George L. Mosse. Nei decenni successivi alla caduta di...

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